Ci sono romanzi che non solo reclamano a gran voce le interpretazioni critiche, ma cercano proprio di indirizzarle. Forse sono l’equivalente di un brano musicale che al tempo stesso richiede e definisce i movimenti di chi lo ascolta, come un valzer, diciamo. Spesso, inoltre, i romanzi che indicano una direzione alla propria lettura critica hanno come argomento quelle che potremmo considerare questioni intellettuali, o da cultura alta: roba che ha a che fare con l’arte, l’ingegneria, la letteratura antica, la filosofia, ecc. Questi romanzi vanno a ricavarsi una nicchia che sta fra la narrativa vera e propria e una sorta di strano, cerebrale roman à clef. Quando riescono male, come nel caso del mio primo lungo libro, sono abbastanza orrendi. Ma quando riescono bene, come secondo me nel caso dell’Amante di Wittgenstein di David Markson, hanno la funzione vitale e sempre più rara di ricordarci le illimitate possibilità che ha la letteratura di ampliare la propria portata e far presa, di far battere le teste come fossero cuori, e di celebrare matrimoni fra la cerebralità e l’emozione, l’astrazione e la vita vissuta, la ricerca trascendente della verità e gli sbattimenti quotidiani, matrimoni che nella nostra epoca felice di occlusione tecnica e marketing dell’intrattenimento sembrano sempre più che si possano consumare solo con l’immaginazione. Fra i libri che tendo ad associare con questo fenomeno dell’interpretatemi ci sono cose come il Candide, Cosmos di Witold Gombrowicz, Il gioco delle perle di vetro di Hesse, La nausea di Sartre, Lo straniero di Camus. Queste sono cinque opere di genio di uno specifico tipo: opere che quel genio lo gridano forte. Markson, nell’Amante di Wittgenstein, tende piuttosto a sussurrarlo, ma la sua opera di genio non è per questo meno riuscita; né – specie nel contesto del feroce anti-intellettualismo della scena letteraria contemporanea – appare meno importante. O quantomeno, è diventata importante per me. Non avevo mai sentito parlare di questo Markson prima d’ora, nell’88. E, a tutt’oggi, non ho letto nessun altro suo libro. Questo l’ho ordinato soprattutto per via del suo titolo eponimo: mi piace considerarmi un appassionato dell’opera dell’autore di cui porta il nome. Chiaramente il libro parlava/parla in qualche modo «di» Wittgenstein, dato il titolo. È questo uno dei modi in cui la narrativa dell’interpretatemi fornisce indizi al lettore critico su ciò di cui si può ritenere che il libro, a livello terziario, «parli»: il titolo. Il titolo dell’Ulisse, la sua struttura di mappa odissiaca/telemachea (funziona); The Mind-Body Problem di R. Goldstein (veramente orrendo); Il gioco del mondo (Rayuela) di Cortázar (funziona esattamente nella misura in cui se ne ignora l’invito a leggerlo a salti); Checca e La scimmia sulla schiena di Burroughs (sbagliati ma funzionano (?)). Nel caso di romanzi come questi è spesso difficile vedere la differenza fra un titolo e un’epigrafe, a parte banali dettagli come il fatto che quest’ultima è più lunga, più esplicita e attribuita a qualcuno. Un altro modo di stimolare una sorta di corrispondenza/interpretazione è sparare il nome di una persona reale in vari punti del testo, come fa Bruce Duffy nella sua cosiddetta biografia romanzata di Wittgenstein, l’esecrabile The World As I Found It, uscita nel 1988, in cui, nonostante i sonori disclaimer della serie «è tutto inventato», mette in campo un tale arsenale di fatti realmente accaduti misti ad allusioni che il lettore critico non può evitare di confondere il Wittgenstein pazzo di omosessualità raccontato nel libro con il Wittgenstein reale e ben più complesso e interessante. Un altro modo che ha un romanzo per dettare la propria linea di lettura è prendere uno slogan intellettuale e fargli svolgere una ripetuta funzione narrativa: per esempio, nel Candide, il continuo «Tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili» di Pangloss segnala con la vistosità di un’insegna al neon quella che è, finale a parte, poco più di una parodia velenosa ed esilarante della metafisica di Leibniz.
