[…] Sette minuti a mezzanotte: la porta si apre, ed entrano Ed e Judy Scialky accompagnati dall’ospite d’onore della serata, un Bruce Springsteen dall’aria sfatta, fresco di autobus da Asbury Park, nel New Jersey. Bruce indossa un giubbotto di pelle marrone consumato, con qualcosa come diciassette chiusure lampo, e un paio di jeans strappati. Sembra uscito da un’autostazione, il che di fatto è vero.
Tra i pezzi che Bowie ha registrato c’è anche It’s Hard to be a Saint in the City di Bruce. Tony Visconti aveva chiamato Ed alla Wmmr chiedendogli se poteva portare Bruce in studio. Ed era riuscito a parlare con lui solo domenica, a mezzogiorno, dopodiché Bruce ha raggiunto Asbury Park in autostop e poi Philadelphia con la corriera delle nove. Quando Ed è andato a prenderlo lo ha trovato mentre «familiarizzava con i barboni della stazione».
«In un viaggio così si incontrano un sacco di personaggi» dice Bruce raccontandoci la sua odissea. «Ogni autobus ha il suo militare, la vecchia signora con il cappotto marrone e una di quelle piccole cose nere in testa, l’ubriaco che attacca briga di fianco a te.»
Un’ora più tardi, mentre le sovraincisioni continuano e Luther, della band di Garson – cantante molto dotato, la cui potenza vocale aggiunge forza a un album già di per sé potente –, improvvisa qualche vocalizzo, entrano David Bowie e Ava Cherry, la corista soul con i capelli tinti di bianco.
David è allegro, constata i progressi fatti durante la serata, ogni tanto dà uno sguardo con i suoi occhi penetranti a quello che succede nella stanza, ascolta un nastro e poi lascia Tony al suo lavoro mettendosi a chiacchierare con Bruce.
Cinque persone che se ne stanno raccolte in un angolo dell’atrio: sembrano più dei fan (altre cinque o sei se ne stanno fuori, a gustarsi le vibrazioni) più che delle star.
David racconta della prima volta che ha visto Bruce, due anni prima al Max’s Kansas City. Il suo concerto lo aveva folgorato e così si era messo in testa di suonare una delle sue canzoni. Se gli si chiede di qualche altro artista americano di cui vorrebbe registrare un pezzo (come ha fatto per gli inglesi nell’album Pin Ups), David, dopo un attimo di riflessione, risponde che non ce ne sono. Bruce, che è stanco ma attento, si lascia sfuggire un sorriso.
La conversazione si sposta su un problema piuttosto comune: i fan che saltano sul palco.
Bowie: «La cosa non mi preoccupa più di tanto… In fondo che possono fare, una volta che sono saliti?»
Bruce: «Una sera, suonando, avevo sudato talmente tanto che ero bagnato fradicio. Veramente bagnato fradicio. A un certo punto un ragazzo sale sul palco e mi abbraccia, e io prendo una terribile scossa dalla chitarra… E lui nemmeno se ne accorge! Io sto agonizzando e lui non si accorge di niente. Lui non stava sentendo nulla, ma io stavo prendendo la scossa e lui non ne voleva sapere di mollare la presa. Alla fine il mio batterista, Mad Dog, è intervenuto e me lo ha staccato di dosso.»
Bowie: «E il ragazzo è tornato dai suoi amici dicendo: “Hey, stasera Bruce era davvero elettrico!”… La cosa peggiore che è successa a me è stato quando un ragazzo è saltato sul palco e io ho incrociato il suo sguardo, totalmente perso nel vuoto: era proprio andato. Uno sguardo davvero terrificante, e tutto quello che riuscivo a pensare era: “Ti aspettavo. Da quattro anni aspettavo che uno come te salisse sul palco”. Poi gli ho sorriso, e i suoi occhi sono tornati normali; allora ho guardato con più attenzione e ho visto che aveva un mattone in mano.»
Bowie è una specie di folletto alto e scheletrico. Basco rosso inclinato da un lato, che lascia scoperta, dalla parte opposta, una ciocca di capelli arancioni tra i quali spunta un orecchio stranamente simile a quello di un vulcaniano. Occhi intensi da falco: se ti guardano amichevolmente, l’atmosfera si riscalda subito; se invece ti osservano con aria ostile o interrogativa, non puoi far altro che allontanarti. Le bretelle di velluto rosso su un paio di pan-
taloni neri a vita alta e un maglione bianco completano il suo stravagante abbigliamento che, come succede sempre con i suoi look, più passa il tempo, più ti piace.
In effetti più passa il tempo, più Bowie acquista spessore. A poco a poco la figura solitaria e misteriosa di cui leggiamo sui giornali lascia il posto a un uomo dai modi bizzarri ma molto gradevole. Dopo un’ora ancora non riesco a capire come faccia Mike Garson a dire che è facile e piacevole lavorare con lui, così spiccio e diretto nel dare istruzioni alla band mentre, seduto al mixer accanto a Visconti, supervisiona la registrazione di alcuni cori. Ma le ore passano e, dopo una pausa durante la quale Bowie parla di dischi volanti, viene finalmente fuori la sua vera natura.
Alle tre del mattino lo studio è ormai come una tana calda e confortevole. Le teste e i corpi si muovono a tempo, a un ritmo lento. Delle tenui luci gialle, rosse, blu e verdi illuminano la regia e la sala di registrazione. La regia sembra un’astronave con file infinite di comandi futuristici; console, mixer, registratori a nastro, led lampeggianti. Un’astronave pilotata da un variopinto manipolo di pirati che, inutile dirlo, se ne sono impossessati con la forza.
La conversazione si sposta sul concerto del lunedì prima allo Spectrum.
(«Si sentiva uno schifo. Un vero schifo» dice Bowie.) Visconti dovrà trovare il modo di risolvere il problema. Fare il soundcheck alle cinque è del tutto inutile, dal momento che, si sa, l’acustica di una sala cambia completamente quando ci sono millequattrocento corpi ad assorbire il suono.
Se c’è una persona che può sembrare stanca e piena di energia al tempo stesso, è certamente David. Le tende dello studio si aprono e di colpo le sentinelle silenziose, che aspettano giù in strada, si animano e cominciano a salutare freneticamente; è il loro grande momento: stanno per assistere a un evento storico.
Bowie prova a registrare una traccia della voce. Il risultato è tutt’altro che soddisfacente, ha la voce roca e stanca. «È troppo presto, non sono ancora del tutto sveglio… Non riuscirò a registrare niente prima delle cinque e mezza.»
Rientra nella stanza e con quelle sue dita incredibilmente lunghe ed esili afferra un panino con la carne, di quelli tipicamente americani. È la prima volta che ne mangia uno. Gli altri gli spiegano come tenerlo in mano e gli danno sette diverse definizioni del celebre submarine sandwich. Poi si torna a parlare dello Spectrum: «Temevo che sarebbe andata così. Tutti quelli che ci avevano già suonato mi avevano avvertito che era terrificante. Non credo proprio che sia possibile ottenere un buon suono lì, ma ci proveremo lo stesso».
Alle cinque del mattino, con la promessa di incontrarsi di nuovo a New York, Bruce esce insieme a Ed e Judy per andare a fare una capatina in un diner di Broad Street. Quello del Max’s Kansas City era il suo primo concerto da professionista. E Bowie lo ha visto dall’inizio alla fine. Bruce se ne va senza aver sentito la sua versione di Saint. Evidentemente non è ancora pronta. […]