Quattro macchine rotanti, bracci e cerchi luminosi ispirati all’atomo di idrogeno, in acciaio immacolato, alti tra i quattro e i sei metri si specchiano su un piano rosa laccato. Andrebbe vista forse in silenzio. È una delle istallazioni dei Formafantasma per Lexus alla Torneria di via Tortona, a Milano. Gli italiani (ma con sede ad Amsterdam) del design intimista hanno creato per il marchio di lusso di Toyota un piccolo percorso poetico che astrae alcuni aspetti della casa automobilistica e li fissa nello spazio. Primo fra tutti, l’uso dell’idrogeno. Perfetto per il tema di quest’anno: An Encounter with Anticipation.
«Tutto comincia l’anno scorso, ad agosto, mentre siamo in vacanza – raccontano Simone Farresin e Andrea Trimarchi sorridendo –: ci chiamano da Lexus. La cosa non è così ovvia. Andiamo in Giappone, vediamo la concept car (la LF-FC presentata l’anno scorso con tecnologia a cella combustibile di idrogeno, ndr) conosciamo meglio il marchio, la parte produttiva, la sua storia. Partiamo da lì, e da lì pensiamo a una proposta. La cosa che ci colpisce di più è l’idrogeno. Per loro è stata una richiesta un po’ strana: non aveva a che fare con il design dell’auto, ma per noi era la cosa più interessante, più vicina al nostro lavoro. Ci interessava utilizzare una tecnologia simile alla loro, e fare qualcosa che comunicasse con il pubblico di Milano, più legato all’arredamento che all’industria dell’automobile». La possibilità di vedere l’effetto che fa è fino al 17 aprile.
All’interno della stanza delle macchine cinetiche si possono assaggiare due piatti creati dallo chef Yoji Tokuyoshi, già con Massimo Bottura all’Osteria Francescana e oggi alla guida dell’omonimo ristorante milanese fresco di stella Michelin: un brodo di pesce con gelatina di mandarino e foglie di nasturzio galleggianti con composta di lamponi. Un inno alla trasparenza, all’acqua. «È l’input che gli abbiamo dato. L’acqua è l’elemento in natura più ricco di idrogeno ed è anche l’unico materiale di scarto della concept car. Le nostre macchine, in acciaio, sono esposte su una piattaforma gigante rosa superlucida, come se fosse un po’ liquida. All’inizio è stato un po’ difficile da spiegare. Soprattutto, da Lexus ci hanno chiesto: perché rosa? È una dimensione soft. Un modo per spacchettare questa idea del mondo dell’auto molto duro, hard, molto mascolino. Stereotipato. Sono molto aperti, hanno capito».
L’idrogeno c’è ma non si vede: «Non c’è una regolamentazione chiara sul suo uso e non è di solito applicato nel modo in cui l’abbiamo utilizzato noi. Quindi abbiamo trovato qualche difficoltà a livello di regole europee: non potevamo mettere le bombole di idrogeno ben in vista, quindi abbiamo cercato di visualizzare la tecnologia in una cella molto piccola». Il funzionamento è semplice e ricalca quello del motore Lexus: l’idrogeno genera elettricità che fa muovere l’installazione. Il problema è che si tratta di un elemento chimico scarsamente presente in natura allo stato puro, quindi serve a sua volta energia elettrica per produrlo. «La vera sfida è la produzione di idrogeno: occorre partire dall’energia pulita, per innescare poi un circolo virtuoso».
I Formafantasma hanno studiato, si vede. Anche negli altri due spazi pensati per Lexus. Nel primo, quello dedicato al Lexus Design Award – appuntamento arrivato alla quarta edizione che seleziona i progetti di giovani designer: quest’anno hanno vinto le alghe per il packaging di Agar Plasticity del gruppo Amam –, le sedute poste in circolo sono rifinite con la stessa tecnica usata per le auto, con 20 strati di vernice. Nel secondo, un macchinario che sembra un telaio tridimensionale tende i suoi 7.200 fili di cotone per far apparire la silhouette della LF-FC: l’omaggio è all’industria tessile, un passato lontano per Toyota, nata proprio come produttore di telai.
