Fra le mani della signora anziana che prega piegata nella chiesa di Marzamemi in Sicilia e nella borsa della diciottenne focolarina che frequenta la Mariapolis Luminosa di Hyde Park a New York trovate i rosari prodotti a Loreto dalla Claudio Cipolletti Srl. Sgranare il rosario dell’altro Made in Italy, quello lontano dallo show-biz e discostato dalla percezione comune, è cosa buona e giusta. Sì, perché non c’è soltanto il verbo del Fashion, Furniture, Food e Ferrari. C’è anche la parabola di tutto quello che non si vede.
Le quattro F – in italiano moda, arredamento, cibo e appunto Ferrari – sono la parte più sexy e avvenente del nostro capitalismo manifatturiero. Tutti conoscono e riconoscono lo stile neo-botticelliano delle cravatte di Salvatore Ferragamo, l’aura di B&B Italia in grado di trasformare il segno geometrico di Zaha Hadid in sofà che avrebbero potuto stare nei dipinti del Parmigianino, l’odore del Barolo di Bartolo Mascarello che proviene da un’era primitiva in cui nessuno avrebbe mai immaginato la barrique, il rosso Ferrari che rappresenta il colore di cui sono composti i sogni di molti uomini contemporanei.
Il sistema industriale italiano è però fatto – anche e soprattutto – da tutto il resto. Secondo i primi dati elaborati dal Ministero dello Sviluppo Economico, nel 2015 la massa di export italiano che, in maniera sempre sorprendente, riesce a confluire sui mercati internazionali ha avuto un valore di 413,76 miliardi di euro, in aumento del 3,7 per cento rispetto all’anno precedente. Per la prima volta, è stata superata la quota psicologica e simbolica dei 400 miliardi di euro. A parte la Ferrari che sotto il profilo quantitativo incide poco sui numeri del grande fiume dell’export italiano, per usare il codice delle quattro F, il tessile, l’abbigliamento e il cuoio-calzature (in senso esteso, dunque, il Fashion) valgono rispettivamente il 2,5, il 4,8 e il 4,8 per cento, il mobile-design pesa per il 2,5 per cento e l’alimentare detiene una quota del 7,4 per cento. Dunque, la componente più attraente e affascinante del Made in Italy incide non più che per il 22 per cento sul valore complessivo delle esportazioni. L’altro Made in Italy copre il 78 per cento del nostro export. Usando come riferimento il valore del 2015, la cifra stimata per l’«altro Made in» è enorme: oltre 322 miliardi di euro.
In questi 322 miliardi di euro, c’è veramente di tutto. Ci sono le imprese attive nelle nicchie, quelle particolari forme economiche che sono troppo minuscole per risultare evidenti alle statistiche mainstream. In pochi se ne accorgono, finché alcuni specifici prodotti non escono dall’oscurità dei laboratori artigianali e delle piccole fabbriche italiane per godere di celebrità improvvise e inversamente proporzionali al giro d’affari delle ditte che li realizzano. È il caso delle carte da gioco Modiano di San Dorligo della Valle, in provincia di Trieste, adoperate alle World Series di poker a Las Vegas. Oppure è il caso della Mondo di Gallo d’Alba, che dai giochi di Montréal del 1976 realizza la pista di atletica dello Stadio Olimpico e farà lo stesso a quelli di Rio de Janeiro, in programma dal 5 al 21 agosto.
Il tema della nicchia è, per l’altro Made in Italy, fondamentale per due ragioni: una interna al nostro capitalismo e una esterna, ossia relativa a come oggi è organizzato il capitalismo globale. La prima è la piccola dimensione media delle aziende italiane: hanno una taglia inferiore rispetto ai concorrenti e, per operare su scala globale, debbono muoversi negli interstizi. Le nicchie, appunto. La seconda è l’organizzazione del capitalismo globale secondo grandi catene del valore, le Global Value Chains, che sono infrastrutture dinamiche e potenzialmente “spezzettabili”: le fasi produttive sono spesso organizzate in molte componenti “mobili”, combinate fra loro e per loro natura ricombinabili. Dunque, sta all’abilità della singola impresa agganciarsi alle parti più ricche e a maggiore valore aggiunto di queste infrastrutture.
L’altro Made in Italy riesce esattamente a fare questo. Con risultati spesso sorprendenti. A fare emergere gli aspetti più profondi e meno noti del nostro capitalismo manifatturiero è per esempio la classifica del Trade Performance Index stilata dall’International Trade Centre, l’agenzia cogestita da Unctad e Wto, che analizza la capacità delle realtà nazionali di occupare posizioni di leadership in quattordici basilari specializzazioni dell’economia della nuova globalizzazione. Una sorta di ranking dei settori, la radiografia del singolo organo (il comparto o la nicchia) che spesso gode di salute ben più brillante rispetto all’organismo nel suo complesso (quel Paese pieno di patologie che è l’Italia).
In questo indicatore, tre specializzazioni del classico Made in Italy (riconducibile alle quattro F) sono al primo posto – nelle tre rilevazioni 2012, 2013 e 2014 – per forza competitiva: tessile, abbigliamento e pelli-calzature. Anche i segmenti dell’altro Made in Italy registrano però risultati di grande livello: la meccanica non elettronica è al secondo posto (da tre anni), esattamente come i prodotti di base e la meccanica elettrica, la componentistica automotive e i manufatti diversi (occhiali e piccoli articoli in plastica e in metallo, per esempio i citati rosari di Loreto).