Anche Kate, la narratrice monadica dell’Amante di Wittgenstein, fraintende molte delle osservazioni del suo amato: le parole e le idee più note del filosofo sono sparse, distorte, per tutto il libro, dalla frase sulla sabbia posta in epigrafe alla famosa proposizione del Tractatus secondo cui «Il mondo è tutto ciò che accade», alle speculazioni simil-Ricerche filosofiche sulla differenza fra il «nastro» adesivo e quello magnetico che inequivocabilmente richiamano l’interesse dell’ultimo Wittgenstein per le «somiglianze di famiglia» fra le parole. A differenza di quanto accade in Voltaire, però, quando la Kate di Markson ricorda male frasi e concetti, i suoi errori non sono messi al servizio di una satira propagandistica ma di un’opera d’arte originale e d’interpretazione originale. Perché ciò che fa L’amante di Wittgenstein (da qui in poi abbreviato in L’adW), rispetto al suo eponimo amato, non è semplicemente citarlo in modi strani, o alludere alla sua opera, o a tentare di porsi come una specie di messa in scena dei problemi intellettuali che lo assorbivano e lo assillavano. Il libro di Markson è proprio una rappresentazione, a livello immaginario e concreto, di quel cupo mondo matematico che il rivoluzionario Tractatus di Wittgenstein evocava tramite un’argomentazione astratta. L’adW è, a suo modo, la colorizzazione di un vecchissimo film. Anche se la prosa filosofica di Wittgenstein è tutt’altro che morta o arida, L’adW riesce comunque a trasferire i dilemmi intellettuali di W nei saporiti qualia dell’esperienza vissuta – sia pur vissuta in maniera bizzarra. Il romanzo vivifica l’opera del primo Wittgenstein, le dà un volto, agli occhi del lettore, come la filosofia non fa e non può fare… soprattutto perché gli scritti di Wittgenstein sono così difficili e così faticosi da capire anche solo a livello letterale che la ginnastica mentale da emicrania richiesta a chi li legge finisce per schiacciare quasi del tutto le drammatiche implicazioni emotive della prima metafisica di W. La sua amante, però, pone la domanda che l’amato non mette mai per iscritto: E se qualcuno dovesse veramente vivere in un mondo fatto a immagine e somiglianza del Tractatus?
Pubblichiamo le prime pagine di «La pienezza vuota» («The Empty Plenum: David Markson’s Wittgenstein’s Mistress», uscito per la prima volta nel 1990 sulla Review of Contemporary Fiction). Il saggio torna in questi giorni in libreria come postfazione alla prima traduzione italiana del romanzo del 1988 di David Markson
L’amante di Wittgenstein
Traduzione di Sara Reggiani
Edizioni Clichy
320 pagine 15 euro
Non voglio però lasciar intendere che il maggiore traguardo raggiunto qui da Markson stia nel rendere la filosofia astratta «accessibile» a un lettore extra moenia, o che L’adW sia in sé un libro semplice. Al contrario, sebbene la prosa e la voce monotona in cui è scritto siano di un’ipnotica banalità, il romanzo presenta un sistema in diffrazione di allusioni a qualunque cosa, dall’Evo antico all’erba artificiale, che è un bel casino seguire fino in fondo; e la circolarità concentrica che sostituisce lo sviluppo lineare come modalità di «avanzamento» della trama fa sì che per il lettore digerire L’adW sia un processo lungo e impegnativo. Quello di Markson non è un libro pop, e non è filosofia distillata né una docufiction della settimana in stile Bruce Duffy. Viceversa, secondo me, è un romanzo che rende giustizia, sul piano artistico ed emotivo, alle implicazioni etico-politiche della metafisica matematica astratta di Ludwig Wittgenstein, e fa sì che ciò che era pensato come un semplice meccanismo cominci a pulsare, respirare, soffrire, vivere, ecc. Così facendo, tributa un commosso omaggio a un filosofo che con tutta evidenza ha vissuto come un tormento personale le domande che troppi dei suoi seguaci accademici hanno trasformato in un esercizio vuoto ed elaborato. L’adW di Markson riesce, cioè, a fare qualcosa a cui pochi filosofi arrivano, e che né una miriade di profili biografici né il sensazionalistico revisionismo di Duffy riescono a comunicare: le conseguenze, per le persone, dell’applicazione pratica di una teoria; la differenza, diciamo, fra lo sposare il «solipsismo» come «posizione» metafisica e lo svegliarsi un bel mattino dopo un lutto personale e scoprire che il proprio cordoglio ha proporzioni apocalittiche, letteralmente da fine del mondo, perché si è rimasti l’unico e solo essere vivente sulla faccia della terra, e non soltanto come unica compagnia, ma anche come unico ambiente e mondo non si ha altro che la propria testa, una spiaggia in pendenza che scivola verso un mare di orrore. In altre parole, il libro di Markson per me trascende lo status di «tour de force intellettuale» o «gioiello di sperimentalismo» che gli assegnano le recensioni: lo scenario che dipinge, in quanto analisi diretta della depressione e della solitudine, è troppo commovente per essere oggetto di esercizio o di esorcismo. Gli aspetti per cui il libro è commovente, e l’ingegnosità formale grazie alla quale trasforma la metafisica in angoscia rivelando così che la filosofia è prima e più di tutto qualcosa che ha a che fare con lo spirito, bastano a farmelo considerare, al momento, uno dei migliori romanzi americani del decennio, e a farmi deplorare il modo in cui è stato relativamente ignorato, e affidato da una rivista come la New York Times Book Review alla valutazione ossequiosa di una giovane carveriana (Vale a dire Amy Hempel, con l’enciclica uscita il 22 maggio 1998 sulla NYTBR)
Ma aggiungendo ai meriti del romanzo l’inquietante perizia pirotecnica con cui anima la storia intellettuale – il modo totalmente convincente in cui L’adW dimostra come abbia fatto uno dei più brillanti e più importanti esponenti del pensiero moderno a essere, nella vita privata, un povero disgraziato così infelice – ecco che il libro diventa, se siete uno di quegli sfortunati che non possono impedire alle proprie convinzioni intellettuali di influenzargli quotidianamente la salute dello stomaco, un tipo particolare di grande libro, letteralmente profondo, e probabilmente destinato, nella pienezza sua e dei tempi, a diventare senza troppo clamore un classico.
Traduzione di Martina Testa