
Hillary Clinton con una parte del suo staff per la campagna elettorale. Da sinistra, Jennifer Palmieri, capo della comunicazione; Robby Mook, manager della campagna; John Podesta, già chief of staff di Bill Clinton nonché consigliere di Barack Obama e presidente della campagna; Huma Abedin, braccio destro e confidente di Hillary e ora anche vicepresidente della campagna Clinton 2016
Mario Testino / Art Partner
Hillary Clinton deve la sua reputazione di inaffidabilità a una singola, grande e ammirevole decisione che prese molto tempo fa. E a una serie di disorientate reazioni che questa sua decisione ha suscitato e continua a suscitare. E agli odii e alle paranoie che, come erbe infestanti e muffe, alla fine sono scaturite da quel disorientamento. È una lunga storia. E ogni nuova fase in questa lunga storia le ha fatto meritare più stima, anche se alcune di queste fasi richiedono troppe spiegazioni.
La grande e ammirevole decisione è quella che la Clinton prese a metà degli anni Settanta – una decisione che presero lei e Bill insieme: prepararsi a perseguire una carriera congiunta. I due avevano frequentato college e università nel Nord e nell’Est del Paese (e, nel caso di Bill, Oxford) in un periodo in cui, tra gli studenti, le opinioni politiche e i presupposti culturali pendevano con decisione, e talvolta in modo radicale, verso sinistra.
Nel 1969, Hillary era un leader della protesta a Wellesley mentre Bill a Oxford aiutò a organizzare una delle grandi manifestazioni contro la guerra in Vietnam – e questo significa che entrambi hanno respirato l’aria di sinistra e hanno pensato gli stessi pensieri di molti altri, anche se nessuno dei due ha sbandato verso l’estremismo.
Come chiunque altro che sia stato coinvolto nell’ampio Movimento con la “M” maiuscola di quei giorni, un movimento liberal-and-radical, dopo un po’ Hillary e Bill si accorsero che la brezza di sinistra che soffiava
dalle università e dagli ambienti antagonisti non era in procinto di investire l’intero Paese. Avevano fatto campagna elettorale per George McGovern. Il modo in cui McGovern fu sconfitto non faceva pensare che siffatte campagne, decisamente di sinistra e provocatoriamente conflittuali, fossero una buona idea per il futuro. Ma qual era, quindi, una buona idea? Una buona idea i Clinton la trovarono e questa idea era diversa da quella di chiunque altro.
Alcune persone, che avevano un background simile al loro, decisero di accettare la realtà nazionale, si sbarazzarono completamente di quelle che erano state le loro idee da studenti e si impegnarono a perseguire carriere politiche convenzionali.
Altre persone con un passato nei movimenti di protesta preferirono ritirarsi nelle cittadine universitarie e nei quartieri hippy, dove potevano rifiutare nel suo complesso la realtà nazionale e, ciò nonostante, perseguire piacevolmente carriere politiche di sinistra a livello locale. Tra questi c’era ad esempio Bernie Sanders dell’Università di Chicago, che aveva cinque o sei anni più dei Clinton, e che, pur avendo delle connessioni con la vecchia sinistra che loro non avevano mai avuto, attingeva alla stessa atmosfera della sinistra studentesca – quel Bernie che ha cercato di ottenere quei modesti successi che era possibile raggiungere nell’arcadica Burlington, in Vermont.
Ma Hillary e Bill decisero qualcosa di diverso: decisero di accettare la realtà nazionale e di tuffarcisi dentro, mantenendo però tutto ciò che fosse possibile delle loro idee progressiste di ampio respiro e della loro sensibilità culturale. E, per di più, lo fecero nel modo più audace che si potesse immaginare, e cioè adottando come base lo Stato dell’Arkansas in cui era nato e cresciuto Bill – quell’Arkansas che aveva dato soltanto il 31 per cento dei voti a McGovern. Così i Clinton entrarono nel mondo politico dell’Arkansas – Bill come un politico in cerca di voti, Hillary come leader di questa o di quella campagna riformista. E ci entrarono con l’intenzione di evitare il destino di McGovern.
