Fino al 2 ottobre il Museo della Juventus ospita una mostra intitolata L’arte di vincere. Trentaquattro opere per trentaquattro scudetti, a cura di Luca Beatrice; l’esposizione traccia cronologicamente i parallelismi tra arte e calcio dal 1905 a oggi. L’arte e il calcio della Vecchia Signora s’incontrano in misteriosi risvolti che s’annidano tra le pieghe delle magliette, i pantaloncini, gli scarpini, il corpo dei calciatori. Prendendo spunto dalla mostra, mi appresto a tracciare un inusuale percorso dell’arte italiana secondo altezza, muscolatura, incarnato, miti e leggende dei giocatori juventini.
Sarà il mio un percorso in parte differente da quello intrapreso da Luca Beatrice, appenderò ai fogli bianchi del mio museo immaginario molte altre opere che non appaiono nella mostra e altre ancora ne toglierò; non ho inserito né Alberto Burri né i pittori della Transavanguardia, trovo che la sfrontata primordialità centritalica di questi pittori nulla abbia a che fare con lo stile Juve.
Alla Juve si addicono le limate raffinatezze torinesi, il Poverismo convinto, la Pittura analitica, senza dimenticare peraltro che l’Avvocato amava le quiete luci di Matisse, di Baggio Raffaello e di Del Piero Pinturicchio: non amava il puro, ma l’armonico sì, non l’essenziale, ma il classico. Pienamente juventini invece il Secondo Futurismo e la Metafisica, ben rappresentati nella mostra torinese. A cominciare dalla meravigliosa tela di Fortunato Depero, I bevitori e la locomotiva (1925): vi si narra l’epica della velocità, della meccanica. L’uomo sportivo nell’era fascista è uomo pubblico, i bevitori di Depero danzano e i loro volti si scompongono nei piani della visione, divertenti e disumani.
Primi anni del Novecento: il Nord-Ovest italiano è ancora il regno di Simbolismo e Scapigliatura, le pennellate brunoverdi infrante e convulse dei pittori intrecciano i motivi eclettici e vegetali della Belle Époque al sapore di lutto e tragedia dei cimiteri monumentali.
Nel 1902 Leonardo Bistolfi progetta la locandina per l’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino: quattro vestali, le tuniche bianche, le spalle scoperte, piccoli fiori precisi precisi e i campi verdi ondeggiano. È la Torino francofila, inconsapevole di tutto quel che le succederà e i giocatori della Juve portano ancora cognomi lunghissimi gorgoglianti misteriosi toponimi. Sono gli anni dei capelli a spazzola celebrati dall’autogol di Giovanni Mazzonis di Pralafera, di quando in campo si portano baffetti da metalmeccanico ed Edoardo Agnelli scambia il primo bacio con Virginia Bourbon del Monte.
Il più glorioso tra i portieri, Combi, è tentato di lasciare il calcio per lavorare in una distilleria di liquori in America, ma viene signorilmente fermato. Nel mentre i suoi compagni sono apostrofati col nome di “trio dei ragionieri” perché di un ragioniere hanno proprio tutto, i capelli impomatati, la linea in parte pre-olliwùd: Combi, Rosetta, Caligaris.
Nel 1918 Giorgio Morandi dipinge Natura morta metafisica, il famoso quadro che tutti gli studenti d’arte in erba scambiano per un De Chirico. È una pittura ovattata che con una forbiciona da carpentiere taglia le corde vocali al primo roboante Futurismo; questa pittura in attesa testimonia l’incapacità di fuggire dal tempo: vincere, a tutti i costi.
28 ottobre 1922, la marcia su Roma; l’anno prima è nata una persona molto importante: in tribuna c’è un nuovo tifoso che beve al biberon, si chiama
Giovanni Agnelli. Più che il pallone, fissa pieno di ammirazione i lucenti, gialli scarpini di Federico Munerati, detto il Ricciolo, attaccante.
«Carrà è l’idiota al ralenti, e allora si dà il senso del puro e del solenne – dice Arturo Martini in riferimento all’amato odiato Carlo Carrà – vestitissimo nel suo mistero». È proprio vero, è la geniale idiozia di cui parla Flaubert, come testimonia un affascinante quadro del 1921, Il pino sul mare. Il primo ritorno al classico dopo la furia futurista gronda d’interdizioni e non detti, il pino non profuma di resina ma di Vangeli.
