Tre preti cattolici e due suore fanno capannello attorno a un piccolo televisore malmesso in una sagrestia di New York. È l’ottobre del 1974 e si preparano ad assistere all’incontro che passerà alla storia come Rumble in the Jungle. Mohammed Alì a trentaquattro anni torna sul ring per affrontare il campione dei pesi massimi in carica George Foreman, di otto anni più giovane e sicuramente più in forma. Alì sa con chi ha a che fare, legge nel suo avversario tutta la rabbia che lo ha condotto fin lì e soprattutto conosce i knock out che ne hanno alimentato la leggenda in un impressionante serie di quaranta vittorie e nessuna sconfitta: Leroy Caldwell, Joe Frazer, Ken Norton.
Foreman è il re di Oakland, Kingston e Caracas ed è pronto a difendere il suo regno anche immerso nei trentacinque gradi umidi di Kinshasa, alla presenza di sessantamila spettatori che gli cantano contro («Buma ye, Alì, buma ye». “Uccidilo”, senza mezzi termini), un dittatore e gran parte del mondo incollato agli schermi. Alì è il volto della tranquillità, dell’equilibrio, della sicurezza. Balla, come tutti si aspettano che faccia, e non sta zitto un momento, come fa sempre. È difficile stabilire chi dei due abbia più da perdere: Foreman si gioca il titolo, è vero, e il nervosismo glielo si legge in faccia anche quando fissa nel vuoto con marmorea determinazione. Ma Alì è uno sfidante: per definizione quello dei due che ha messo la propria dignità al centro del ring. Quello dei due che riconosce implicitamente la grandezza dell’altro, nel tentativo spasmodico di soffiargli il successo.
Uno dei preti che assistono all’incontro non può fare a meno di pensare a Davide e Golia. «Noi riportiamo ogni cosa alla Bibbia», confessa, ma nel suo collegamento c’è ben più di un’abitudine liturgica. C’è tutto il significato di una vita sbagliata che non non vuole saperne di tornare a posto, a partire dal suo nome: Abram, che stride rovinosamente con l’abito talare a suggellare un’esistenza immersa nelle incongruenze.
Non è dato da sapere chi tra Alì e Foreman sia Davide e chi Golia, ma padre Abram sa chi è il suo gigante da abbattere e si sente, più che mai a questo punto, come il piccolo israelita armato soltanto di un sasso. Il nuovo romanzo di Antonio Monda, L’indegno, è un lungo monologo dubitativo in prima persona, sull’orlo della dannazione terrena. Il suo protagonista è un uomo fuori posto, un debole per scelta e per ammissione, che non riesce a rinunciare al peccato nemmeno di fronte alla consapevolezza di una condanna quasi certa. È un uomo di fede, un fornicatore e un ladro. E se, come si dice, gli uomini più pii sono anche i più consapevoli del proprio peccato, allora padre Abram è destinato a diventare un santo.
Antonio Monda
L’indegno
Mondadori 2016
156 pagine, 18 euro
La scena dell’incontro arriva presto nel romanzo e mette per la prima volta in luce con chiarezza i timori più profondi di Abram: «Chi dimostrava di non avere alcuna paura per quella promessa di dolore, avrebbe vinto», dice osservando i due pugili studiarsi da vicino. Prima ancora della prima micidiale sequenza, prima del gioco alle corde di Alì, prima che il mondo cada sulle spalle di Foreman schiacciandolo contro il tappeto al suono roboante del conteggio. Abram vive nel peccato a cui ha scelto pubblicamente di rinunciare e nella menzogna che ogni giorno dichiara di rinnegare. Guardando il suo Golia dal basso in alto sa che il suo destino è di un dolore che supera di diverse misure le otto riprese che servono ad Alì per annientare il suo avversario. È innamorato di una donna. È stato innamorato di tante donne, dell’idea di tante donne e delle loro bocche, dei loro corpi. Per farle farle felici ha rubato e ha mentito, sistematicamente. Questo è il suo gigante, la fonte di tutto il suo dolore.
Per combatterlo, Abram si rivolge costantemente alla fede e fa appello alla propria umanità, la stessa che lo ha condotto al peccato in primo luogo. L’espiazione, però, non passa dal confessionale o dall’autocoscienza, ma dalla malattia che improvvisamente colpisce la sua amante. Allora i fatti assumono altre proporzioni e la compassione che il prete non è capace di rivolgere a se stesso viene improvvisamente e forzatamente incanalata verso un nuovo obbiettivo, un nuovo motivo per pregare che non sia la salvezza della propria anima sporca. È in questo momento che si rende conto (o così dovrebbe) che il suo Golia non è tanto il peccato ma qualcosa di molto più grande e imperscrutabile, che non dipende dalle sue azioni ma dal destino e che agisce indipendentemente tanto dalla volontà degli uomini che dal disegno di dio. Anche Abram, pur non potendo fare a meno di considerare il cancro come una punizione, sa che non c’è nulla di divino nel corso degli eventi.
Come Alì, si fa mettere alle corde per vederci più lucidamente e tornare a combattere per la propria integrità morale. Sente di aver rinunciato al mondo, come ripete spesso nel corso del libro. Di essersi isolato, svuotato, estraniato. «New York è una città di gente sola», dice. E lui non è che un’altra anima condannata a un pezzetto di quella solitudine. Ma è nel punto più basso della sua miseria, quando ogni disgrazia ha smesso di essere una prova di fede per ritornare ad essere semplicemente una disgrazia, che trova il coraggio di guardarsi intorno e di ammettere che forse nel mondo ci si è sempre trovato fin troppo immerso. La sua umanità è tanto la sua condanna quanto la soluzione al suo dolore. Come Alì si stacca dalle corde e colpisce tre volte velocemente, finché non sente il tonfo pesante del suo dubbio al tappeto.
Dicono che i cristiani siano per tutta la vita alle prese con una professione di fede. Monda è un cristiano e così il suo protagonista. In questo libro, oltre alla fede in dio, la professione è rivolta alla città di New York e all’umanità che impregna le vite di ciascuna delle persone sole che la popolano. Se non è un romanzo di dannazione, è un romanzo d’amore.