«Christianiaaa», avverte la voce rimasticata del conducente, e io e mia madre scattiamo in piedi vicine, così vicine che se fossimo piccole, più piccole, per scendere dal bus ci daremmo la mano invece di fingerci diversamente adulte, io venti perfetti e lei quaranta appena sfiorati. Indosso jeans comprati in un altro viaggio, un viaggio straccione con amici e balordo in solitudine, quei jeans erano arrivati subito dopo un treno notturno che risaliva l’Italia, colazione a Termini, passeggiata con lo zaino tenuto stretto che ci sono i ladri in via Sannio, sono jeans svasati in contrappunto geometrico alla svasatura che ho in testa, sopra le orecchie, dei ricci corti e neri («Sembri Max Gazzè», mi ha detto la mia migliore amica). Mia madre ha pantaloni firmati e chiari, una piega castana liscia che ha resistito all’aereo e al vento di Copenaghen. L’abituale «sembrate sorelle», in viaggio, diventa meno imbarazzante: nei musei fanno entrare entrambe gratis, students. La giovinezza percepita ha una sua utilità.
«Christianiaaa», urla il conducente, è l’inizio dell’estate del 1998 e bruscamente comincia questa storia.
In realtà comincia nel 1977, quando una ventenne con i capelli lunghi e i pantaloni di velluto marrone a coste prova a unire pollici e indici in alto, più in alto della faccia, nel segno della figa. Ci prova, ma all’ultimo momento si vergogna e quella foto color seppia tradisce che la ragazza non è abbastanza femminista per i suoi tempi, ce la mette tutta, poco dopo taglierà anche i capelli corti, cortissimi, come quelli di un maschio, e comprerà a corredo neonatale per la figlia tutte le fiabe della serie Dalla parte delle bambine.
Comincia pure nel 1989, quando una bambina a colazione vorrebbe vedere un episodio di Pippi Calzelunghe ma il telegiornale dice che a Berlino è caduto il muro, e l’undicenne tiene il biscotto sfaldato a mezz’aria, con due pensieri mischiati come i carboidrati nel latte: 1) evviva, l’ora di tedesco è andata, figurati se quella interroga su chi era Goethe 2) ma tanto è una notizia finta, non è vero mamma, o no?
Questa storia comincia di nuovo poco prima di Christiania, primavera 1998, a un concerto di Guccini ad Acireale, la ventenne e la quarantenne sedute per terra, perché la figlia vuole stare proprio incollata al palco e la madre è felice di essere lei la prescelta, di solito se chiede di fare qualcosa insieme riceve grugniti e porte sbattute. Sulle mattonelle stende un foulard prima di sedersi, certi sconosciuti coetanei della figlia l’ammirano: che madre giovane, complimenti. Insistono: magari la mia si facesse portare qui (la figlia odia guidare, è stata la madre a portare lei, quante cose non sanno quelli a cui piace commentare). Madre e figlia parlano tra loro e danno poca confidenza, si alzano in piedi e cantano, cantano tutta la sera e ridono alle battute sul palco, battono le mani quando si può e quando si deve. D’amore di morte e di altre sciocchezze è l’album in cui Guccini, in copertina, si è messo davanti a un poster di vent’anni prima e ora canta che «girano tronfie la figlia e la madre, nel viso uguali e nel culo tondo».
La storia comincia quando la figlia ha comprato due biglietti per il concerto, il fidanzato ha detto: «Che schifo, Guccini», e lei ha evitato di rispondergli che non ha mai ascoltato la cassetta del gruppo che lui aveva voluto ammollarle, anche se poi gli aveva scritto un biglietto con la penna verde per ringraziarlo, perché è beneducata. La figlia pensa che gli amici del ragazzo che ha accettato di frequentare, perché chi se ne frega tanto non saranno poi diversi dagli altri, le invadono già tutto lo spazio con chiacchiere presuntuose e pretestuose e gusti sciocchi ma assoluti e compiaciuti. Lo stereo, quando è sola, non deve dividerlo con nessuno, e se la sua musica è ferma a Berlino Est, come lui, che canta in un gruppo, le ha fatto notare – be’, non è un problema che ha voglia di porsi.
