Giovedì e venerdì, a Roma, al Monk, Lorenzo Urciullo sonorizza i documentari di Vittorio De Seta in Isole di fuoco con l’aiuto di Mario Conte per il suono e Federico Frascherelli per la post-produzione video. Dopo essersi stabilito fra i nomi nuovi del pop fatto bene con Un meraviglioso declino ed Egomostro, Colapesce ha fatto varie cose. Ha scritto La distanza, un graphic novel con Alessandro Baronciani sulla Sicilia di chi vive un po’ a casa un po’ all’estero; ha prodotto il disco di Alfio Antico, che qui abbiamo definito il disco più importante del 2016, un lavoro di tamburo che raccontava «gli antri più colti della nostra musica popolare»; e ora questo spettacolo per il festival Romaeuropa, su un regista, De Seta, che ha raccontato il sud arretrato degli anni Cinquanta con uno stile più realista dei re del neorealismo. Questi lavori sulla Sicilia, tra il pop, l’esplorazione di diversi aspetti dell’arte e l’interesse a qualcosa che possiamo chiamare world music, fanno pensare che Lorenzo Urciullo sia una specie di David Byrne siciliano, che sta tra la new wave pop dei suoi dischi e qualunque influenza più forte e terrena che la possano alimentare, inspessire.
«Sì. Il paragone con Byrne è esagerato, ma è vero, adoro il pop, lo ascolto da sempre, mi piace, però per certe cose è limitante. Avendo degli interessi molto trasversali mi viene naturale andare a cercare altrove. Il fatto che tutto ciò che faccio venga legato sempre al nome di Colapesce per certi versi è castrante. Ormai quel nome è legato a un certo immaginario, e qualsiasi cosa faccio viene quasi fagocitato dal progetto principale che poi in realtà io tutte queste altre cose le ho sempre fatte, poi è uscito il progetto Colapesce e le altre cose allora vengono collegate a quello. Il lavoro con Alfio Antico per esempio è completamente diverso e lontano dalle attività di Colapesce».
Lo spettacolo è un montaggio dei documentari, due dei quali sono proiettati per intero, i video sono ambientati in Sicilia, con qualcosa sulla Calabria e su Roma. «Ci sono dei miei brani che ho riadattato. Cinque in tutto. Lo spettacolo dura un’oretta. Ho scelto brani che sentivo vicini all’immaginario di De Seta. Lo spettacolo parte dall’audio originale dei corti, che abbiamo estratto e ne prendiamo dei campioni live con delle macchine, delle loop station, con vari effetti, e dei momenti di sonorizzazione pura, quasi ambient. È tutto fatto live a partire dai campioni. De Seta è stato molto innovativo sull’utilizzo dell’audio: non ha mai utilizzato colonne sonore, ma solo audio naturale. E però non lo metteva in sync, lo aggiungeva dopo sul montaggio. Quindi abbiamo cercato di rispettare la sua filosofia, rispettando il suo lavoro, sonorizzando con la stessa attitudine».
Dice che è un lavoro molto sentito, che ci è voluto poco tempo per preparare ma molto per metabolizzare: conosce il lavoro di De Seta da anni e, semplicemente, non gli era mai capitato prima di avere il budget per fare una cosa del genere, coinvolgere dei collaboratori. Ora porta De Seta in un festival di musica e teatro e lascia pensare che mentre l’industria musicale si fa un’idea di come reinventarsi, prova a capire cosa essere, per un artista del pop l’unica via sia prendere la tangente, approfondire le altre passioni per fare in modo che la situazione asfittica e finanziariamente punitiva del pop non smonti l’ispirazione.