Dunque, l’altro Made in Italy costituisce un elemento essenziale dell’identità italiana, senza cui il nostro sistema industriale non potrebbe appunto raggiungere quei risultati evidenziati dall’International Trade Centre che raccontano un Paese che – con il suo primo posto in tre settori e il secondo in cinque – è dietro soltanto a quella Germania, la cui primazia è basata su otto primi posti e un secondo posto.
In queste classifiche, spesso accolte con scetticismo da quanti non riescono a tenere distinto il sistema delle imprese dal sistema Paese nel suo complesso, si trovano i prodotti più disparati: le chitarre in alluminio aeronautico, al posto del tradizionale legno, della Noha di Lambrate, che sono finite in mano a Lou Reed e a Bruce Springsteen oppure le teche anti-proiettile della Goppion di Trezzano sul Naviglio, la prima ditta a “proteggere” la Gioconda di Leonardo da Vinci al Louvre di Parigi.
Nella fisiologia profonda del nostro capitalismo manifatturiero e nella definizione dell’altro Made in Italy, l’innovazione di prodotto e di processo sono basilari. Sotto questo aspetto, appare essenziale ricordare come, secondo le elaborazioni del Centro Studi Confindustria su dati Cis-Eurostat, il 32 per cento delle imprese italiane realizzi innovazioni di prodotto (meno del 44 per cento in Germania, ma più del 28 per cento in Francia, del 14 in Spagna e del 28 per cento nel Regno Unito) e il 35 per cento innovazioni di processo (contro il 31 per cento della Germania, il 28 della Francia, il 19 della Spagna e il 17 del Regno Unito).
Gli stessi equilibri, con una sostanziale diarchia italiana e tedesca, si ripete nelle produzioni core per l’innovazione, in cui le imprese italiane sono autrici di innovazioni di prodotto per il 29 per cento e di innovazioni di processo per il 30 per cento. Quelle della Germania, rispettivamente, per il 36 e il 26 per cento, della Francia per il 24 per cento in ambo i casi, della Spagna per l’11 e il 15 per cento del Regno Unito per il 24 e il 14 per cento.
Il perno di un sistema in cui l’innovazione reale – non soltanto quella formalizzata riportata nei bilanci, in Italia spesso sottodimensionata per ragioni di scarsa convenienza fiscale – ha un peso così preponderante è l’industria metalmeccanica. La quale – nell’accezione più estesa del comparto – ha un milione e settecentomila addetti, esporta beni per 191 miliardi di euro, quasi la metà del fatturato complessivo dell’intera economia italiana.
La metalmeccanica è composta – usando il criterio degli addetti – per il 39,8 per cento dai prodotti in metallo, per il 7,4 dai prodotti di elettronica e ottica, per il 10,7 da macchine e apparecchi elettrici, per il 25,2 da macchine e apparecchi meccanici e per il 16,8 per cento dall’automotive industry. Tutta roba che non si vede, che non brilla, che non profuma, che non luccica, che non stimola i desideri delle cougars o dei millennials di Pechino o di Los Angeles, di San Paolo o di Kuala Lumpur. Tutta roba che, però, è fondamentale per il funzionamento della manifattura della nuova globalizzazione.
Un esempio? Alcune linee di produzione – robot e software inclusi – per una realtà complessa come la Foxconn, la base manifatturiera di Apple in Cina, sono fornite dalla Bottero di Cuneo. E che dire della Brugola Oeb, fondata a Lissone nel 1926 da Egidio Brugola, una cui vite storica è entrata direttamente nel vocabolario della meccanica internazionale con il nome dell’azienda.
Oltre alla struttura del capitalismo globalizzato, c’è poi un altro elemento cruciale per lo sviluppo dell’altro Made in Italy: l’impulso all’industrializzazione dei Paesi emergenti. Secondo le elaborazioni del Centro Studi Confindustria e di Prometeia su dati Ihs, le realtà che nei prossimi cinque anni avranno tassi di crescita più elevati sono quelle in cui l’industrializzazione è avanzata ma non matura, oppure quelle in cui il tessuto produttivo deve ancora costituirsi nei suoi elementi basilari. La prima è l’India, per cui viene stimato un tasso di crescita medio del Pil del 7,3 per cento. La seconda è la Cina (7 per cento). Ma, anche, il Kenya (6,9), il già più noto Vietnam (6,5), il Ghana (5,8), l’Angola (5,6), l’Indonesia (5,4), la Nigeria (5,3) e il Pakistan (5,3 per cento). Paesi che hanno bisogno di impianti e linee di ingegnerizzazione, componentistica e servizi industriali di base che sono appunto il nocciolo duro dell’altro Made in Italy.
Nell’economia, come nella vita, c’è quello che si vede e quello che non si vede. E spesso ciò che non si vede è più importante di ciò che si vede. Il capitalismo italiano è fatto anche da questo capitolo troppo spesso non conosciuto.