A casa, la figlia ha messo i biglietti di Guccini sul tavolo della cucina e come fossero due amiche, come se in quella casa non avessero mai litigato, non si fossero mai sbattute in faccia porte e tavoli e tazze, non si fossero mai dette ti odio mi fai schifo non vedo l’ora di non vederti mai più e altre normali interazioni dell’adolescenza (anche tarda), ha guardato la madre: «Vieni?». Forse è stato allora che la madre si è sentita autorizzata a comprare altri biglietti, biglietti per un viaggio insieme, da tempo le era venuto questo sfizio che doveva essere bella Copenaghen, e qualche settimana dopo è stata lei a mettere due biglietti sul tavolo della cucina: «Vieni?».
Questa storia comincia dopo che per tre giorni madre e figlia hanno vagabondato, sono entrate in biblioteche e gallerie, si sono fotografate davanti alla sirenetta, hanno mangiato pesce e purè. La figlia studia filosofia e ha sottolineato con la penna verde tutta la guida, ha detto che voleva andare sulle tracce di Søren Kierkegaard. Chiedendo informazioni si sono ritrovate davanti a un cimitero, perché kirkegård vuol dire cimitero, hanno scoperto, e la figlia ha detto: eccolo l’aut aut, la malattia mortale, e la madre fissando le tombe: diario di un seduttore?!, e citando i titoli dei libri di Kierkegaard si sentivano spiritose e in quel riso funebre c’era pure l’esorcismo della morte del padre, che senz’altro per farlo apposta a loro ma soprattutto per farlo apposta al comunismo era morto nel 1989, filandosela strategicamente prima del muro. Le battute stupide erano diventate subito tormentoni, come se madre e figlia scese dall’aereo fossero entrate in un tempo nuovo in cui le età di entrambe si confondevano e si invertivano, non si capiva chi era fresca di gioventù e chi portava il manifesto di vent’anni prima, perché se la madre aveva avuto vent’anni (e con una sua ostinata freschezza li dimostrava ancora), la figlia dentro quelle foto in bianco e nero c’era nata senza averlo chiesto, e si trovava nel 1998 nel mezzo del cammin di nostra giovinezza, quando si vuole appartenere per forza a qualcosa, e allora niente è meglio dell’epoca in cui ti hanno messo al mondo. La madre no, la madre era come Guccini roseo e rinato davanti al ricordo: formidabili quegli anni, ora però mettiamoli dietro le spalle.
Le domande della figlia schiumano: dove hai nascosto quel mondo? Non me l’avevi promesso? Ci sarà, da qualche parte, un posto dove quella promessa è stata mantenuta. I figli: la razza più reazionaria e conservatrice della scala darwiniana.
A Copenaghen avevano cominciato a notare una a una le coppie di madri e di figlie, sapeste quante ce n’è in giro, madri e figlie da sole; nella città dove vivevano non avevano mai visto quell’esercito di replicanti, solo famiglie con due o tre eredi e i maschi al posto giusto, e tutti i nonni vivi, e la perfezione morta della provincia. Invece quella madre e figlia giapponesi con la pelle luminosa ed elegante che masticavano lentissimo a colazione, in albergo, le avevano messe di buon umore. Insieme, s’intende, alle tovaglie a quadri, agli stampini per torte, ai coltelli per tagliare il formaggio e a tutti i complementi per la casa per cui la Danimarca era meritevole, aveva giurato in aereo una signora che parlava italiano. Poi, la penultima sera, prima di addormentarsi la figlia aveva preso la guida da sotto il cuscino e l’aveva aperta sulla pagina dove aveva cerchiato il numero dell’autobus giusto: «Mamma, domani ti porto a Christiania».
Quando il conducente urla «Christianiaaa», lo dice proprio a noi, a noi e basta. Appena salite gli ho chiesto di indicarci la fermata, per essere sicura di non sbagliare. L’autobus è mezzo vuoto, certi turisti sono scesi altrove, pochi lavoratori trattengono qualche sbadiglio. L’aria è nuvolosa e vagamente cupa, minaccia di piovere. Non pioverà: è solo Nordeuropa, poi passa.
Attraversiamo l’autobus in equilibrio e le porte si chiudono alle nostre spalle in tempo per esserne certe: non scende nessun altro.