«Noi ci mettiamo tempo. Lavoriamo in maniera molto contestuale. Botanica, per esempio: era progetto sulle resine naturali. Non abbiamo cominciato da zero ma abbiamo guardato al periodo del petrolio, a tutti quelli studi fatti per ottenere plasticità. Sembra fuori dal tempo, ma in realtà c’è uno studio di cose fatte prima che abbiamo inserito all’interno della collezione».
C’è qualcuno in particolare a cui vi ispirate? «A 16 anni avevo il poster di una mostra di Enzo Mari in camera. Ho studiato a Firenze, quindi poi i radicali, a me piace quel mondo lì. E a un certo punto ero innamorato di Nakashima», risponde Farresin. Poi i due si ricompattano al plurale: «Ci piace Sottsass, Enzo mari. Per la luce Sarfatti ha fatto un lavoro pazzesco. E poi Hella Jongerious, soprattutto nel modo di lavorare con le aziende. Siamo entrambi appassionati della comunità shaker americana, dei loro mobili o del design molto rurale».
E tornare in Italia, ci avete mai pensato? «Sì, ma non siamo ancora pronti a farlo. Probabilmente la cosa migliore – racconta ancora Torresin – sarebbe mantenere più sedi. Comunque non sapremmo dove. Io sono veneto, Andrea è siciliano, abbiamo studiato a Firenze, ci siamo spostati in Olanda. Lasci un pezzo di cuore un po’ ovunque e non stai bene da nessuna parte. È una cosa della nostra generazione, di quando cominci a girare: una sindrome strana. Tornare del tutto magari no. Ma forse sì. Forse a Sud. Non credo a Milano».
Intanto, si godono i lavori milanesi, come quello con la Fonderia Artistica Battaglia. O con la galleria Peep-Hole, dove a febbraio hanno presentato Tropico. Niente tuttavia paragonabile al lavoro fatto per Lexus, così complesso, così ampio: «La complessità apre nuove prospettive: sappiamo che possiamo gestire anche questo». Sembra un manifesto alla libertà creativa. Il design dei Formafantasma non si preoccupa di rientrare nelle categorie: art design o design industriale? «Stiamo lavorando a un prodotto che presenteremo l’anno prossimo a Euroluce. Non è importante la collocazione. Quello che ci interessa non è necessariamente arrivare a un numero enorme di persone. Non per un discorso elitario ma perché in un contesto globale come quello attuale è un’illusione il fatto che se una sedia costa 500 euro possa arrivare a tutti, perché non è così».
Il futuro, oltre a quello a idrogeno immaginato da Lexus è sempre, ancora, ricerca. «Stiamo preparando materiali per l’architettura, uno è la continuazione di un lavoro sulla lava: vetro lavico con una ditta in Turchia. Poi c’è un progetto sul tessuto. Uno sull’education. C’è una commissione da un museo australiano che sarà pronta per il 2017: avrà a che fare con l’estrazione dei metalli. Ecco un punto interessante per noi: guardare dove vengono i materiali e in che modo sono tradotti in design. Osservare quello che succede prima: il design non è solo forma».
Qualcosa dell’esperienza con Lexus, con l’idrogeno, è rimasta: «Quello che è interessante, dal nostro punto di vista, è che Lexus vede il lusso non solo come fine a se stesso ma come opportunità di ricerca. È in quello che pensiamo ci sia un valore. Anche quando facciamo pezzi magari in edizione limitata, ci interessa poter lavorare con realtà che producono in un certo modo. Con laboratori artigianali il costo del pezzo finito è molto alto perché ci sono dei costi effettivi molto alti. Ma se il lusso permette il mantenimento anche, in un certo modo, del lavoro etico, crediamo abbia senso di esistere», risponde Torresin. Gli fa eco Trimarchi: «Il motore a idrogeno di Lexus è la speranza che qualcosa possa cambiare. Si vede che le grosse aziende stanno cambiando. Quando siamo stati a Toyota City era impressionante sapere che lì erano già a zero emission. Era così silenzioso. Ci si sta muovendo in una certa direzione. È un lusso consapevole. Cioè il futuro».