In dieci anni Twitter ha messo a fuoco, finalmente, a che cosa serve Twitter. È troppo tardi?
All’inizio i cellulari dotati di una fotocamera si chiamavano “videofonini” ed erano costosi, ingombranti e con ogni evidenza inutili. Una battuta che circolava all’epoca (un’epoca remota: più di dieci anni fa) chiedeva quando, dopo un’aggiunta superflua come la macchina fotografica, i telefoni avrebbero incorporato anche la macchinetta del caffè. Già.
A posteriori fa sorridere questa scarsa lungimiranza. In compenso è interessante notare che anche con gli obiettivi e le reti migliori che abbiamo oggi, le videochiamate da cellulare non hanno attecchito. Obbligano a un gesto goffo, consumano troppi dati, ci costringono agli auricolari o a rendere pubblica la conversazione: non sono un buon modo di parlare. In compenso la convinzione che lo fossero (cioè che rappresentassero un potenziale mercato) ha spinto alla diffusione delle fotocamere su cui poi si sono fondati così tanti degli usi futuri, attuali, di quelli che nessuno più chiamava videofonini. E cioè: le tecnologie hanno molte vite, il cui susseguirsi dipende dalle potenzialità della loro architettura interna molto più che dalle intenzioni originarie dell’architetto. Twitter è forse l’esempio più rilevante di questo tipo di resurrezione. La sua storia, ora al decimo anno, è la storia di come la stessa architettura di partenza, concepita per un inquilino molto preciso, abbia finito per ospitarne di ben diversi, nel tempo, man mano che l’uso migliore dei suoi spazi veniva messo a fuoco da chi vi abitava, come una casa senza piantina in cui ci vogliono anni di tentativi alla cieca per rendersi conto che quella conca bianca e lucida non dà il meglio di sé se usata come letto.
Il social network dei messaggi-lampo è nato nel 2006 come un modo per dare aggiornamenti sulle proprie attività. Era l’epoca di MySpace, del primo Facebook, ma era ancora l’epoca delle chat e delle bacheche: lo scoppio della bolla di fine millennio aveva rallentato enormemente la fiducia nella rete come veicolo produttivo e commerciale, e spinto invece a farne la nuova sede della vita privata, meno rischiosa per gli utenti e più fruttuosa per i pubblicitari. Si inventava la parola social network, e si inventavano, con infinite variazioni, i social network.
Una di queste variazioni era Twitter. Jack Dorsey, uno dei fondatori, da piccolo era stato un appassionato ascoltatore dei dispacci delle radio di polizia, e ha pensato che quel formato – un breve messaggio pubblico per dire dove sono, cosa faccio e dove sto andando – poteva funzionare anche in altri contesti.
Da questa analogia iniziale dipendono le caratteristiche che Twitter ha ancor oggi – l’architettura della comunicazione che permette. I messaggi erano giocoforza brevi, e il limite famoso (140 caratteri) era dovuto in origine all’idea che si potessero trasmettere con un sms. I messaggi dovevano essere pubblici, perché non avevano a che fare con le preferenze e i gusti personali degli utenti che li scrivevano. I messaggi dovevano essere in ordine cronologico, di modo da poter sapere immediatamente qual era l’aggiornamento più recente.
Negli anni del boom dei social network, fra il 2007 e il 2010, si riteneva che l’aspetto cruciale di Twitter fosse solo la brevità. Era l’epoca in cui ci si chiedeva se Google ci rendesse stupidi, e sui magazine di mezzo mondo uscivano pezzi pensosi che vedevano nel limite di 140 caratteri un tragico segno della povertà di spirito del nuovo secolo (signora mia, cosa avrebbe detto Kant in 140 caratteri?), o invece il sintomo del nostro bisogno di semplicità e rigore come antidoto al sovraccarico informativo (signora mia, è il rasoio di Occam 2.0).
