C’eravamo solo noi, un barbone all’angolo del palazzo e i fari di un taxi che rischiararono la strada per un attimo. Mentre mi stringevo a Ferretti, il cielo iniziò a essere striato da una luce incerta. L’odore dell’aria non era pungente, aveva perso ogni sentore di sporco ed era indeciso come un risveglio che ha in sé il ricordo di un sogno. Il silenzio e il clima terso mi sembrarono i presupposti di un lieto fine. Il nostro destino sarebbe stato benevolo come quel cielo pulito? Esisteva davvero un destino dentro cui ascrivere la nostra storia? Oppure dipendeva da me creare le coordinate per la buona sorte?
A casa mi lasciai spogliare lentamente. Ferretti mi tolse il cappotto all’ingresso, camicia e golf mentre ero appoggiata al muro dell’anticamera e i pantaloni li sfilò facendomi sedere sul letto. Mi penetrò con la stessa calma. Alla fisicità del sesso si aggiunse, dopo le parole che mi aveva concesso, una fisicità impalpabile, immateriale, capace di pervadermi più profondamente dei centimetri che si creavano un varco dentro di me.
Dopo l’orgasmo non feci in tempo a finire la sigaretta che avvertii la sua erezione gonfiarsi di nuovo. Ferretti spinse il pene duro contro la mia coscia e mi implorò con lo sguardo. Avrei preferito far finta di niente, non mi servivano repliche, ero soddisfatta ed ero esausta. Avrei voluto voltarmi dall’altra parte sentendo la pancia di lui sulla mia schiena per darmi conferma che fosse lì. Ma mi lasciai prendere per non deluderlo. La sua devozione intellettuale, meticolosa, rendeva necessaria la contropartita, meticolosa, di uno sfogo fisico. Capito questo, capii anche che non potevo sottrarmi alla ripetizione. Mi mossi sopra di lui e finsi di ansimare.
La luce in cucina era rimasta accesa e il comò alla mia destra, invaso dai libri, veniva illuminato da una traiettoria obliqua. Il resto della stanza era in penombra. I riflessi sbattevano contro una pila di copertine accatastate l’una sull’altra, da cui ne spuntava una rossa con il nome di Lacan scritto in blu. Come passava Ferretti le sue giornate?
In libreria dal 10 marzo
“Non adesso, per favore”, il secondo romanzo di Annalisa De Simone, è ambientato tra Roma e L’Aquila.
216 pagine, 17 euro (Marsilio)
Da vari indizi avevo ipotizzato un’organizzazione del tempo molto schematica. Una giornata tipo prevedeva sveglia presto, metro fino a Conca d’Oro per raggiungere a piedi l’istituto e fare lezione alle bestioline, seduta di scrittura dopo pranzo, quando non c’erano i consigli di classe, letture nel tardo pomeriggio e una sera da inventarsi con una spropositata quantità di alcol nelle vene. «Rallenta, Ninni, rallenta…» Smisi di agitare il bacino e frenai il ritmo. Non c’era improvvisazione nelle sue giornate, come non c’era improvvisazione nelle sue letture. Ferretti aveva dedicato gli ultimi mesi ai filosofi tedeschi e stava per concentrarsi sui saggi dei post-strutturalisti francesi. La conferma arrivava dalla disposizione dei libri sul tavolo in sala: Nietzsche, Hegel e Husserl poggiavano uno accanto all’altro nella parte posteriore, Deleuze, Foucault, Derrida e Althusser erano in prima linea, verso il divano. Lacan se l’era portato in camera. Immaginarlo in poltrona con un libro in mano a rigirarsi il mozzicone di sigaro nella bocca, mentre le note di un cantautore americano (Robert Zimmerman? Johnny Cash?) sottraevano la stanza al silenzio, me lo fece sembrare ancora più attraente. «Rallenta… non così veloce». Senza volerlo avevo ripreso ad agitarmi. Cercai di attestarmi su movimenti leggeri, avanti e indietro, piano piano, per non fargli raggiungere l’orgasmo. Stretta al suo corpo mi sentivo perfino più antidogmatica di quanto fossero stati i suoi filosofi. Se il dogma su cui ruotavano le mie paure era quello di fuggire alla complessità di un uomo indecifrabile, be’, io avrei combattuto il dogma fino a raggiungere verità più profonde. Avrei continuato a scavare nel suo passato in cerca di strumenti utili alla ricomposizione del quadro e, una volta ottenuto un sistema di informazioni soddisfacente, avrei sferrato il mio attacco. L’analisi puntigliosa mi avrebbe portato a conoscerlo come nessuna delle sue donne aveva fatto. La tesi di lui silente contro l’antitesi di me comprensiva lo avrebbe condotto ad abbassare la guardia e a rendere possibile la sintesi di un noi inevitabile. Perché dovevo attenermi alla minaccia delle impressioni iniziali? Sarei stata più postmoderna dei suoi intellettuali. Relativista quanto bastava a relativizzare l’ostacolo della sua distanza per credere che quella distanza avrei finito col vincerla. «Brava piccola, non ti fermare…» La mia controcultura si sarebbe basata su una rinnovata fiducia verso il mio spazio critico di pensiero. E grazie alla libertà di analisi non avrei subito le influenze di chi, prima di