Chiuse le convention di Cleveland e di Philadelphia, dove i due partiti americani hanno formalmente nominato i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, è iniziata la fase finale della campagna elettorale per la Casa Bianca. Le elezioni si terranno martedì 8 novembre. Scommettere sulla vittoria di uno dei due candidati non è mai consigliabile, ma soprattutto in questo ciclo elettorale che fin dalle primarie di inizio anno ha sgretolato tutte le certezze consolidate della politica americana, comprese quelle di chi scrive. I due candidati, Donald Trump e Hillary Clinton, non potrebbero essere più diversi, anche se il primo ha più volte finanziato le campagne elettorali della seconda, la seconda è stata ospite d’onore al matrimonio del primo e le figlie di entrambi, protagoniste delle rispettive serate finali delle convention, sono ottime amiche.
I punti di contatto terminano qui. Trump definisce Hillary «corrotta», «bugiarda», «il diavolo», «la fondatrice dell’Isis». Hillary descrive Donald come un potenziale dittatore, un agente russo e un ignorante. Per Trump lo stato dell’America è disastroso e soltanto lui potrà mettere a posto le cose. Non dice come farà, ma lo afferma con una sicurezza irresistibile. Per Hillary l’America è già un grande Paese, e solo lavorando tutti insieme si potrà ulteriormente progredire e perfezionare l’Unione. Non fa sognare e sa che non tutti si fidano di lei, per questo entra nei dettagli un po’ noiosi delle misure da adottare per ampliare la copertura sanitaria, per aiutare gli studenti universitari e per alzare il salario minimo. Trump fa il gradasso, non conosce i dossier, dice enormità che travolgerebbero qualsiasi altro candidato, ma non il personaggio del reality show che, anzi, più le spara grosse più consolida il consenso. Hillary sta attenta a non sbagliare una virgola, perché a una professionista della politica non è consentito il minimo errore, e per questo risulta fredda, antipatica, calcolatrice.
Trump vuole costruire muri, Hillary ponti. Nella grande e nuova divisione ideologica che sta sostituendo quella tradizionale tra destra e sinistra, Trump rappresenta chi si vuole chiudere al mondo, Hillary chi si vuole ulteriormente aprire. Trump è no global, il cognome Clinton è sinonimo di globalizzazione. Trump è isolazionista e guarda con ammirazione i leader stranieri autoritari, gli unici secondo lui capaci di governare il caos. Hillary crede nella missione democratica del suo Paese e pensa che l’alleanza del mondo libero possa rendere l’America ancora più forte.
Trump propone se stesso, la sua famiglia e il suo marchio di fabbrica, TRUMP a lettere cubitali, come terapia d’urto per curare il disagio sociale creato dalla crisi e dalla più bassa crescita economica dal Dopoguerra. Hillary offre un ampliamento dei diritti individuali, un maggiore intervento pubblico, una piattaforma economica populista e progressista che fino a qualche tempo fa in America sarebbe stata considerata eversiva, attenuata da una grande attenzione ai valori patriottici e familiari, tradizionalmente cari ai conservatori. Trump è pessimista, Hillary ottimista. In America vince sempre il candidato più ottimista, ma mai come quest’anno gli americani credono che il Paese stia marciando verso la direzione sbagliata.
Finite le convention, sono arrivati i nuovi sondaggi. Dopo Cleveland, Trump ha superato Hillary; dopo Philadelphia, Hillary è tornata in testa di nove punti. I sondaggi nazionali contano poco, vanno interpretati e presi per quello che sono: un’indicazione e una tendenza del sentimento popolare. Le elezioni si decidono Stato per Stato e da una trentina d’anni la partita si gioca sempre negli stessi nove o dieci sui cinquanta di cui è composta l’Unione. Salvo sorprese, il presidente degli Stati Uniti sarà deciso dal voto in Florida, Ohio, Pennsylvania, North Carolina, Virginia, Iowa, Indiana, Colorado e New Hampshire.
