Tic, il geniale editore che vende mappe della metropolitana di Roma come se la sognano i romani (più di dieci linee, si chiama I have a dream…), pubblica oggi i magneti da frigo con le espressioni più inquinanti e ridicole che usiamo e odiamo, da slippino a epic fail, da apericena a frittini…
Tutto nasce dai post di Vincenzo Ostuni, poeta top e editor mai banale di Ponte alle grazie, che ci racconta la situescion comodamente a casa tua e ci fa intravedere una exit strategy.
Tutti i proventi saranno devoluti alla Crusca (giuro).
Quanto tempo è che va avanti il tuo gioco delle parole orrende?
Dall’aprile del 2012. Con un’amica milanese, a cena, cominciammo a fare l’elenco delle parole più orrende che conoscevamo: ricordo che citammo ‟piuttosto che”, ‟insalatona”, ‟mutandine”… Mi venne l’idea di cominciare un hashtag su Twitter, appunto #paroleorrende. Ricevette subito un buon seguito e molti contributi appassionati. Presto, dalle singole parole si estese a cliché, brevi sintagmi, modi di dire.
Hai creato una specie di forma mentis. Non l’ho mai vista come una cosa castrante, più un’analisi di certi registri. Da romanziere trovo prezioso un compendio della lingua banale di quest’epoca. Tu come la vedi? C’è più intransigenza o più amore per la lingua, oltre ovviamente al divertimento puro?
Molto è il divertimento puro. Ho riso moltissimo, per le parole orrende – riso teneramente delle nostre turpitudini quotidiane in fatto di linguaggio; riso beffardamente delle ipocrisie sociali che il giochino svela; riso ferocemente dei rapporti di dominio che, senza poterli invertire, svergogna. Con me credo molti. La mia lingua – soprattutto orale – si è, credo, un po’ migliorata, per nulla inibita, se non per un breve periodo: anzi è più veloce a svicolare dalle continue tentazioni dello stampo. È vero, anche se ammetterlo attribuisce al gioco un’importanza eccessiva: è una forma mentis, quella di tanti ‟orrendatori” che osservano ormai con divertita apprensione la lingua quotidiana, pronti a sorprendere in fallo sé o altri e a offrire i loro orrori a questo rogo carnevalesco.
Hai tratto qualche grande verità dal tipo di coinvolgimento dei tuoi amici a questo gioco?
No, nessuna. Ma è un mio pallino, organizzare esperienze di produzione collettiva: di letteratura, con una specie di cenacolo all’inizio degli anni Novanta; di politica culturale, con TQ e in altri modi; ora anche con il giochetto. Poche cose mi eccitano come questo: in questo trovo una gratificazione per me alta, o addirittura una componente utopica. C’entra apparentemente poco con le parole orrende, ma sono certo che un’epoca postindividualistica possa e anzi debba presentarsi. Il che non significa che l’individuo scompaia: certo, ogni individuo scompare nella lingua, ‟è parlato”, come sappiamo, ecc.: e tuttavia, il fatto che a ogni parola orrenda della collezione venga associato il suo ‟scopritore”, colei o colui che per prima o primo l’ha segnalata, rimane un ingrediente fondamentale non solo del suo successo, ma proprio del suo carattere d’impresa comune. Però la sto facendo troppo lunga: si tratta solo di un centinaio di persone che scherzano.
Un’altra cosa: non tutte le parole orrende sono sostituibili o vanno sostituite. Neppure parecchi degli anglismi gratuiti: i tentativi di darne succedanei italiani producono spesso risultati più ridicoli dell’originale. Nella lingua, bisogna accettare una quota di orrore.
Sei in contatto con la Crusca? Sai cosa ne pensano loro di questa storia?
Non direttamente. Ma poiché apprezzo il loro lavoro e mi pare poco opportuno impinguare le mie finanze, pur bisognose, con il frutto di un’impresa soprattutto collettiva, ho deciso di versare alla Crusca i diritti del libro. Gli ci sono volute settimane per consentirci di menzionare la circostanza in quarta di copertina: alla fine hanno accettato. In tutti i casi, loro fanno qualcosa di molto diverso, mirano altrove, con metodi ben più seri. Invece, la gran parte delle parole orrende hanno solide e antiche radici nell’italiano e – dal punto di vista morfologico semantico ecc. – sono del tutto corrette. In effetti, la nostra è una forma – superficiale quanto vuoi – di critica della cultura, dei costumi, del potere, dei rapporti, non una manutenzione della lingua.