Sbadigliando attendo che si faccia l’ora propizia per presentarmi alla finale del premio letterario The Dot Circle. Come sempre sono sola. M’aggiro così nel crepuscolo delle vie milanesi del lusso. Spinta dalla noia mi insinuo nella boutique del Cavalli, dove un esercito di hostess-commesse pigola deferente dietro una sciura post-sovietica, pettinata e vestita come Rania di Giordania, che parla al cellulare tempestato di brillanti. È una sequela di: «Da, da, da». Nell’uscire quasi di corsa dal tempietto del fashion finisco nelle braccia di un uomo, prossimo ai cinquanta, con un completo gessato, i capelli pettinati all’indietro, la barba malfatta, su guance innaturalmente arrossate, gli occhi vacui. Un’aria di oblomoviana desolazione da fine dei tempi. Non è brillo, viceversa me ne accorgerei subito: sono astemia e percepisco l’afrore dell’alcol etilico alla stregua di un cane molecolare. L’uomo mi fissa attonito senza vedermi. Si ritrae, riprende il suo andare sul marciapiede. Tiro dritto, dribblando triadi di cinesi in lieve sovrappeso, avranno tutto il tempo necessario per diventare obesi, barcollano abbacinati dalle vetrine, che si rimandano in un gioco di specchi rutilanti l’ultimo grido in fatto di must have, declinato nell’accezione più modesta del must be.
Proseguo nel mio vagabondare, è ancora troppo presto per presentarmi alla barriera di via Baguttino, ove due vigili smistano gli invitati all’evento esclusivo, ove un’altra sciura, stavolta lombarda, si lamenta al telefono che ha dimenticato l’invito da Jean-Pierre. Probabilmente il suo parrucchiere di fiducia vista la cotonatura delle chiome. Sedotta da un tranquillo cortiletto con vasca di ninfee, sono risucchiata nei meandri di Vuitton.
Rarefatte e inarrivabili, le celebri borse di plastica dominano la scena dall’alto di delicate scaffalature di cristallo spesso tre centimetri. Il negozio brulica di coppiette, desiderose di possedere uno di quei mirabili oggetti del desiderio femminile, e dello status maritale di uomo affermato che può inorgoglirsi di mostrare una moglie carrozzata di tutto punto. Esili commesse, in tailleur blu notte, si riconoscono per una tracollina pochette – tipo il cordino bianco dei brahamini – da cui ossequiose estraggono dei guanti di filo nero per toccare le borse, maneggiate con la cura che si riserva agli isotopi di mercurio. Ne sono sedotta. Mi viene l’acquolina in bocca. Ipnotizzata da una Neverfull di formato medio, m’imbambolo. Ammiro.
Superati i vigili ecco il fronte delle hostess del premio. Agitate, troppo giovani, e quasi travolte dalla gente che preme incuriosita, che invano s’accalca, le poverine cercano a lungo il mio nome – sono o non sono una dei finalisti? – nella lista. Lo storpiano a ripetizione, sono così costretta a fare lo spelling. Superata le Simplegadi delle hostess-bambine raggiungo, fra totem di gerbere fresche, il ristorante Bagutta. Fino alle 22 l’ingresso sarà inibito. Vicino alla porta hanno allestito una serie di salottini con enormi, vecchie e scomode poltrone di pelle trapuntata. Son già stanca. Così mi accomodo su una di queste poltronacce giusto a lato dell’uscio, in modo che quando i camerieri trafelati, a lunghe falcate, varcheranno il sesamo, possa servirmi a piacimento di stuzzichini. Strategia che si rivela ben presto errata, perché gli sciagurati varcano la soglia di fretta per gettarsi a capofitto nella crescente folla di invitati. Gli unici che mi offrono il vassoio sono quelli addetti ai beveraggi. Si consideri che sono astemia. Su un baule da viaggio sono sparse le copie dei romanzi finalisti. Farò la guardia affinchè il pubblico non appoggi su Costellazione familiare un bicchiere vuoto o peggio ancora un piattino di pasta alla Norma. Alla mia destra tre sciure villane, una mi volge con ostinazione la schiena, fanno salotto. Sono delle poverine, non se le fila nessuno. Tento invano di capire tramite quale canale siano state invitate all’aperitivo, e semmai anche alla cena placée. Ma le tre alla cena placée non ci verranno, perché come Cenerentole qualunque verso le 22 sgommano. Senza avermi degnato di uno sguardo, per quanto mi sforzi di sorridere verso l’infinito, senza aver guardato nemmeno per una volta i libri finalisti che giacciono sul baule tavolino, usato infine principalmente per appoggiare i bicchieri. Le tre trincano come portuali di Amburgo. Sulla poltrona che mi fronteggia a sinistra siede un’esuberante signorina spagnola, che beve e fuma, assieme ad altra misteriosa signora d’età indecifrabile, direi fra i 50 e i 56, che sfoggia un turbante nero, su occhiali da sole neri, pigiama palazzo sempre nero e sandali, da cui si protende il bubbone dell’alluce valgo.
