Denver ora, New York prima. Nella mia carriera NBA – ormai sono arrivato alla nona stagione – ho indossato solo due maglie, vestito solo due colori, abitato in due città e, forse, posso dire di aver vissuto anche soltanto due tipi di esperienze diverse nella preparazione al via di un nuovo campionato.
La prima, nel mio anno da rookie a New York, fa storia a sé: è stata sicuramente la più emozionante, semplicemente perché non sapevo cosa aspettarmi. Ricordo che successe tutto molto in fretta: finii di giocare i playoff in Italia, andai al draft, iniziarono in fretta gli allenamenti, quasi non ebbi neppure il tempo di realizzare quello che mi stava accadendo. Ricordo un po’ di nervosismo – ma mai paura – e soprattutto tanta eccitazione. Ogni giorno per me era una scoperta, un’emozione nuova, diversa. All’inizio il giocatore che mi colpì di più fu Nate Robinson, per misure fisiche – poco più di 170 centimetri – e carattere. Poi ricordo l’impatto di Malik Rose e Jamal Crawford, i due veterani che da subito mi presero sotto la loro ala protettrice e mi aiutarono moltissimo.
Prima, durante e dopo l’allenamento mi resi conto che non mi facevano mai mancare una parola, un consiglio, una battuta: piccole cose, magari, ma quando sei nuovo tutto aiuta nel processo di ambientamento. Arrivando con la sesta chiamata assoluta al draft, su di me c’erano sicuramente fin dall’inizio molte aspettative. Il mio agente era stato bravo a preannunciarmi una possibile chiamata tra il numero 5 e il numero 10, per cui ero preparato e ho vissuto bene quel tipo di responsabilità. A rincarare la dose arrivò invece il fatto di sbarcare in una franchigia come New York, dove la pressione addosso la senti, eccome.
Pressione che percepisco anche oggi, al via della mia quinta stagione intera (la sesta, in realtà, se si conta anche quella saltata per infortunio) a Denver. Una pressione diversa, però: quella da rookie coi Knicks era una pressione che nasceva dal numero di chiamata al draft e che essenzialmente proveniva solo dal pubblico e, in parte, dai compagni. Come giocatore, però, avevo pochissimo controllo sul gruppo, e sugli esiti della nostra stagione.
Qui ai Nuggets, invece, da leader e giocatore più importante della squadra, sento la responsabilità di avere il controllo dello spogliatoio. A Denver, fin dalla mia seconda stagione, sono quello che parla alla squadra il primo giorno di training camp, quello a cui è affidato il compito di tramite tra squadra e allenatore, uno che insomma ha molto lavoro da sbrigare anche «dietro le quinte». È stato lo stesso anche quest’anno, in una stagione che vado a iniziare con un feeling davvero molto positivo: a mio avviso siamo sicuramente tra le otto squadre più forti a Ovest. Lo dico perché la società negli ultimi tre anni ha creduto fortemente in un nucleo di 6-7 giocatori che però solo quest’anno si presentano al completo, sani, finalmente lontani dagli infortuni.
Non abbiamo mai giocato per lunghi periodi tutti assieme, e sono sicuro che se quest’anno ci sarà data la chance di farlo per tutto il campionato ci potremo davvero divertire. Con tanti giovani in squadra, io abbraccio il mio ruolo di leader consapevole di dover essere un po’ la loro guida, il loro faro: cerco di consigliarli soprattutto sugli aspetti tecnici, sul gioco, perché in fondo è in palestra dove li frequento di più, ma se serve un mio parere anche su temi che si allontanano dal campo, cerco di esserci sempre, anche se ognuno di loro ha poi la propria famiglia e i propri amici su cui poter fare affidamento. Siamo un bel gruppo, e siamo convinti di poter fare bene. Ora non resta che iniziare: buon divertimento