Forse, se uno dei due avesse avuto inclinazioni teoretiche, avrebbero provato a inventarsi una nuova dottrina della storia, dell’economia e della filosofia politica americane per spiegare che cosa speravano di realizzare – un qualche nuovo racconto della politica americana che potesse permettere loro di allontanarsi in punta di piedi dalle guerre ideologiche destra-sinistra che si erano rivelate fatali per ogni altro leftist. Ma loro non erano dei filosofi della politica. Erano dei politici pragmatici ed erano degli specialisti della politica e la loro unica prospettiva di successo in Arkansas era quella di muoversi su una base di azione politica e di specialismo. E niente altro. Azione politica significava contatto umano e piccoli uditori (una specialità di Bill), in cui potevano essere evitati dibattiti ideologici bizantini. Azione politica significava anche raccogliere soldi e questo li condusse nel torbido mondo delle banche e dell’immobiliare – si trattava di una necessità, dal momento che nessuno dei due proveniva da una famiglia ricca.
Specialismo significava questioni politiche circoscritte e precisi dettagli, lontani dai grandi temi filosofici (e questa era una specialità di entrambi). Hillary e Bill diventarono dei Ronald Reagan alla rovescia: soltanto precisi punti programmatici e nessun tema generale. Le “liste della spesa” politiche erano la loro poesia. Erano dei maestri delle frasi non altisonanti – e anche questa era una necessità, dal momento che nell’America degli anni Settanta e Ottanta e anche in seguito, le frasi altisonanti dovevano essere o “di destra” o “di sinistra”, e le frasi “di destra” a loro non piacevano e le frasi “di sinistra” significavano un destino tragico.
Il mondo insisteva comunque nel conferire etichettature ideologiche? I Clinton in Arkansas ne acquisirono una dal Democratic Leadership Council (DLC) che presentava se stesso come corrente centrista all’interno del Partito Democratico, una posizione diversa da quella liberal del Nord del Paese. Bill divenne formalmente il leader del Council e questa, politicamente parlando, fu una buona mossa. Il DLC gli diede un palcoscenico nazionale. “Centrismo”, tuttavia, era un’etichetta fuorviante. Era vero che per vincere le elezioni Clinton mostrava la volontà di scendere a compromessi anche con i suoi stessi compromessi. “Centrismo”, però, implica una personalità centrista, accettabile per chiunque nell’intero spettro politico e culturale, e questo non era il caso dei Clinton. L’impronta di sinistra della loro generazione era rimasta stampigliata sulla loro personalità – il matrimonio egualitario con una carriera in coppia (“paghi uno, prendi due”), un’apertura verso il mondo, un’inclinazione per la modernità più che per la tradizione, un antirazzismo viscerale. E mantennero le loro amicizie del tempo in cui erano studenti con quei secchioni della politica che erano cresciuti con loro e continuarono a rifinire il loro originari ideali progressisti social-egualitari. Ideologicamente, a quel tempo, i Clinton erano indefinibili – e anche questa, politicamente parlando, fu una buona mossa.
Emerge la diffidenza
L’indefinibilità permise a Bill di vincere nel 1992. Con il 43 per cento dei voti avrebbe potuto farcela a stento, nel contesto di una corsa a tre, ma vincere significa vincere. La sua vittoria ruppe quello che, fin dal 1968, sembrava essere un lucchetto, quasi permanentemente chiuso, messo dai Repubblicani sulle elezioni nazionali. La vittoria sembrava suggerire che lui e Hillary avessero perfezionato già ai tempi dell’Arkansas la formula per contenere la marea ideologica che aveva spinto l’America a destra. Ma in realtà loro non avevano scoperto alcuna formula: si erano limitati a muoversi in modo strategico. Se ne accorsero anche i Repubblicani e questo li portò a percepire qualcosa di falso nelle campagne di Bill. Agli occhi dei Repubblicani, Bill aveva ottenuto le sue vittorie perché si era subdolamente presentato come un po’ conservatore – per poi rivelare, una volta arrivato alla Casa Bianca, di essere un liberal. D’altra parte, un numero consistente di liberal iniziò a vedere in Bill – e abbastanza presto anche in Hillary – una subdola falsità. I liberal a tutto tondo ritenevano che Bill alle elezioni del 1992 si fosse presentato come un liberal per poi comportarsi, una volta in carica, come un conservatore – un campione del Nafta, un nemico del vecchio sistema di welfare.
