Poker Londra più Hastings. Brex-in!
1 — Armen Eloyan: Garden
Dal 8 luglio al 3 settembre 2016. Timothy Taylor Gallery, Londra
Armen Eloyan è un uomo armeno glabro e fascinoso; il suo petto è istoriato da decine di tatuaggi picari e marinareschi: teschi, pipe, rose, palme e, lungo le braccia, apparizioni dei buffi personaggi che popolano anche le sue tele. Ricorrono l’omino-legnetto, alter ego del pittore, la donnina-teiera dalle lunghe ciglia, il lupo col naso rosso, il burattino pelato e cerebrale, la patata assassina; è un mondo di sfortunati, maciullati burattini dai grandi occhi quello di Eloyan, alcuni vittime, altri carnefici. La pittura di Eloyan è grassa e turbolenta, molto rara al giorno d’oggi, debitrice a Philip Guston, ma anche lontana dalla pittura occidentale, più vicina alle pendici dell’Ararat innevato.
La prima volta che mi sono imbattuta nel lavoro di Armen Eloyan leggevo Bidoun, un magazine molto speciale dedicato all’arte e alla cultura mediorientali, pubblicato per dieci anni e di cui ora esiste un sublime archivio. L’intervista a Eloyan verteva sull’ironia armena. Stando a Eloyan il popolo armeno è capace d’inventare barzellette divertentissime. Non penso di aver mai riso a una barzelletta in vita mia, mi distraggo sempre fissando la faccia attenta del barzellettiere, ma questo perché sono abituata alle barzellette italiane. M’imbarazza l’ambizione del barzellettiere di far ridere, penso che di sicuro non mi farà ridere, non rido mai perché quello stesso imbarazzo mi porta a non ascoltarla nemmeno, la barzelletta. Ho capito però che la mia indisposizione verso le barzellette muta in adorazione quando ascolto le storielle ebraiche e i giochetti armeni perché in questi generi letterali orali si fa un esilarante, complesso uso del nonsense, dell’assurdo, della ripetizione, del finale moscio, lo stesso uso che ogni pittore capace deve essere in grado di fare sulla tela a livello compositivo. Il quadro lo lasci stare prima che sia finito. Ti sbarazzi del senso prima che abbia senso. Se il quadro non trova senso da solo, con le sue forze, è nato morto. Buttandoci dentro i personaggi e le forme astratte il pittore è un mago che mescola cianfrusaglie nel suo paiolo, non uno chef. Il minestrone finale susciterà stupore, come un’assurda barzelletta. «Comporre un buon dipinto equivale a comporre una buona barzelletta» ha detto Eloyan.
timothytaylorgallery.com
2 — Georgia O’Keeffe
Dal 6 luglio al 30 ottobre 2016. Tate Modern, Londra. A cura di Tanya Barson e Hannah Johnston
Se il nome di Georgia O’Keeffe non evoca nulla siamo nei guai. La farò breve: dire O’Keeffe a Santa Fe equivale a dire Picasso ad Antibes. Per ogni volta che, mettendo piede in una galleria che espone pittori ventenni, esclami: «Riprende da Picasso», c’è un intenditore americano che mette piede in una galleria americana e dice: «Riprende da O’Keeffe». O’Keeffe è l’alternativa americana autoctona al cubismo, è l’altra strada, quella che noi europei non avremmo potuto prendere, mancandoci le Rocky Mountains; noi abbiamo preso la via delle baie, delle calette.
Georgia O’Keeffe era una donna che dipingeva astrazioni, teschi, fiori e montagne, a volte uno per volta, altre tutti insieme; era inoltre la moglie di Alfred Stieglitz (lo Zeus della fotografia americana, macchiato del sangue dei titani si apprestava a generare gli Apollo) e direttore della Gallery 291, la prima a importare in America Rodin, Cézanne, Matisse, Picasso. Jimson Weed/White Flower No.1 (1932) di O’Keeffe è l’opera d’arte firmata da una femmina venduta al valore più alto di ogni tempo, 44.4 milioni di dollari da Sotheby’s.
L’angolazione del tutto particolare in cui O’Keeffe dipingeva le corolle dei fiori (ma anche i teschi, anche le croci) che potremmo definire di close-up sul pistillo, negli anni ha generato un mito e cioè che i suoi fiori (ma anche i teschi, anche le croci) fossero vagine. Intere generazioni di spettatori, donne con la veletta, uomini con pantaloni a zampa, adolescenti con lo smartphone, ci hanno visto vagine. Adesso, con questa retrospettiva della Tate, i giornali hanno buffamente cominciato a strillare che i fiori di O’Keffee sono calle, iris e petunie; calma signori, non sono vagine! L’artista stessa era really upset con questo mito della vagina. Penso che le presunte conquiste del femminismo nel riconoscimento dell’artista donna c’entrino ben poco con il crollo del mito intrauterino, penso piuttosto che laddove il femminismo ha fatto cilecca ci abbia pensato la vis astrattista dei britannici, per cui se un ovale è ovale è ovale e non è uovo, se una petunia è petunia è petunia e non vagina. O’Keeffe a Londra, what an exquisite guest.
