Per chi non lo conoscesse, Adam Curtis può essere descritto come il complottista più sofisticato che ci sia in circolazione. Ma in realtà Curtis è anche archivista, montatore, attivista politico. Formatosi come documentarista televisivo all’interno della BBC, rientra in quella categoria molto britannica di intellettuali attivi nelle istituzioni e tuttavia rivoluzionari, critici nei confronti dell’establishment. Più aggressivo di un accademico come Stuart Hall o un critico come John Berger, Curtis è però erede della stessa tradizione: quella che fa dello studio dei media una disciplina tanto seria quanto a proprio agio con la cultura popolare. Sia nell’esposizione che nei temi affrontati, la facilità con cui Curtis si orienta tra materiali alti e bassi rispecchia l’identità positiva del Regno Unito, quella che elabora creativamente la propria posizione tra colonialismo e consapevolezza nazionale.
Non sorprende dunque che nel suo ultimo documentario, uscito domenica scorsa per BBC, ci sia una durissima condanna di Brexit. Ma non è quello l’unico punto, anzi. Se la distinzione tra cultura alta e bassa non è più così valida, è però sempre vero che esistono fatti e dati riconosciuti dagli apparati del potere… e altri no. Curtis gioca su tutti gli “altri no” della storia recente, e con HyperNormalisation propone un “collage a tesi” di queste alternative.
Come sempre, le immagini arrivano dagli archivi della BBC e la voce narrante è quella di Curtis, che fa lo stesso effetto dei voice-over di Werner Herzog: scimmiottare il documentario tradizionale e allo stesso tempo trasmettere autorità quando il racconto si fa troppo paradossale. Punto di partenza sono New York e Damasco nel 1975, inquadrate nel momento in cui il mondo cominciò a essere amministrato da forze non politiche. A cosa dobbiamo la crisi dell’idea di mondo come sistema funzionante, governato da Stati nazionali? Tanto per cominciare, a Donald Trump e Hafez al-Assad. È strano osservare la biografia di Trump alla vigilia delle elezioni, soprattutto perché Curtis — dichiaratamente un uomo di sinistra — gli conferisce una bizzarra dignità. Non solo ce lo mostra vittima di un gala alla Casa Bianca, impietosamente preso in giro dal comico del SNL Seth Meyers, ma anche dotato di lungimiranza imprenditoriale agli inizi della carriera. Quando New York rischiò la bancarotta fu costretta ad affidarsi alle banche: questo segnò il primo episodio in cui istituzioni private, legate al mercato finanziario, presero il sopravvento sulla gestione di una comunità statale. La reazione immediata fu l’austerità. A beneficiarne non fu solo l’estro creativo di Patti Smith, ma anche Trump: neanche trentenne si accordò con la città per comprare edifici derelitti e abbandonati con un’agevolazione fiscale senza precedenti.
«Le banche videro un’occasione di profitto e cominciarono a prestargli denaro. Nel frattempo Trump trasformò New York in una città per ricchi, pagando pochissimo» recita la voce di Curtis, mentre vedute di Manhattan al tramonto scorrono sullo schermo: immagini mozzafiato ma anche inquietante presagio. Il segreto di Curtis si nasconde proprie in queste sottigliezze retoriche: se da una parte riconosciamo in questa vicenda le coordinate della recente crisi economica (e dunque anche le origini e i colpevoli), dall’altra rimaniamo come inebetiti di fronte a una storia che pensavamo di conoscere, e invece no. HyperNormalisation non si pone però mai con la pretesa di smascherare i cattivi, quanto di svelare finte verità. Curtis fa risalire il fenomeno dell’iper-normalizzazione alla Russia degli anni Ottanta. Quando fu chiaro che il sogno comunista era un fallimento, il regime aveva cominciato a replicare i simboli del benessere occidentale in feticci irraggiungibili. La popolazione, pur costantemente frustrata, ci credeva per mancanza di alternative. E come rappresentare al meglio quell’assuefazione al falso? Non solo la classica sequenza di persone in coda, in supermercati senza merce, ma anche filmati sulla detenzione minorile femminile in Russia! Il tutto accompagnato da una dimenticata hit punk siberiana (per chi volesse approfondire, Curtis ne parlava sul suo blog, insieme a Limonov e al barboncino di Putin). Insomma, istituzione e controcultura in un’unica scena: puro Adam Curtis.
La biografia di Trump ritorna più avanti nel documentario, nella bislacca combinazione di Las Vegas, il giocatore d’azzardo Akio Kashiwagi e la mafia giapponese. E continuerà ad aleggiare, data la prossimità delle presidenziali. Ma la storia di Hafez al-Assad è più lineare: prima in confronto con Henry Kissinger durante la crisi israeliano-palestinese, diventa poi, con le sue scelte politiche, istigatore del fondamentalismo islamico. È a partire da queste contingenze storiche, dalla rivoluzione iraniana al governo di Assad junior, passando per la figura fantoccio di Gheddafi fino alla primavera araba, che Curtis intesse una serie di associazioni imprevedibili. A volte i collegamenti sembrano validi più per la giustapposizione delle immagini che per la verificabilità dei fatti (ma questo non è del tutto vero: sebbene Curtis lavori da solo negli infiniti archivi televisivi, gli è indispensabile essere affiancato da un fact-checker — è pur sempre la BBC).
Cominciamo a scorgere anche noi strane coincidenze, e pare ovvio che l’aerobica di Jane Fonda non sia altro che il preludio al cyberspazio teorizzato da William Gibson e messo in pratica, tra gli altri, da Judea Pearl. Che poi l’esperto di intelligenza artificiale sia anche il padre di Daniel Pearl, giornalista sequestrato e giustiziato da terroristi pakistani nel 2002, non può essere proprio una fatalità sfuggita alla storia (anticipando, anche esteticamente, l’orrenda esecuzione dell’Isis di James Foley). La parte dedicata al Medio Oriente prosegue le ricerche sull’Afghanistan condotte in Bitter Lake (del 2015), mentre lo sviluppo tecno-economico degli anni Ottanta e Novanta è osservato attraverso temi già esplorati in The Century of the Self (2002) e nel mastodontico All Watched Over by Machines of Loving Grace (2011). Ma anche se non si è familiari con i lavori precedenti, le tesi proposte da Curtis filano. Dagli hippie che hanno popolato la Silicon Valley ispirati da figure come l’ex Grateful Dead John Barlow o Timothy Leary al sociologo Ulrich Beck (teorico della società del rischio in tempi non sospetti), il nostro mondo appare un prodotto molto più complesso degli algoritmi che cercano di semplificarcelo.
Concepito per essere fruito in streaming (per permettere pause, controlli su Google e replay delle parti più dense), HyperNormalisation dura quasi tre ore. Così raccontato, sembra il classico “documentario impegnativo”. E in un certo senso lo è. Ma bisognerebbe guardarlo come un lunghissimo episodio di Blob, solo con immagini più universali, storicamente preganti, belle. Che sia per raccontare l’ascesa di Trump, l’attacco alle Torri Gemelle o Phiber Optik, uno dei primi hacker della storia, il repertorio visivo scelto non è mai quello entrato nell’immaginario collettivo. Sta lì l’eccezionalità di Curtis: nel mostrare ogni volta un’angolatura della storia che non avevamo ancora visto. Forse perché l’avevano censurata o semplicemente perché nessuno aveva guardato nel posto giusto.