Così, i liberal e i conservatori si unirono, nei fatti, e lanciarono le loro accuse contro i Clinton in armonia stereofonica da sinistra e da destra e descrissero i Clinton come persone false, del tutto diverse da Mondale&Dukakis, esponenti tutti d’un pezzo del Partito Democratico, e del tutto diversi dai reaganiani, esponenti tutti di un pezzo del Partito Repubblicano. Molto presto e con effetti disastrosi, gli attacchi stereofonici si diressero prevalentemente contro Hillary. Questo perché, ancora ai tempi dell’Arkansas, Bill aveva fatto affidamento su Hillary per condurre le campagne per delicate riforme politiche (ad esempio riforme dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione) e si era rivolto a lei per fare lo stesso alla Casa Bianca: Hillary guidò la task force che doveva sviluppare la principale riforma sociale di Bill, che aveva l’obiettivo di sfociare in un sistema sanitario nazionale.
Questo era un progetto di grande peso sotto tutti i punti di vista (storico, economico, sociale), un progetto che assestava un duro colpo alle disuguaglianze presenti nel modello di vita americano. Hillary procedette proprio come ci si aspettava che procedesse, considerata la loro esperienza in Arkansas. Lei e il suo team incorporarono nel loro progetto l’impegno fondamentale di perseguire risultati progressisti in un modo non ideologico. Il progetto prevedeva molti meccanismi di mercato e un ruolo per le aziende private che Harry Truman non avrebbe mai tollerato e che i Paesi occidentali europei e il Canada non avevano mai neppure preso in considerazione. Ma i Clinton volevano rabbonire i reaganiani e, allo stesso tempo, avanzare verso i loro obiettivi egualitari. E non era neppure soltanto una questione di bilanciamenti ideologici. Il loro progetto sanitario era in procinto di spingere verso una riorganizzazione circa il 15 per cento dell’economia nazionale e volevano quindi minimizzare lo shock sul sistema.
Quando proposero la riforma, il disorientamento destra-sinistra riguardo alle ambiguità ideologiche dei Clinton eruppe, trasformandosi in rabbia. La destra pensò che Hillary stesse imponendo una burocratizzazione sovietica all’America, benché affermasse di non voler fare niente di simile. La sinistra pensò che Hillary fosse una complice delle compagnie assicurative, benché pretendesse di essere progressista. I medici, perfino quelli di animo liberal, ebbero l’impressione che Hillary li avesse ignorati nell’ideazione del progetto, e che questa fosse una prova della sua natura autoritaria. Nel Paese quasi nessuno organizzò una lotta a favore del progetto di riforma sanitaria, e questo fu penoso, se si considera quanto largamente questo programma avrebbe democratizzato il modello di vita americano. Il progetto naufragò, e questo
fece precipitare ulteriori torrenti di accuse prive di senso sulla testa di Hillary.
Questa fu una catastrofe, politicamente parlando, e – se i miei lettori mi permetteranno di ricapitolare un altro po’ della storia – fu seguita istantaneamente da una catastrofe ancora peggiore: la grande vittoria dei Repubblicani nelle elezioni di medio termine del 1994, che spazzò via la maggioranza democratica. Newt Gingrich divenne Speaker della Camera dei Rappresentanti. A quei tempi, questi sviluppi furono talvolta attribuiti a una sola questione, che fu un’altra delle azioni progressiste di Bill e del Partito Democratico: il divieto di vendita delle armi d’assalto.