tate.org.uk
3 — Marcus Harvey: Inselaffe
Dal 16 luglio al 16 ottobre 2016. Jerwood Gallery, Hastings
Col passare degli anni ho sviluppato la certezza che Marcus Harvey sia uno dei pochi artisti essenziali del nostro tempo, that is to say: un genio; finito di leggere le mie parole, guardate questo video e capirete. Ho già scritto molte pagine su Harvey, sulle sue spietate maniere di spiattellare, sviscerare, metamorfizzare l’identità nazionale britannica e la mascolinità, sue tematiche portanti, ma ora, in questa Brexit summer, sento di non aver detto tutto. Il titolo della mostra presso Jerwood è Inselaffe, un termine spregiativo tedesco usato per riferirsi agli abitanti del Regno Unito; significa ‘isola delle scimmie’.
Harvey è pittore, scultore e non rinuncia a nulla, è anche l’inventore della scultura su pittura su fotografia. Le sue opere pittoriche sono fotografie stampate su tela, Harvey dipinge sull’immagine fotografica per poi incorporare alla superficie del dipinto accrocchi di sculture. Ne emergono dipinti che raggiungono i cinquanta centimetri di spessore. Le sculture propriamente dette invece sono bronzi composti da miscugli di statuette, un incrocio tra il bric-à-brac e Arcimboldo.
Un po’ di parole per descrivere il suo immaginario: mare, scogliere, pirati e Royal Navy, poliziotti deformi, maiali, Maggie Thatcher, flag of England (bianca a croce rossa), flag of the UK, vecchie pazze imbellettate, castelli di sabbia, bombe atomiche, pugni chiusi, colonne greche, palloni da football. Harvey artista chiama a gran raccolta i tormenti e le contraddizioni del Regno Unito perché già come uomo li raccoglie tutti, basta guardare le sue dita inanellate, luminose e minacciose, i suoi gilet composti di cravatte e strani rasi cuciti tra loro, la pancia, il capello, la voce che mai esplode in fragorose risate, ma ridacchia all’interno. Per leggere il futuro bisogna saper leggere il Regno Unito e per leggere il Regno Unito si deve decifrare Marcus Harvey.
jerwoodgallery.org
4 — MADE YOU LOOK. Dandyism and Black Masculinity
Dal 15 luglio al 25 settembre 2016. The Photographer’s Gallery, Londra. A cura di Ekow Eshun
La mostra nasce dall’idea di un curatore e scrittore illuminato, Ekow Eshun, e raccoglie le voci di numerosi fotografi intorno a un unico, imperioso, prepotente, scintillante soggetto: il dandy nero. L’uomo nero che sceglie di definire la propria identità politica, sessuale, individuale, tramite usi rivoluzionari e costumi sgargianti.
Nel saggio che apre la mostra il curatore scrive di quando, raggiunta l’età adulta, passò da essere un ragazzo nero a impersonare l’uomo nero: «Il mio corpo non mi apparteneva più. Essere un uomo nero significa essere oggetto dello sguardo del bianco […] un oggetto su cui altri proiettano le proprie fantasie psichiche». Ogni volta che un bianco guarda un nero con sospetto – ricorda il curatore – il nero si sente oggetto di quello sguardo e lo vive in maniera traumatica. Aggiungerei: il bianco rimuove il trauma del nero, pensa che il proprio sguardo rimbalzi sulla pelle del nero come rimbalza la luce, pensa che al nero non importi, lo investe di una certa strafottenza, trascura il fatto che il nero è rimasto ferito.
Ma quando lo sguardo del bianco viene a mancare, ecco che il nero imbastisce un carnevale, squisito materiale per il fotografo. E’ questo il caso dei paesi ex-coloniali e della definizione di mascolinità negli anni che seguirono la liberazione di questi stessi, chiamiamola mascolinità post-coloniale. Si profilò sin da subito come mascolinità incontaminata, priva di una forte tradizione locale, una performance: quando i neri del Mali ottennero l’indipendenza dalla Francia nel 1960 non avevano certo intenzione di stringersi il collo in una scura cravatta, misero bensì in scena un teatro della libertà dove le sarte si diedero un gran da fare con spezzati asimmetrici, strani colbacchi, fastose e festose ghette… Uomini poveri che vestivano come eccentrici imperatori.
E ora che viviamo il tempo di Black Lives Matter, il dandysmo nero chiama ancora di più la nostra attenzione, non scordiamo che il giovane Trayvon Benjamin Martin fu ucciso perché appariva ‘suspicious’. L’apparenza, l’abito e tutto ciò che questi hanno attivato nell’occhio dell’assassino hanno stabilito il fato del giovane. Quella di Eshun è una mostra antropologica, curiosa, ribollente del fascino delle sottoculture, ma anche di una squisita eleganza classica che il dandy nero ha saputo impersonare nei decenni; è illuminata dai colori del fotografo marocchino Hassan Hajjaj, influenzato dalla scena hip-hop e reggae di Londra e dalle raffinate composizioni del newyorkese Jeffrey Henson Scales.
jerwoodgallery.org