Douglas E. Schoen, storico sondaggista di Bill Clinton, ha scritto un articolo sul Wall Street Journal per avvertire che Trump è in vantaggio, che i numeri sono dalla sua parte, che la tendenza è chiara: il favorito è l’immobiliarista newyorchese, scrive, e l’underdog è Hillary.
Un paio di giorni prima, Karl Rove, lo stratega di George W. Bush, sullo stesso giornale ha suggerito a Trump di non perdere tempo a fare campagna elettorale in giro per il Paese, dove è garantito che non vincerà, ma di concentrarsi su quei pochi Stati che in caso di successo potrebbero aprirgli le porte per la Casa Bianca. Il New York Times, partendo dalle analisi dei big data, pubblica ogni giorno le percentuali di vittoria di ciascun candidato e, al momento in cui scrivo, sostiene che Hillary abbia il 75 per cento di probabilità di diventare presidente. Il guru Nate Silver, che come tutti però non aveva previsto Trump, sostiene che Hillary abbia il 73,2 per cento di chance di vittoria, contro il 26,8 di Trump. Questo margine così alto è spiegato dalla mappa elettorale, dalla composizione demografica degli Stati e dall’accoglienza negli Stati in bilico delle proposte dei due candidati. Applicando le regole consolidate della politica americana, le stesse però che non sono state rispettate alle primarie, le strade per la vittoria di Trump sono più strette di quelle di Hillary: per diventare presidente, Trump deve necessariamente vincere quasi tutti i battleground States, a cominciare da quelli più grandi. A Hillary ne bastano tre o quattro.
Un’indicazione non scientifica, ma interessante per capire che cosa pensano i dirigenti di partito, è quella registrata alle due convention dal sito RealClear e da Microsoft. Prima a Cleveland e poi a Philadelphia, RealClear e Microsoft hanno piazzato nei corridoi delle due arene un mega touch screen con la mappa degli Stati Uniti invitando i delegati a immaginare il risultato Stato per Stato. Gli Stati indecisi, dove i sondaggi danno risultati entro il margine di errore, erano colorati di grigio. Con un tocco sullo schermo diventavano blu, democratici, con due invece rossi, repubblicani. I 250 che alla convention democratica di Philadelphia hanno partecipato al gioco hanno pronosticato una larga vittoria di Clinton. Ma la cosa significativa è che anche i 450 delegati alla convention repubblicana hanno previsto un successo di Clinton su Trump.
La mappa elettorale è, in effetti, la cosa da guardare per provare a intuire il risultato finale, ed è anche divertente giocarci su 270towin.com. Il sistema elettorale americano è complesso: viene eletto presidente il candidato che raggiunge o supera quota 270 nel Collegio elettorale (270 è la metà più uno dei 538 voti totali del Collegio elettorale). I 538 voti sono suddivisi Stato per Stato in base al numero degli abitanti (in realtà in base al numero dei membri del Congresso) e poi assegnati di conseguenza al candidato che nelle urne dei singoli Stati ottiene la maggioranza dei voti popolari.
Ci sono Stati che votano ininterrottamente democratico o repubblicano da 30 anni, non importa quale sia il candidato, al punto che lì gli aspiranti alla presidenza non fanno nemmeno campagna elettorale. La base dei democratici è più ampia perché gli Stati blu sono quelli che negli ultimi anni sono cresciuti di più e quindi il loro peso elettorale per raggiungere quota 270 è diventato maggiore. Dal 1992 a oggi sono 18 gli Stati che hanno sempre votato per i democratici, sia che il candidato risultasse poi vincente, come Bill Clinton e Barack Obama, sia che venisse sconfitto dai repubblicani, come Al Gore e John Kerry. Se dovesse succedere anche quest’anno, Hillary avrebbe una base di 242 grandi elettori e per diventare presidente le basterebbe aggiungere la Florida (29 voti) oppure una combinazione di due degli altri Stati in bilico, come la Virginia del suo vicepresidente Tim Kaine, oppure la Pennsylvania o la North Carolina. Trump, invece, non potrà mai essere eletto se, oltre ai suoi 191 quasi certi, non vincerà anche in Florida, Ohio e Pennsylvania e almeno in altri due Stati più piccoli. In teoria è un’impresa possibile, ma non ci sono riusciti né Mitt Romney nel 2012 né John McCain nel 2008 (in nessuno dei tre Stati) né George W. Bush nel 2000 e nel 2004 (Bush ha vinto due volte, per un soffio, Florida e Ohio, ma mai la Pennsylvania).