Ma io credo, ripercorrendo quei giorni, che la rabbia per il divieto sulle armi d’assalto e la rabbia sul progetto di riforma sanitaria di Hillary si siano fatalmente sovrapposte e che la sovrapposizione sia stata una reazione all’intero spirito radicale della riforma culturale degli anni Sessanta. Finché i Repubblicani avevano dominato la Casa Bianca, la destra aveva potuto pensare che le riforme culturali il cui inizio risaliva agli anni Sessanta fossero rimaste esclusivamente confinate nelle riserve delle città universitarie e nelle zone hippy. Ma con i Clinton al potere, le paure della destra crebbero e si fecero più forti, e Hillary ne divenne il focus. Questo avvenne a causa del suo ruolo nel progetto di riforma sanitaria. Era chiaro che fosse più di una semplice moglie. Hillary divenne un simbolo del potere delle donne e del matrimonio egualitario – di meraviglie che non si erano mai, o quasi mai, viste prima su scala nazionale. Una parte consistente dell’opinione pubblica rifiutò il progetto di riforma sanitaria non soltanto perché si trattava di un complotto comunista, ma anche perché si trattava di un complotto femminista.
Così come nel caso dell’opposizione al divieto sulle armi d’assalto, di che cosa si stava parlando? Vale la pena di segnalare che cosa tendano a dire (ancora oggi e non soltanto negli anni Novanta), i paladini del diritto al possesso di armi: parlano del Secondo emendamento con lo spirito libertario di chi si preoccupi di difendere la Costituzione. Ma evocano anche un’ossessiva preoccupazione privata, la necessità per un marito di difendere la sua casa, sua moglie e i suoi bambini da un’invasione criminale – di difendere la propria casa con un’arma da guerra. Questa è una preoccupazione irragionevole, visto che non è in corso un’ondata di invasioni domestiche. Ma l’irragionevole preoccupazione propone una romantica immagine di mascolinità – un’antica immagine di potere patriarcale proveniente dai mitici tempi della frontiera, quando le gerarchie sociali erano ben definite, e gli uomini erano uomini, e le donne erano donne. Una nostalgia maschile per un’epoca passata, ora messa sovversivamente sotto attacco da parte dei radicali degli anni Sessanta, come era reso evidente dalla “non-moglie” Hillary Clinton – sì, questo era almeno uno dei sentimenti espressi dalla rabbia contro il gun control nel 1994.
Ma c’era anche qualcos’altro. Bill e Hillary, con il tentativo di controllare le armi ed espandere l’assistenza sanitaria – cioè affrontando puntualmente singole questioni, una alla volta – avevano avviato senza volerlo un’ampia crisi culturale dagli incerti confini, e questa crisi prese una forma particolare, che può essere difficile ricostruire. Nell’intero periodo che va dagli anni Cinquanta fin al cuore degli anni Novanta, i movimenti di riforma culturale – per l’uguaglianza dei neri, per l’uguaglianza delle donne, infine per i diritti degli omosessuali e così via – agli occhi della sinistra apparivano essere lineari e conformi a una valutazione modernizzata della moralità democratica. Ma agli occhi dei conservatori con un’ottica tradizionalista, i movimenti di riforma non erano mai quello che sostenevano di essere ed erano campagne per il collasso della morale. Questo fu certamente il modo in cui i conservatori tutti di un pezzo iniziarono a guardare Hillary e Bill e i loro diversi progetti. I conservatori tutti di un pezzo avevano sperato di aver scoperto nei Clinton una famiglia convenzionale dell’Arkansas, provvista di valori conservatori per quanto in una versione democratica. Ma lo spettacolo, invece, di un matrimonio moderno ed egualitario, palesemente animato da idee culturali radicali provenienti dagli anni Sessanta, condusse i conservatori a temere il collasso morale. E così risposero cercando quello che, in occasione di un collasso morale, tutti potrebbero aspettarsi: il crimine.