Mentre aggranfio un microscopico piattino con venti grammi di pasta alla Norma, ecco mutare lo scenario salottifero. Sciamate le tre sciure che non mi degnarono di uno sguardo, volatilizzata la spagnola con volant, al posto dell’inturbantata misteriosa ora siede l’uomo con il completo gessato nelle cui braccia son caduta poco prima in via Montenapoleone. Non guarda da nessuna parte. Con gesto meccanico, appena sfila uno dei camerieri si serve da bere. Superalcolici non certo prosecco. Chi mai sarà quell’uomo, che ha conosciuto tempi migliori, perché tutto in lui tradisce – gli occhi, il naso, le labbra, l’ovale del viso, la forma elegante della testa, le mani – un passato altolocato. Come è finito lì su quella poltronaccia scomoda? Il completo gessato – marron con righini rossi – è di ottima fattura, ma vecchio e stazzonato. Sotto indossa una camicia rosa pallido portata senza cravatta. Ai piedi calza degli stivaletti modello Beatles di cuoio nero. La punta è impolverata e la pelle consunta e crepata, ma sono scarpe di prezzo. Per quanto tenti di intercettare il suo sguardo, quello mi evita. Beve cocktail uno dietro l’altro. Con aria dolente allunga un braccio verso i piattini di pasta, ora stanno servendo ravioli di ricotta e spinaci, e a ogni uscita io blocco il cameriere, perché ho fame.
Vorrei sapere chi è quel poverino con le guance arrossate sotto la ricrescita di una barba corvina, perché non rivolge parola a nessuno, perché nessuno si interessa a lui. Immagino un passato nemmeno tanto remoto di affermazione sociale, il tizio deve essere stato un pezzo grosso o meglio un imprenditore, si vede che è uno abituato ad avere soldi. E ancora mi chiedo come mai sarà finito ai margini della società? Un tracollo economico? Un matrimonio fallito? Che sia finito, spolpato dalla ex moglie, in un lurido residence per papà separati nella periferia di Milano? Magari il suo cuore è spezzato perché non può vedere più i suoi figli, perché è un fallito, uno per cui non vi è più posto nella società civile.
Più passano i minuti e cresce in me la fame, più mi appeno strologando sulla reale identità dell’uomo con il gessato che imperturbabile eppure inquieto seguita a bere e a mangiare piattini di risotto – ora servono risotto al radicchio rosso così tanto pregno di glutammato di sodio che non si riesce a deglutirlo, infatti me ne guardo bene. Lo studio per una buona mezzora senza riuscire a intercettarne lo sguardo e più passa il tempo più provo pietà per lui, per quel povero milanese malconcio eppur nobile che nessuno approccia. È mai possibile che in quel brulicare festoso di belle ragazze nessuno lo conosca, si fermi per un saluto? Finché quando stanno per scoccare le 22, e io sarò chiamata a entrare, ma l’ingresso è sempre rimandato perché manca la lista degli invitati, e io che ho un invito per due, penso in un attimo di folgorante bontà, posso portarlo dentro il ristorante con me, posso conoscere forse la sua triste storia. Regalargli per una sera appena quei lussi a cui è certo stato abituato. Allora mi fo ardita e quando finalmente il buttadentro del ristorante trova il mio nome sulla lista, con un cenno degli occhi gli faccio capire che non sono sola, che sono accompagnata da un cavaliere, e glielo dico proprio. Il buttadentro solleva lo sguardo verso la folla e a un mio cenno guarda verso la poltrona dove siede ancora quel poverino che io stasera voglio salvare dalla miseria. Scuotendo la testa, con un mezzo ghigno di sorriso il buttadentro mi fa: «Signora, quello proprio no. Signora quello è un notorio imbucato a tutte le feste. Non a questa, però».