In altezza la supero di cinque centimetri, ma lei porta le zeppe. Camminiamo veloci una di fianco all’altra. La nostra meta è lo store Muji di Calle de Fuencarral a Madrid. Dobbiamo comprare alcuni spazzolini da denti; no, trentuno spazzolini da denti.
Dalla punta del naso di Charlotte cade una linea retta che scorre parallela all’asse del suo collo. Quando Charlotte adopera questa geometricità corporea mi vuole mandare un segnale. Il collo perfettamente teso significa: «Voglio tacere, non voglio dover rispondere alle tue domande. Conversare potrebbe farmi venire una temporanea emicrania. Sono in uno stato psicofisico in cui potrei deglutire male. Se tu ora mi parlassi potremmo vederci costrette a dover andare dal dottore. Non riesco a seguire i tuoi discorsi. Oggi no. Però cerca di volermi bene, spero che tu possa riuscirci».
Charlotte e io siamo migliori amiche, così le piace dire alla gente. Lo siamo perché sono una persona tollerante e pacata, così mi piace dire alla gente. Quando Charlotte sbarra gli occhi non bisogna parlarle, quando fa stretching cervicale non bisogna parlarle, quando fa yoga non bisogna parlarle; macchie in giro, sul tappeto, sulla tovaglia, si possono lasciare, ma in meno di due secondi bisogna intuire se le fa piacere pulirle o se ha altri piani per i suoi prossimi dieci minuti.
Quando è al telefono con il suo fidanzato, Francisco, non bisogna scherzare. Vorrei parlare del ragazzo che amo, ma prima le devo chiedere il permesso. Lei risponde con un dondolio della testa: «Se proprio vuoi, non mi dà molto fastidio». Ma non bisogna mai sforzarla per più di cinque minuti, altrimenti le viene dolore alle tempie. «Puoi smettere per piacere di parlare d’amore? Ti ho già detto come la penso. Ho la testa che mi pulsa». Non lo chiede con schifo o con rancore, enuncia un sintomo: la testa le pulsa. Ha piccoli muscoli, ma saldi: se ci sono da fare lavori pesanti li fa lei, i piatti li lava lei, il bucato pure; ama invalidare gli altri.
Non ci vogliamo bene, no, ma ridiamo, ci prendiamo cura l’una dell’altra, viaggiamo, costruiamo, cantiamo insieme. Una volta mi ha detto che le piaccio perché sono «pulita dentro» e «abbastanza pulita fuori» e perché, stranamente, la capisco. Anzi, la precedo, la intuisco. Lei è molto disinfettata sia dentro che fuori. «Sono trentuno spazzolini da denti», dice Charlotte alla cassiera. La cassiera li conta. «Sono trentuno», ripete Charlotte serafica.
Torniamo a casa. Lei sorride all’aria, io la guardo pensierosa e stanca. Gli spazzolini sono per Francisco, che ne cambia uno al giorno. A mezzanotte, dopo essersi sciacquato la bocca, Francisco butta lo spazzolino nel cestino. Con mia grande sorpresa, non vuota il cestino quotidianamente e chiede alla cameriera dalla pelle dorata di non fare altrettanto. Così il trentuno di ogni mese ci sono trentuno spazzolini nel cestino del bagno. Siamo tornate a casa, nel Barrio de Salamanca, ma Francisco non c’è. Charlotte siede sul divano, io addento una mela.
«È da cinque anni che ci conosciamo. Eppure solo ora mi rendo conto di non averti mai detto quanto poco tolleri le persone che mangiano. Stai masticando quella mela rumorosamente. Mi rendo conto che te lo dico solo ora… Perdonami». Charlotte tiene gli occhi spalancati e fissi su di me. Non mi dirà mai di andare a mangiare la mela in un’altra stanza perché chiedermelo significherebbe contrarre un debito nei miei confronti. Se ora, su sua richiesta, io andassi a mangiare la mela in bagno, lei in futuro mi dovrebbe un favore. Da me Charlotte si aspetta tatto, gratuità e gentilezza tali da farmi cambiare stanza prima che sia lei a dovermelo chiedere. Sa che non lo farò subito, che tergiverserò ancora per cinque secondi. Cinque secondi pieni. Sa anche che andrò a mangiare quella mela da un’altra parte con un sorriso un po’ sfatto in faccia. So che mi sta guardando mentre m’allontano dal salotto, gli occhi sempre più spalancati. Sento che sta sentendo il rumore della mela affievolirsi, chiudo la porta del bagno e butto via il torsolo.
Charlotte può rubarmi gli antistaminici, io non posso rubarle i fermenti lattici, ma lei non può usare il mio vestito a scacchi bianchi e neri, mentre io posso usare il suo smalto a base d’acqua, che però non uso. Io non posso spostare i suoi asciugamani stesi sul termosifone ma, stranamente, li posso usare. «In caso li rilavo». Posso parlare dell’amore degli altri, ma non del mio. L’angoscia il sapermi innamorata, più io m’immagino con Philippe, più lei si sente chiusa in una stanza con Francisco e i suoi trentuno spazzolini; la chiave è andata persa, la pelle cade, gli schiaffi sul culo. Ogni sera, a cena, quando Francisco non c’è, lei e io sediamo in terrazza.