Crimine e politica
L’accusa secondo la quale alla base del successo dei Clinton ci sia la corruzione ha la sua origine nel mondo politico dell’Arkansas, in cui le inimicizie sono più aspre e le cose torbide sono intorbidate. In qualche modo fu il New York Times a condurre le accuse nel dibattito nazionale. Perché il Timeslo fece? Lo fece con responsabilità giornalistica, ne sono certo. A metà degli anni Novanta, il disgusto dei conservatori per i Clinton era diventato intenso ed evidente. E anche le accuse avevano assunto una particolare intensità. E i giornalisti, poiché il loro ruolo è quello di non essere partigiani, possono aver semplicemente ritenuto di dover prendere le accuse abbastanza sul serio da condurre quantomeno una piccola inchiesta. Ne fecero una e scoprirono che, in Arkansas, la corruzione era, in effetti, una realtà e che alcune delle persone nell’ambiente del Palazzo del Governatore non erano moralmente del tutto immacolate, cosa che non avrebbe dovuto essere appresa con stupore. Scoprirono anche che, in un’occasione, Hillary aveva avuto un sensazionale rendimento da un investimento modesto, e questo aveva fatto inarcare qualche sopracciglio.
Ma, poiché sembrava che le inchieste non avessero individuato niente di chiaramente illegale, i giornalisti espansero la piccola inchiesta in una più grande, finché ogni centimetro quadrato della politica, del sistema bancario e del sistema immobiliare non sembrò essere stato scrutato con attenzione. E ancora non era emerso alcun incontrovertibile marchio d’infamia per i Clinton: questa circostanza avrebbe dovuto suggerire l’ipotesi secondo cui forse i Clinton, in realtà, non avevano spinto la conduzione dei propri affari al di là della legge – o altrimenti questa circostanza avrebbe potuto segnalare come le ambiguità clintoniane, essendo invisibili, fossero ancora più grandi di quanto non si immaginasse.
A Washington i Repubblicani, per non essere surclassati dal Times, promossero ancora ulteriori indagini, che condussero alla nomina di Ken Starr a procuratore speciale. E Starr procedette in modo sfrenato. Non trovò mai niente su cui basare un’accusa ai Clinton per la corruzione in Arkansas (benché lo Stato dell’Arkansas fosse ormai stato trasformato in uno scavo archeologico in cui chi conduceva le indagini rivoltava ogni più minuta porzione di suolo con il cucchiaio), né poté decretare che Hillary Clinton fosse responsabile dell’uccisione del suo tormentato amico Vince Foster (che si era suicidato). Ma Starr scoprì, alla fine, che Bill era un marito infedele. Starr era il Capitano Achab e aveva catturato un girino. Scoprì l’avventura con Monica Lewinsky. E scoprì persino un modo per gettare una luce di illegalità sulla faccenda, e cioè mettere in trappola Bill inducendolo a fare quello che qualsiasi marito messo all’angolo farebbe: negare tutto. Finalmente un crimine! E a quel punto una buona metà della popolazione americana andò fuori di testa.
La campagna per l’impeachment contro Bill fu il più grande scandalo nella storia politica americana. Fu scandaloso invadere la vita privata del presidente riguardo a un aspetto di questo genere. Fu scandaloso prendere i dettagli sessuali di questa faccenda e infliggerli all’opinione pubblica, nelle udienze e nei documenti ufficiali. Fu scandaloso sottoporre Monica Lewinsky all’umiliazione. Fu scandaloso il confezionare sulla base del nulla una crisi costituzionale – un processo in Senato, come se Bill fosse stato accusato, per esempio, di essere in combutta con Vladimir Putin. Le accuse non restarono confinate al solo Bill. Nessuno ha mai seriamente accusato Hillary di crimini sessuali (benché per un po’ sia entrata in azione una vera e propria macchina del fango sul lesbismo), ma, nonostante questo, la si è fatta apparire come una partecipante a losche manovre sottotraccia di ogni genere, come una che non è per nulla un’idealista ma è invece un corrotto avvocato dell’Arkansas che ha proseguito la sua vita criminale alla Casa Bianca. Le accuse furono folli. Eppure, espressero le ansie culturali, che montarono poi in esaurimento nervoso nazionale, provocate dalla sensazione di sconvolgimento della destra di fronte alle riforme culturali degli anni Sessanta e dallo sconcerto paranoico di fronte al tentativo dei Clinton di superare le guerre ideologiche.