Però a posteriori il carattere pubblico e cronologico dei messaggi ne ha determinato l’uso forse più della brevità. Oltre ai tutto sommato inutili aggiornamenti sulle proprie attività, infatti, quel formato si adatta molto bene anche alle notizie-flash e alle opinioni. È per questo che a un certo punto Twitter è stato percepito – con uno schema un po’ superficiale ma non privo di fondamento – come il «social network dei giornalisti». Gli aggiornamenti personali che Twitter in origine mirava a ospitare si adattavano molto più a un sistema come quello di Facebook, in cui per stabilire un contatto fra due utenti è richiesta l’approvazione di entrambi, il che certifica un qualche tipo di rapporto fra i due – non proprio “amicizia”, ma magari qualcosa di simile. Notizie e opinioni, al contrario, sono intrinsecamente rivolte a un pubblico più vasto con cui si può avere anche una relazione asimmetrica (a me interessa Laurie Penny più di quanto io non interessi a lei).
Non è un caso che in questo periodo, la fine del 2009, la domanda rivolta agli utenti dal sito di Twitter, nel campo in cui va digitato lo status, smette di essere «What are you up to?» (Cosa stai facendo?) e diventa «What’s happening?» (Cosa succede?). La tecnologia creata dai fondatori di Twitter non era perfetta per gli scopi che si prefiggevano: ma era perfetta per altri.
C’è un altro scopo per cui questa struttura comunicativa è perfetta, ed è litigare. Come ha scritto Giorgio Vasta nell’ultimo numero di Nuovi Argomenti, Twitter si presta «alla sintesi esclamativa e a un’emotività pre o addirittura anti-analitica [e] si offre naturalmente – in una maniera così costitutiva da apparire quasi intenzionale – alla battuta dissacrante, alla nota derisoria, al motteggio». Il fatto che ogni comunicazione sia pubblica, e indirizzabile all’attenzione di qualcuno con il tag @, rappresenta una garanzia che una frecciata ben calcolata faccia il massimo dei danni. I «linciaggi online» di cui spesso si legge (spesso male) sui giornali avvengono in massima parte qui.
Già: e quindi è tanto più sorprendente che Twitter si sia attestato, dopo l’adesione in massa dei giornalisti e dei professionisti della comunicazione, come social network delle dichiarazioni ufficiali, in contrasto con l’intimità più giocosa di Facebook. È su Twitter che i politici e i ceo fanno dichiarazioni, o vi rispondono; è stato Twitter, ben prima di Facebook, a dover introdurre una qualche certificazione di autenticità per i propri profili. Su Twitter c’è il Papa.
Alla base di questa adozione c’è un aspetto tecnico – la possibilità di “embeddare” un tweet, che è necessariamente pubblico, inserendolo in una pagina di testo. È questo che permette di usare Twitter come un canale di dichiarazioni ufficiali e reazioni a caldo che i giornalisti potranno riprendere con un modo sicuro di autenticarne la fonte. Questo significa, a tutti gli effetti, che da commento sulla notizia un tweet è diventato sempre più spesso una notizia.
Anche questa seconda trasformazione è dipesa da certi aspetti della piattaforma. Twitter era più “serio”, senza foto del profilo, immagini, preferenze musicali: si concentrava sul cosa anziché sul chi. Eppure c’è qualcosa di strano nel fatto che il posto della caccia alle streghe sia divenuto anche il posto degli opinion leader. Come mai hanno scelto questo contesto come cornice per i propri messaggi, in apparenza esponendosi a un rischio tanto maggiore di controversie e polemica?
Anche in questo caso è interessante considerare il modo in cui questi messaggi sono strutturati e incanalati in conversazioni. Ogni tweet è un messaggio unico, che può essere visualizzato e linkato senza includere il seguito (magari una coda di ingiurie); l’ordine cronologico, anziché tematico, incoraggia questa dimensione polverizzata delle conversazioni, in cui al thread di insulti per un’uscita infelice di A si mescolano le opinioni di B sul Medio Oriente, la risposta di C a una sagacia di D, la rassegna stampa di F… Sì, su Twitter – al contrario che su Facebook o LinkedIn – si può parlare con e di tutti: ma su Twitter è molto più normale essere ignorati, e un messaggio senza risposta sparirà presto nel flusso, anziché restare – come su Facebook – permanentemente affisso al Wall a testimonianza che il proprietario è troppo altezzoso, o nel torto, per rispondere. Twitter dà agli utenti l’illusione di poter avere una conversazione con chiunque – perché potenzialmente è così; eppure al contempo li abitua all’idea che sia rarissimo che ciò accada, e in fondo indolore. E questo è esattamente ciò che un personaggio pubblico, nella maggior parte dei casi, vuole.