Ma oggi Francisco c’è e ci raggiunge, fuma una sigaretta. È molto ricco, è un uomo potente. Il suo sogno è diventare ancora più potente senza mostrarsi troppo in società; Charlotte mi ha confidato che di notte lui le sussurra: «Conosceranno il mio nome, ma non il mio volto», e poi aggiunge: «Non vedo l’ora!», e ride come un bambino. Tra tutte le amiche di Charlotte, sono la preferita di Francisco perché penso, non sporco, uso il tovagliolo, sono una brava pittrice, non sono grassa, non sudo, non emano odori, gli do sempre la buonanotte quando sono sua ospite, non creo strane idee nella mente di Charlotte, non la esalto, non la spengo, non chiedo soldi nemmeno se mi mancano gli spicci per comprare il pane, non mi mancano mai gli spicci per comprare il pane, chiedo per piacere e cammino in calzini, dico grazie e non lascio capelli sui pettini.
Charlotte divora le vetrine delle pasticcerie e spazzola intere ceste di pane. Il ventre e le gambe filiformi non recano la minima traccia del suo andare in giro per la città con le banconote da venti divise in monete da due per raccogliere e inghiottire crème caramel. Massaggia le monete con il palmo della mano e s’interroga quasi teologicamente se spenderle nel biglietto della metro o in un pasticcino, strofina una banconota da duecento e mi domanda se sia meglio comprarsi quella bella giacca di jacquard arancione o se invece non preferiamo darli alla cameriera, affinché possa comprare due torte in quella pasticceria dorata poco distante da noi. Le rispondo sempre: «Non so, fa’ te, sei tu che mangi le torte». Ma lei insiste per minuti interminabili, insiste finché le dico: «Penso che quei duecento euro vadano spesi in pasticceria». Allora, con un leggero batticuore, siede sulla prima panchina che trova, alza il mento e sorride al cielo.
Dormo nella camera degli ospiti e sogno di dire la verità davanti a una grande fetta d’anguria. Prendo il coltello, taglio il cuore del frutto e lo lancio in aria. La mattina mi sveglio stanca e dispiaciuta. Che ogni luglio degli ultimi cinque anni il destino mi voglia ospite in questa casa perché io dica una verità che non conosco? O perlomeno che testimoni di un delitto che un giorno lontano lontano si compirà o forse no? Sono qui per far piangere qualcuno? Devo aggiungere un trentaduesimo spazzolino nel cestino, la notte del trentuno luglio? Devo rubare un probiotico a Charlotte, masticarle una mela vicino all’orecchio?
Mi alzo dal letto, indosso i calzini. Vado in cucina e apro l’immenso frigo. Rubo due albicocche e un pezzo di cioccolata. Rubare piccole cose è lecito, ma i quadratini di fondente non devono essere più di tre. Se rubo fino a tre quadratini sono dolce, e loro si sentono importanti a offrirmi questo cibo per consolarmi dai miei incubi. Se invece i quadratini sono quattro, divento insolente. Ritorno nella mia camera che s’affaccia sui tetti di Madrid avvolti dal pulviscolo dell’alba, ma il mio passo un po’ forte sveglia Charlotte, che scosta lievemente la porta. Mi sorride, le sorrido. «Ciao», sussurra. «Ciao». Dalla loro camera da letto proviene un forte odore. Continuiamo a guardarci per alcuni minuti; lei sulla soglia della porta, io in corridoio. «Hai dormito bene?». «Sì».
A pranzo Charlotte e io lavoriamo a un progetto. Lei, convinta che io dia troppo ascolto alle aspettative degli altri, m’impartisce una lezione su come ribadire la mia posizione professionale, artistica e umana in situazioni difficili e caotiche. Ribatto, dicendole che la malleabilità, specie negli spiriti forti, è un pregio. «Vorrei credere che la tua sia malleabilità – mi risponde – penso invece che sia insicurezza. Mi è veramente difficile crederti». Ancora una volta mi guarda con occhi ben aperti. Ritorna il dubbio: accondiscendere o redarguirla? Scherzarci su? Ci scherzo. «Non mi prendere in giro, ti prego», supplica.
Devo andare in bagno, ma la cameriera sta pulendo quello della camera degli ospiti, la mia camera. «Posso usare il vostro bagno?». «Sì certo». Vado, faccio la pipì, mi cambio l’assorbente, lo butto nel cestino, mi lavo le mani. Torno al tavolo, ricomincio a lavorare al progetto. Charlotte si alza e senza troppe cerimonie va a perlustrare il bagno. Prende un sacchetto giallo con il quale agguanta dal cestino il mio assorbente, già contenuto in un sacchetto sanitario. Io la guardo dalla soglia della porta e le chiedo se posso farlo io questo lavoro, che se sapevo che a Francisco dava fastidio l’invasione del suo cestino, avrei aspettato. Dico tutte queste cose, ma non muovo un dito. «No, no, assolutamente. Non è tua responsabilità», mi risponde, mentre trasporta il sacchetto con dentro il sacchetto del sacchetto del mio assorbente in cucina e lo pigia nell’indifferenziata.
Mi siedo su una poltrona della terrazza, la cameriera sta innaffiando i fiori. Entrambe guardiamo Charlotte che fruga sotto i divani, cercando le prove della mia doppiezza. Ogni tanto rialza la testa e ci lancia dei sorrisi amorosi.