La crisi dell’impeachment nel 1998 fu, naturalmente, l’ora migliore di Bill. Fu l’ora migliore perché durante lo scandalo mantenne la sua dignità, cosa che richiese un’enorme forza da parte sua. E mantenne il suo senso di responsabilità presidenziale. Esattamente nel momento della massima pressione durante la crisi, Al Qaida lanciò la sua campagna contro gli Stati Uniti, iniziando con le bombe contro le ambasciate americane in Africa orientale.
Bill affrontò con calma gli attacchi e si spinse al punto di ordinare una rappresaglia su piccola scala in Sudan e in Afghanistan (cosa che, tra l’altro, condusse un intero gruppo di intellettuali di sinistra a unirsi alla campagna dei Repubblicani a favore dell’impeachment – a questo punto era giunta la follia di quel periodo). Lì ebbe origine la guerra contro il terrore. Il Senato in quei giorni aveva perso ogni senso della ragione riguardo a quali fossero le priorità nazionali. Joseph Lieberman, in particolare, aveva perso ogni senso della ragione: parlò con toni roboanti in Senato del declino morale di Bill. Ma proprio Bill rimase concentrato su Al Qaida e su una serie di problemi analoghi. Questo fu il suo momento, il momento in cui mostrare carattere.
Una parte consistente dell’opinione pubblica rimase colpita. E una parte consistente dell’opinione pubblica cominciò ad accorgersi che qualcosa nei Repubblicani si era guastato. I Repubblicani avevano dato la precedenza ai loro stessi odii e si erano ritrovati ubriachi, finché non erano riusciti a condurre lo Stato allo stallo con una delle mosse al Congresso di Gingrich, e ad andare molto vicini allo stallo del governo con il processo al presidente. E in queste circostanze, un gran numero di persone alla sinistra dello spettro politico – proprio le persone che nel passato potevano aver nutrito personali riserve e sospetti sui Clinton – cominciarono a pensare che forse si erano sbagliati a farlo. Forse i Clinton avevano notato qualcosa che tutti gli altri a sinistra erano stati più lenti a notare, una cosa che era una pericolosa qualità del Partito Repubblicano: forse i Clinton avevano avuto ragione a pensare che, qualunque cosa dovesse succedere, i Democratici avrebbero fatto bene a smettere di perdere le elezioni. In queste circostanze i Clinton cominciarono ad apparire, dopo tutto, non così indefinibili: apparivano come i più tenaci ed efficaci avversari del Partito Repubblicano. Apparivano, infine, progressisti, senza contare che apparivano anche patriottici.
La grandezza di Hillary
Ma fu Hillary quella che iniziò ad apparire sotto la migliore luce. Lei non era inciampata nella crisi, mandando a rotoli la sua vita personale. Lei era la vittima. Gli attacchi contro di lei furono vergognosi – attacchi a ogni livello, rivolti a ogni possibile aspetto: il suo discernimento politico, il suo carattere personale, la sua onestà di fondo, le sue amicizie, il suo matrimonio. Eppure, anche se suo marito l’aveva tradita, lei sembrava imperturbabile – mai debole o in preda al panico, mai inferocita per la rabbia, mai depressa o sopraffatta, mai rancorosa, sempre sobria, fresca, posata, eloquente e determinata. Lei era splendida. La gente lo notò. Uno di quelli che lo notarono fu Charles Rangel, il congressman di Harlem, il quale osservò che ogni volta che Hillary veniva attaccata, cosa che accadeva di continuo, un gran numero di persone nello Stato di New York reagiva con rabbia, non nei confronti di Hillary ma nei confronti di chi la attaccava. Rangel la propose come candidata per il Senato. Hillary condusse la campagna con lo stile che lei e Bill avevano perfezionato in Arkansas, con incontri su piccola scala e lo studio di problemi economici locali, uno stile pragmaticamente fantasioso e ideologicamente non fantasioso. Mostrò la sua imperturbabilità di acciaio e questo le fu sufficiente per essere eletta. Forse continuerà a essere sufficiente da qui all’8 novembre. È una caratteristica potente.