Ogni volta che leggo: «Christiania, gigantesco luna park per turisti», oppure: «Christiania, una delle principali attrattive di Copenaghen», penso che forse ho visitato un altro posto. Un po’ come quelli che nel 1998 tornavano da Londra raccontando Soho uguale a Rimini, e io sospettavo che esistesse un’altra Londra, forse l’aeroporto aveva uscite separate su pianeti diversi con lo stesso nome, come se i marziani chiamassero «Terra» Marte, perché i racconti non coincidevano mai neanche su strade su cui ero certa di essere passata, davanti a luoghi che conoscevo e loro no, e viceversa. Così, quando leggo gli articoli su Christiania non so di cosa parlano e non credo di voler tornare a scoprirlo. Soltanto quando vedo la classica foto mi rassereno: Christiania, Stato parzialmente libero fondato nel 1971 da un gruppo di hippie, ha proprio quell’ingresso lì, con la scritta in alto, su una specie di porta. Ne sono sicura perché quando sono scesa dall’autobus ho pensato: come Arbeit macht frei, e mi sono vergognata molto di quell’associazione.
Spavalda, conquisto Christiania con mia madre aggrappata al braccio. Non spacciano droghe pesanti, come te lo devo dire? faccio notare in via Pusher, dove nessuno ci dà fastidio. È il posto più tranquillo d’Europa, il controllo è assoluto. Stanno tutti per i fatti loro. Quando vedo qualcuno con i capelli più lunghi e più bianchi sporgo il mento, o un gomito, o un arto a caso che chieda muto: ehi, senti, vuoi parlare con me? Mi vuoi raccontare la tua storia, tu c’eri nel 1971, ci sei da sempre? Non chiedo, nessuno risponde.
Mia madre attraversa Christiania come una ragazza di quarant’anni che sente soprattutto freddo.
Christiania è reale: i muri colorati, il verde, le polpette che mangiamo per pranzo, acqua per mia madre e birra per me, l’impronta di quella promessa dove tutto si sovrapponeva: foto seppia, il borsello di mio padre, le edizioni Servire il Popolo e la casa disfatta e paludata che il mio ragazzo chiama «Berlino Est», anche se mia madre da tempo l’ha complicata innestando inginocchiatoi, tavoli francescani, erbari illuministi e divani con la tappezzeria turchese. Non sapevo, a vent’anni, che come le epoche e gli esseri umani anche il comunismo è uso a morire un po’ per volta.
Oggi per cercare foto del mondo che non c’è più, per scoprire se somiglia un poco a come ce lo siamo sognati, basta andare su Facebook: “Roma sparita”, ed ecco com’era quel pezzo di acquedotto in fronte al quale sorgono casa della nostra amica, un sushi bar, un antro di patatine olandesi cento per cento, qualsiasi cosa voglia dire. Invece è il 1998, non c’è Facebook, c’è Christiania ma è sparita lo stesso.
Seduta nel verde, con il cappuccio del k-way tirato su, faccio amicizia con una ragazza. Mia madre guarda altrove, guarda me, non interrompe la conversazione, è assorta ma quando le chiedo se sta pensando «ai suoi tempi» con sincero stupore mi risponde: hai visto anche gli orari del ritorno?
All’improvviso, il magone. Vorrei fermarmi a una cabina telefonica e chiamare il tipo con cui esco, domani quando torno sarebbe bello se mi portasse a un concerto, vorrei scusarmi per l’inutile piazzata che gli ho fatto la sera prima del viaggio per colpa di un’incomprensione fondamentale che adesso però proprio non ricordo. «Poi è stato un po’ come trovare il telefono staccato per quattro giorni», mi dirà al rientro, e oggi, a distanza di vent’anni, quell’assenza di chat e messaggi e reperibilità, in questa storia, rimane l’unica cosa davvero emblematica dello spirito dei tempi.
Saluto l’anonima ragazza con cui ho parlato sotto una nuova minaccia di pioggia. Ho preso gli orari, tranquillizzo mia madre, e con una fitta al cuore so che prenderemo l’autobus precedente rispetto all’orario che avevo previsto.
«E allora?», chiedo camminandole accanto, ma un improvviso vociare di bambini alle nostre spalle copre la mia voce e un minuto dopo anche quella domanda non c’è più.