Le caratteristiche che hanno determinato la crescita di Twitter ne hanno determinato anche i limiti. Per crescere servono più utenti, ma avere più utenti significa avere più contenuti, e se il feed dei messaggi è cronologico, più contenuti significa più sfilacciamento e più casino, e quindi gli utenti se ne vanno. Il Papa vuole una comunicazione asimmetrica, i tuoi amici una comunicazione alla pari: hai molte più cose da dirti con loro.
Per anni i nuovi iscritti di Twitter sono aumentati a ritmi simili a quelli di Facebook (benché il totale fosse nel complesso molto minore), ma dal 2014 circa la curva si è abbassata fino ad appiattirsi del tutto. Se all’inizio il social network aveva avuto un’esistenza parallela a Facebook – un’offerta meno massiva ma comunque forte, più un concorrente che una nicchia – ultimamente è stato sbaragliato. Nel momento in cui Twitter ha annunciato di avere lo stesso numero di utenti attivi per il secondo trimestre successivo (poco più di 300 milioni), Facebook ha superato il miliardo e mezzo.
Negli ultimi tempi sono stati fatti dei tentativi di modificare questo stato di cose – introducendo un criterio di rilevanza nell’ordine dei messaggi, ipotizzando di allentare il vincolo dei 140 caratteri. Sono stati accolti con resistenza e scetticismo dagli utenti, che faticavano a capirne la necessità. Se Twitter non era più il luogo che incoraggiava le opinioni lapidarie, le notizie dell’istante, le dichiarazioni estemporanee – cos’era?
Fra il 2014 e il 2015 un altissimo tasso di ricambio ai vertici dell’azienda ha dimostrato che non era chiaro quale fosse la risposta a questa domanda. L’anno scorso è tornato alla testa dell’azienda Jack Dorsey, uno dei fondatori, nel frattempo allontanato dopo una prima crisi e rientrato durante la seconda. La sua idea è che la natura di Twitter sia il live: il racconto e la discussione e il commento di cose che succedono in tempo reale.
A dieci anni dalla sua creazione questa visione è in linea con l’idea originaria (dove sei? Che fai?) e con i suoi sviluppi successivi (cosa succede?), ed è in linea con l’acquisizione di servizi come Vine e Periscope, che integrano ai messaggi brevi il racconto in diretta video. Dorsey definisce Twitter «il più potente microfono al mondo».
È una buona definizione. Chiunque abbia visto un programma in tv commentandolo con dei tweet si sarà reso conto di quanto sia un mezzo adatto all’analisi collaborativa dal vivo, una conversazione trasversale e gigantesca in cui una buona battuta o un’osservazione acuta trovano istantaneamente risonanza e risposta. Da questo punto di vista, Twitter offre il primo assaggio della tanto decantata «realtà aumentata».
Anche questo è possibile solo in virtù della sua struttura leggera: messaggi brevi da scrivere sul momento, che non andranno a comporre permanentemente un’identità nel modo in cui lo fa la Timeline di Facebook, cose a cui dedicarsi mentre le cose importanti succedono altrove. Il Twitter di Dorsey è un social network da usare guardando da un’altra parte.
Ma chi compra pubblicità vuole che guardi proprio lì. E quindi non sorprende che la sua visione così forte non sia servita a guadagnare nuovi utenti, né a convincere i mercati – le azioni di Twitter valgono oggi un terzo del prezzo a cui erano state quotate due anni fa. Da arena di svago, rubrica potenziata, i social network si sono espansi sino a coprire un’area sempre maggiore delle nostre vite (gli ascolti musicali, i pagamenti, le riunioni di lavoro). Una piattaforma per discutere di un evento in diretta può costituirne un ottimo aspetto marginale, una funzione interessante, ma non un concorrente. Per questo si stanno cercando contromisure. Da questo autunno, alcune partite di football della NFL americana saranno trasmesse in diretta su Twitter. È l’ennesimo cambiamento di rotta – da piattaforma per contenuti condivisi dagli utenti, a fornitore di contenuti – ma è anche una strategia tutto sommato coerente per resistere in un ecosistema sempre più orientato al monopolio. Oggi, Twitter resta il canale perfetto per commentare la tua esperienza. Facebook sta provando a inghiottirla.