Arrivano i gloriosi Trenta, gli anni dei cinque scudetti consecutivi. Il Depero del Bitter Campari è il pittore dello sport, festa festa festa! Allenatore della Juve è lo scintillante Carlo Carcano, un tipo sopra le righe, che mette gli spogliatoi in subbuglio lanciando occhiate maliziose ai giocatori. Leggenda vuole che Felice Placido Borel – sì, proprio lui, Farfallino, l’attaccante con la media gol stagionale più alta nella storia della Juve – avesse una certa riluttanza ad abbassarsi le mutande in presenza del suo allenatore.
Dalla ragioneria la Juve slitta verso la musica carioca: i nomi dei giocatori si tingono di colori tropicali e anche i loro corpi cominciano a dar spettacolo; arrivano il panzuto Luis Felipe “Luisito” Monti, il quasi nano Pedro Sernagiotto, detto “o Ministrinho”. La Juve conta anche un oriundo violinista, lo smilzo Raimundo Bibiani Orsi. Come si allenano i giocatori? Ballando il tango tutta la notte. Da mondano che è, Edoardo Agnelli rifugge il sudore e impeccabile tiene a bada le voci che in tutta Italia si spandono su questa squadra invincibile e sconclusionata. Baldoria, baldoria, ma l’era è fascista e lo Stadio Comunale si chiama Stadio Benito Mussolini.
Raimundo Orsi, oriundo come Lucio Fontana. Ma non si scordi che Fontana – di cui oggidì tutti parlano sempre e solo del periodo ok, quello spazialista – nel 1936 ha presentato a Milano la meravigliosa Vittoria dell’aria su cui sta scritto: «Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo offenderà contro chiunque con le armi. Mussolini». Anni pieni d’imperiali dubbi da affogare a tarda notte nei casini.
Nomi e cognomi dei giocatori della Juve fanno la storia d’Italia; gli anni Quaranta sono riassumibili in quelli del portiere: Lucidio Sentimenti IV. Sentimenti perché sono anche gli anni dell’Avvocato alla presidenza. La cattedra di Pittura all’Accademia Albertina di Torino è affidata a Felice Casorati. Appena scoppiata la Seconda guerra mondiale il pittore dipinge donne nude ed esangui accasciate su polverosi drappi: non pensano più a nulla, provano disperatamente a dormire; nel mentre la moglie del pittore, Daphne Maugham, si concentra su rose secche e giocattolini di pezza. Attenzione però, perché il sentimento torinese è anche altro, sanguigno e iniziatico: si chiama Carol Rama, dipinge bamboline spoglie, scarpe ortopediche, brande da cinema erotico in sanatorio. Anche la Juve si sentimentalizza, abbandona le chiassose balere e passa ai night più soffusi, si dà una ripulita e diventa very classy, cosmopolita con l’allenatore anti-sistema – il WM, il dogmatico modulo di gioco in voga all’epoca – Jesse Carver in trasferta dalle brughiere. Sono anche gli anni del Toro invincibile dagli uomini e vinto solo dagli dèi ostili, gli anni dell’eroico Valentino Mazzola; Giampiero Boniperti piange per l’immane sciagura di Superga.
1955, la FIAT presenta la 600, è arrivata la rivoluzione dei consumi, qualche anno prima Firenze ha ospitato la sfilata delle sfilate, quella cui va il merito di aver consacrato la moda italiana nel mondo sotto gli occhi attenti dei più grandi department store d’America. Il corpo dei calciatori cambia, sono più alti, più glabri, meno impomatati, portano maglie più larghe e calzettoni spessi. John Charles, biondo, buono, solido e fascinoso fa innamorare le ragazze come oggi forse solo l’attore Benedict Cumberbatch; alla bellezza di Charles fanno da contrappunto i dribbling dello sgusciante amico Omar Sivori.
Nel 1957 la Juventus ottiene il decimo scudetto, nel mentre Mimmo Rotella di ritorno dagli States inizia il celebre ciclo da “strappamanifesti”. Strappa Marylin, strappa Cary Grant, strappa Kennedy. È il turbinio dell’import-export, nasce la Lancia Aurelia B24, il marchio Coca-Cola lancia una bevanda fatta apposta per l’Italia, la Fanta, i fratelli Castiglioni progettano gli sgabelli da big boy felice e sardonico, Mezzadro e Sella.