Il team Trump fa circolare l’ipotesi che alcuni Stati tradizionalmente democratici, come il New Jersey e l’Oregon, quest’anno sarebbero in gioco, ma i sondaggi non sembrano confermarlo e anzi appare più probabile che Trump debba difendersi da Hillary in alcune storiche roccaforti repubblicane, addirittura nello Utah mormone che in 50 anni non ha mai votato democratico, e soprattutto al Sud, in Georgia e North Carolina, dove c’è una forte presenza di afroamericani e di città universitarie che non rappresentano il target ideale di Trump.
Ma, appunto, chi è l’elettore di Trump? La fetta principale ovviamente è il tradizionale elettorato repubblicano e conservatore, anche se con qualche brivido: molti leader repubblicani, a cominciare dai due presidenti Bush, fino agli ultimi due candidati alla presidenza, Mitt Romney e John McCain, non solo non hanno partecipato alla convention di Cleveland ma hanno annunciato che non voteranno Trump (non voteranno nemmeno Hillary, i loro voti probabilmente andranno al candidato del Partito Libertario, Gary Johnson, ex governatore repubblicano del New Mexico). Il più tenace degli sfidanti di Trump alle primarie, il senatore del Texas Ted Cruz, alla convention di Cleveland ha invitato in prime time televisivo i suoi elettori a votare secondo coscienza, cioè non per Trump. L’altro sfidante delle primarie, il governatore dell’Ohio John Kasich, non si è nemmeno presentato alla convention, tenutasi nel suo Stato, e ogni giorno non perde occasione per criticare Trump. Non è una bella prospettiva per il candidato repubblicano, visto che l’Ohio è uno degli Stati chiave, imprenscindibile per la vittoria finale. Molti intellettuali conservatori e molti dirigenti delle Amministrazioni Bush padre e figlio hanno annunciato che voteranno Clinton o che si asterranno. I fratelli Koch, grandi finanziatori delle campagne conservatrici degli ultimi anni, hanno detto che non daranno nemmeno un dollaro a Trump né a campagne presidenziali contro Hillary, e hanno anche rifiutato di incontrare il candidato repubblicano (Trump, con la solita acrobazia, ha risposto su Twitter che erano stati i Koch a chiedere un incontro e che lui non li ha voluti vedere). Ma è come se tutto ciò facesse il gioco di Trump, sembra che si esalti nell’uno contro tutti. Nei giorni successivi alle convention ha insultato l’esercito, denigrato un alto generale, offeso i genitori di un eroe di guerra e chiesto aiuto all’ex Kgb affinché trovasse le email di Hillary (subito dopo la sua dichiarazione si è saputo che i russi avevano davvero hackerato i server della campagna Hillary, così come avevano fatto poco prima con le email del Partito democratico). I leader del partito hanno iniziato a rumoreggiare, la sua campagna è andata in tilt e il marchio Trump è crollato nei sondaggi.
Mancano due mesi e mezzo al voto, Trump avrà tempo di recuperare o magari di affondare, ma resta il fatto che fin qui c’è arrivato e una spiegazione va trovata. La forza di Trump sta nell’aver trovato un pubblico attento ad ascoltare la sua promessa di “legge & ordine” e di rovesciamento brutale del potere delle élite. Tutto il messaggio di Trump gira intorno a una frase semplice che ripete senza stancarsene mai: «Il sistema è truccato, rigged», e solo grazie al suo intervento l’America tornerà di nuovo grande.