me, aveva creduto impossibile la normalizzazione di Ferretti in uomo stabile. «Così, non smettere, ti prego…». L’esperienza empirica – lo studio di Vittorio Ferretti svolto sulla base della personale esperienza di lui – mi avrebbe permesso di rivoluzionare le teorie catastrofiche che avevo stilato in principio. «Dimmi qualcosa, piccola…» Dalla contingenza del particolare, frutto dell’esperienza empirica, sarei giunta alla proposizione universale, indiscutibile, necessaria, evidente e inconfutabile di me e lui insieme. «Che cazzo duro…» Ferretti ebbe un sussulto e trattenne il respiro, contrasse i muscoli della mascella e strizzò le palpebre. Dipendeva dalla parola cazzo? Non serviva Lacan per capire che in certi contesti essere didascalici aiuta. L’obiettivo, quindi, divenne quello di evitare le riflessioni con cui stavo divagando per ripetergli la parola incriminata fino a farlo crepare. «Che bel cazzo che hai.» Una scintilla nell’iride. «Il tuo cazzo è così bello…» Chiuse gli occhi per combattere l’eccitazione e ritardare l’orgasmo. «Voglio il tuo cazzo, lo voglio tutto…»
Ci misi poco ad affezionarmi al suono delle cinque lettere capaci di esercitare su di lui il potere che avrei voluto maneggiare anche fuori dal letto. C-a-z-z-o. Non resisteva. Si dimenava come un animaletto che tenta di sfuggire alla presa di chi lo ha in pugno. «Cazzzzzo.» Un animaletto indifeso caduto nel palmo del suo potenziale assassino, che si dibatte in lotta contro la morte. «Ora ti prendo il cazzo e me lo metto in bocca.» Essere esplicativi, anticipando ogni mossa con dovizia di particolari, aumentava le pulsazioni. Ferretti si contorceva sbattendo la testa sul cuscino. «Che cazzo bellissimo, il più bello di tutti, enorme, duro, lungo, il più lungo…» Stavo esagerando. Anche perché ragionare sulla grandezza poteva indurlo a riflettere, a sua volta, sui termini di paragone che avevo usato per giungere a una conclusione. Ed erano due i casi: o prima di andare a letto con lui avevo incontrato solo minorati – e questo vanificava il senso della proporzione – oppure stavo mentendo spudoratamente – e questo sminuiva l’effetto che andavo cercando. Ero pur sempre una scrittrice, possibile che non riuscivo a inventare qualcosa di meglio di un’iperbole? Una metafora, ad esempio: hai un cazzo duro come una roccia. Ecco, bastava che dicessi che il cielo era blu e il prato verde e avevo raggiunto l’acutezza d’indagine di un poppante. Fragile come il cristallo, fresca come una rosa, resistente come l’acciaio e il tuo cazzo è duro come una roccia. Quanta imperdonabile scarsezza linguistica. Che poi, si trattava di metafore o similitudini? Era dal corso di scrittura creativa tenuto dal professor Biasini che non coglievo la differenza – un po’ come ancora inspiegabile restava la distinzione fra una sineddoche e una metonimia. La sineddoche è una figura retorica che prevede la sostituzione di un termine con un altro che ha col primo un rapporto di quantità – la voce rauca di Biasini risuonava nella stanza insieme ai miagolii di Ferretti – mentre la metonimia consiste nella sostituzione di un termine con un altro con cui intrattiene una relazione di contiguità logica. E quindi? Le sudate carte di Leopardi erano sineddoche o metonimia? A cinque anni dalla laurea ancora non ci arrivavo. Ma dovevo smetterla di distrarmi.
«Cazzo, hai un cazzo così cazzuto.» Se mi fossi accontentata di questo per credere in un’allitterazione! Tanto valeva ripetergli che la consistenza del suo membro era quella di un minerale. Anche se a pensarci meglio dovevo ammettere che un’allitterazione con cazzo non sarebbe stata facile per nessuno. Doppia zeta: brezza, strozzare, rozzo, cozzare, bozzo, ammazzo. Valli a mischiare ora. Ferretti mi stringeva come se cercasse di aggrapparsi a qualcuno per restare a galla. «Sì, amore, il tuo cazzo spinge e solca e sfrega…» Lui era con la testa all’indietro a soffocare un gridolino e io mi accesi per aver centrato un polisindeto e un’allitterazione insieme. Biasini sarebbe stato fiero di me. Presa da un moto di presunzione avrei potuto azzardare perfino un chiasmo, ma mi fermai in tempo. Complicare la questione non sarebbe stato producente ai fini pratici ed era ovvio che giochetti linguistici come «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori» non potevano tradursi con la stessa efficacia. Sarei caduta nel ridicolo… che poi cadere nel ridicolo era una perifrasi o un modo di dire?
Quando tornai al silenzio, Ferretti si liberò dalla stretta del cuscino e mi rivolse il viso bagnato di sudore. Sparita la parolina incriminata, poteva inserirmi al centro della sua prospettiva senza perdere il controllo. Tutto il giorno a sgobbare su termini come transustanziazione ed ecco che il risultato era un uomo innamorato di una parola semplicissima: cazzo.