1959, colpo di scena: Gianni Agnelli si fa vedere con addosso un paio di blue jeans, scandalo. Il giorno dopo gli impiegati della FIAT lanciano la moda.
Ecco i Sessanta! Rita Pavone canta e scalcia… «Chissà, chissààà se davvero vai a vedere la tua squaaadra o se invece tu mi lasci con la scuuusa del pallooone chissààà, chissààà se mi dici una bugia o la verità». Le partite non si vincono più 7 a 1 e 6 a 3, l’era pallonara s’ammoderna. Sono gli anni d’oro dell’Inter, poco prima che negli spogliatoi juventini entri il Jean-Paul Belmondo d’Italie, il giocatore italiano – a mio insindacabile giudizio – più bello di sempre: Roberto Bettega. Non sono più i cognomi dei giocatori a fare la Juventus, ma i nomignoli: ecco il Barone (Causio), Furia (Furino), ecco Morgan il pirata (Morini). Nel 1964 un altro pirata, Robert Rauschenberg, conquista la Biennale di Venezia, è Pop per tutti. Sono anche gli anni dell’arte geometrica, cinetica, programmata e optical, di cui i bianconeri contengono la profezia sin dalla maglietta. È tutto bianco e nero: “l’Azimuth” Enrico Castellani imbastisce la tela estroflessa Superficie bianca (la rifrazione nella riflessione nella materia nello spazio nella superficie nella pittura nella scultura), mentre Piero Manzoni tinge di candido caolino i celebri Panini su tela.
1972, le Brigate Rosse rapiscono l’ingegner Idalgo Macchiarini, è il loro primo sequestro. Gli Anni di Piombo si fanno sentire ovunque, anche su Torino, anche sulla Juve, ma si va avanti. Capitan Furino vince otto scudetti e a volte si abbottona persino il colletto della maglia. Si consolida il modello aureo del calciatore juventino, dolce corretto pensoso ciuffetto aristocratico. L’Avvocato si aggira per il mondo e il suo sguardo felino si ferma su uno che indossa la camicia fuori dai pantaloncini, Michel Platini. Gli artisti: Pistoletto è biellese, Penone di Cuneo, Boetti, Fabro, Anselmo, Zorio tutti torinesi, giovani, zen, filosofi, Germano Celant visita i loro studi. Leggendola da un punto di vista puramente municipalista, si può dire che gli artisti dell’Arte Povera abbiano passato il Viakal sulla Torino di zolfo e magia, sulla città esoterica, per prelevarne un immaginario di marmi bianchi, tovagliolini da bar, sassi e trasparenze, un grande iperestetizzato altolà all’estetica (e all’etica, e alla politica) dominante.
Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969: Alighiero Boetti crea con il cemento la sagoma del proprio corpo steso a terra e vi pone sopra una farfalla cavolaia. L’arte è povera, ma i giocatori costano un botto: per Paolo Rossi in comproprietà con il Vicenza si arriva a parlare di cinque miliardi. Trent’anni dopo anche Pistoletto, Penone, Boetti, Fabro valgono milioni di euro.
Due avvenimenti epocali. Tokyo, 1985: per contestare l’annullamento di un gol, Platini si stende sul fianco assumendo quell’espressione sardonica che la storia dell’arte tramanda dai tempi della Venere d’Urbino. Torino, 2003: muore l’Avvocato, anima etica ed estetica della Juventus. Qualche giorno prima di morire aveva chiamato a sé il presidente Ciampi; seduto su una poltrona, un plaid che lo copriva, Gianni Agnelli consegnò a Torino la collezione dei quadri che più aveva amato in vita sua; Tabac Royal di Matisse, Lancieri italiani al galoppo di Severini, La Baigneuse blonde di Renoir…
Sono gli anni di Buffon, Del Piero, Thuram, Trezeguet, Nedved, Camoranesi; uomini-ragazzi, non più ragazzi-uomini com’era stato fino a poco tempo addietro, rincorsi dal gossip mantengono un inspiegabile mistero nel fisico e nel pensiero, una voglia di dire, parlare, giocando sapientemente anche fuori dal campo. Ma sono anche gli anni di Marchisio e i suoi occhi à la Paul Newman che raccolgono l’ultima eredità della Juve secondo Novecento, mentre Dybala, Pogba e Cuadrado rievocano la squadra degli anni Trenta, spericolata e romantica.