Eppure, niente sarà mai sufficiente a spazzare via i decenni di calunnie che l’hanno accompagnata.
Il panico dei Repubblicani – e talvolta anche un panico liberal – che lei e Bill hanno suscitato con il loro tentativo di creare un nuovo tipo di politica già negli anni Settanta, Ottanta e Novanta è diventato da lungo tempo un fenomeno autorigenerante a cui basta un nonnulla per continuare a riproporsi. Se così non fosse lo scandalo sulla vicende di Al Qaida a Bengasi nel 2012 non sarebbe mai diventato uno scandalo, né ci sarebbe uno scandalo sulle sue email di quando era segretario di Stato. Il vero scandalo, sia nel caso dell’attacco di Bengasi sia nel caso delle email, è il rifiuto del Congresso di finanziare opportunamente la diplomazia americana. I diplomatici a Bengasi avevano bisogno di un sistema di sicurezza più sofisticato e invece si sono ritrovati nella stessa posizione di un gran numero di diplomatici americani in giro per il mondo, che devono cavarsela con poco. Il sistema di posta elettronica del Dipartimento di Stato era pessimo sotto tutti i punti di vista – un sistema obsoleto che nessuno nel Dipartimento voleva utilizzare e che è stato violato da hacker russi e da chiunque altro. Quantomeno per quel che riguarda il server privato di Hillary, non abbiamo notizia che sia stato violato con successo da qualche hacker, per quanto sia possibile che ciò sia avvenuto. Non è saltato fuori neppure il più piccolo danno per gli Stati Uniti causato dalle sue mail non protette – diversamente da quanto è avvenuto nel caso dell’hackeraggio condotto con successo da Edward Snowden. In ogni caso, nessuna di queste vicende avrebbe attratto l’attenzione su Hillary se non fosse per la sua storia in cui si sono di continuo accumulate accuse.
Che cosa potrebbe fare Hillary riguardo a questa storia? Ci sono in realtà molte cose che io vorrei che lei facesse. Vorrei che alla fine sviluppasse un talento per la riflessione filosofica. Vorrei che aggiornasse lo stile anni Settanta-Ottanta di quella politica identitaria che ha sopraffatto il Partito Democratico. Vorrei che tirasse fuori qualcosa di più ampio respiro rispetto a un concetto delle riforme sociali da “lista della spesa”. Vorrei che parlasse con franchezza all’opinione pubblica riguardo alle difficoltà e ai risvolti grotteschi della politica e dei soldi nell’età moderna. Vorrei che avesse previsto meglio il modo in cui i rapporti con i grandi capitali sono inevitabilmente destinati ad apparire agli occhi degli elettori. Vorrei che avesse rivolto uno sguardo più attento al fund raising della Clinton Foundation. Vorrei che fosse più avveduta nell’evitare i litigi politici di ogni sorta. La accusano di essere scaltra: io vorrei che fosse ancora più scaltra. Ma non proseguirò oltre.
Niente di quello che io vorrei ha alcuna possibilità di far terminare né le accuse contro di lei né le conseguenze del loro accumularsi. Le accuse sono il suo destino – e il nostro. In sostanza, le accuse contro Hillary Clinton sono il prodotto degli avanzamenti culturali dell’ultimo mezzo secolo e oltre. Sono i detriti reazionari del progresso sociale. Sono la scia che spumeggia dopo che la nave è passata. La posizione che ha assunto di fronte alle accuse è quella giusta. Se è assolutamente obbligata a rispondere a una particolare accusa, lo farà. Altrimenti sceglie di ignorare le accuse ed è risoluta nel farlo, ed è sempre stata risoluta, e sarà sempre risoluta, e questo è giusto.