Questo pubblico è la working class bianca poco istruita delle vecchie zone industriali del Paese che, a causa delle innovazioni tecnologiche più che della globalizzazione, dell’immigrazione e dei trattati di libero scambio, negli ultimi anni ha subìto una forte riduzione del reddito e della speranza di vivere un futuro migliore. I bianchi poco istruiti della Rust Belt, la cintura di zone ex industriali, sono la più grande minoranza del Paese, l’unica contro cui, nella patria del politicamente corretto, è ancora consentito usare termini dispregiativi. Sono chiamati “white trash”, spazzatura bianca, “redneck”, terroni, “hillbilly”, montanari. Sono stati trascurati dalla tradizionale agenda politica dei repubblicani, fatta di tagli alle tasse, depotenziamento dei sindacati e riduzione del welfare. E anche dalla trasformazione dei democratici da partito del cittadino comune a coalizione dei diritti identitari e di gender (donne, afroamericani, gay, giovani metropolitani). Eppure sono stati storicamente la base elettorale del New Deal di Franklin Delano Roosevelt, sono diventati i Reagan Democrats negli anni Ottanta e nel decennio successivo sono parzialmente tornati dai democratici di Bill Clinton.
Trump parla a loro e loro per la prima volta ascoltano qualcuno che li ha messi al centro dell’agenda politica. Hillary ha scelto come candidato vicepresidente il senatore della Virginia Tim Kaine, cattolico, working class, proprio per questo.
Un bellissimo libro di Nancy Isenberg, intitolato White Trash, racconta la storia lunga di quattro secoli di questa underclass che nasce nel Cinquecento con le politiche coloniali britanniche di trasferimento forzoso dei poveri in America e che nella cultura popolare è descritta in Il buio oltre la siepe (To Kill a Mockingbird) del 1962, nella serie televisiva Hazzard degli anni Ottanta e oggi nel reality show Duck Dinasty (l’attore principale della serie è stato una delle stelle della convention di Trump a Cleveland).
In The End of White Christian America, la fine dell’America bianca e cristiana, Robert P. Jones racconta invece il declino di quella maggioranza bianca più ampia che è stata la più grande forza culturale della storia degli Stati Uniti e lo spiega con la demografia: nessun altro Paese al mondo ha assistito a un altrettanto rapido cambiamento razziale ed etnico come l’America degli ultimi anni. Da qui le ansie, il risentimento e la nostalgia di un passato che non c’è piu (“Make America Great Again”, è lo slogan di Donald Trump). Da qui anche la rabbia bianca, The White Rage, di cui parla il saggio di Carol Anderson che spiega in questo modo, più che con la rabbia nera, le tensioni razziali tra poliziotti bianchi e afroamericani.
Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis, di J.D. Vance, racconta invece in prima persona, come se fosse una guida antropologica, non politica, chi sono questi potenziali elettori di Trump, così invisibili agli occhi degli analisti e altrettanto difficili da capire. Vance, che in questa cultura ci è nato e cresciuto, spiega che i bianchi poveri e poco istruiti non vogliono assistenza sociale né assegni welfare, vogliono tornare indietro ma non perché sono razzisti né perché hanno paura della modernità: vogliono essere di nuovo orgogliosi di se stessi e delle cose che producono o, meglio, che producevano.
Nelle ultime tre elezioni presidenziali, il candidato del Partito democratico ha sempre perso i voti della working class senza laurea con uno scarto, in media, di 22 punti percentuali a favore del candidato repubblicano. Il peggior risultato lo ha registrato Obama nel 2012, meno 26 punti: 62 a 36 per Romney. La buona notizia per Trump è che la working class bianca vive in gran parte negli Stati che decideranno le elezioni: Ohio e Pennsylvania, ma anche Michigan e New Jersey. La buona notizia per Hillary è che non pesa più come una volta. Nel 1988, la working class bianca costituiva il 54 per cento dell’elettorato e due terzi di tutta la popolazione bianca. Ora è al 30 per cento del totale e meno della metà dell’intera popolazione bianca.