Tom Wolfe, il grande romanziere, saggista e fustigatore dei liberal d’America, torna nella mischia con un libro che mette in discussione tutto ciò che sappiamo dell’evoluzione. In questa intervista racconta perché Noam Chomsky, Charles Darwin e Hillary Clinton non hanno capito niente. Per mezzo secolo, il saggista bestseller poi passato ai romanzi – Il falò delle vanità, Un uomo vero, Le ragioni del sangue – ha raccontato agli americani e al resto del mondo cosa è successo veramente nell’America reale, fuori dalle bolle delle coste orientale e occidentale, nei posti dove i punti critici delle tensioni razziali e di classe escono allo scoperto in un Paese con Grandi Speranze ogni giorno sempre più deluse. Sono venuto a New York a parlare con Wolfe delle elezioni, dei personaggi e di cosa significa il grido di battaglia di Donald Trump «Make America great again». A ottantacinque anni, il suo sguardo ha molta prospettiva e Wolfe non si beve l’idea di un’improvvisa Scivolata Americana nell’Oscurità.
«Credo che l’America sia molto sottovalutata», dice. «È il passatempo generale dire che andremo all’inferno. È un atteggiamento intellettuale. Se ci pensi, in termini di potere bruto, non c’è dubbio che gli Stati Uniti siano ancora i più forti nel grande incontro di wrestling del mondo». Non lo smuove l’adagio attualmente preferito dal ceto medio americano amareggiato, l’America Arrabbiata di tutte quelle analisi della “rivolta alla destra”. «Qualcuno se n’è uscito con questa frase sull’1% e il 99%. Se si ripete quella cosa – ed è stato fatto costantemente – la gente comincia a dire: “Beh, forse il problema è quello; è che io faccio parte del 99% e non dell’1%”. È un argomento facile da vincere. C’è un solo grande errore, ed è stato fatto quindici anni fa: la globalizzazione. La globalizzazione è il più grosso trucco riuscito alle corporation, sul tempo breve. Mandando a fabbricare i prodotti in Bangladesh e in Cina e in Messico e in tutti quegli altri posti, ottieni una prosperità a breve termine. Ma poi la gente che ha perso il lavoro a causa della globalizzazione, perché la fabbrica del loro paesino non c’è più, devono, si dice, riqualificarsi per fare cose di valore più alto. Ma questa cosa non succede mai. Non ho mai sentito di nessuno che sia stato riqualificato per fare un altro lavoro. Quindi se la gente non se la passa bene ora ci sono molte spiegazioni».
Non vedevo Tom Wolfe da anni; ha l’aria invecchiata, più magra, un poco più fragile, si appoggia al suo bastone da passeggio con una fiera testa di lupo sull’impugnatura e si tiene su con la sua intelligenza e determinazione. Ed è ancora vestito come si conviene. Porta ovviamente uno dei suoi famosi completi bianchi, con giacca dal collo sciallato e un fazzoletto da taschino arricciato alla perfezione, una camicia nera abbottonata fino al collo senza cravatta, e le sue scarpe bianconere che sembrano ghette, con calzini neri decorati da stelle bianche. Da mezzo secolo è un brand ambulante – e con una mise del genere chi ha bisogno di chiacchierare? Ma le sue chiacchiere, piene di citazioni da George Bernard Shaw o Noël Coward, proferite con quel tono altisonante dal lieve accento del Sud (è nato in Virginia), sono ingannevolmente rilassate, elaboratamente cortesi. E mi ricordano perché lo ammiro tanto, anche se abbiamo visioni del mondo tanto opposte.
È determinato a non farsi scomporre da Donald Trump e della sua mancanza di credenziali politiche rassicuranti. «Non è il primo politico d’alto profilo senza alcuna esperienza. Se pensi a Ronald Reagan, partito come attore e rivelatosi assolutamente in gamba, nessuno avrebbe mai detto che potesse vincere le elezioni. E Arnold Schwarzenegger – un culturista! – è diventato un politico molto potente. È simile a Trump, che è una celebrità per tanti motivi. E né ai politici né ai grandi leader è richiesta brillantezza intellettuale. È più una questione di carisma, direi. Una volte Henry Kissinger disse: “Quando incontravi Ronald Reagan per la prima volta – all’epoca era ancora presidente – e ci passavi insieme mezz’ora, ti dicevi: questo sarebbe il leader del mondo libero? Siamo spacciati! Al che Kissinger aggiungeva: “Ma prendeva sempre la decisione giusta”». Ma non dirà mica che Trump sia il candidato più adatto al lavoro di presidente? «Non ho idea di chi votare, visti i due candidati. Hanno entrambi difetti incredibili. Per quanto ne so, Trump sostanzialmente non ha annunciato nessun programma concreto. Ma ha dato un po’ di rozzezza alla faccenda. Non siamo abituati a uno che porta nel dibattito politico cose come la dimensione del pene. Ha fatto affermazioni scandalose sugli immigrati messicani illegali e su chi crede nell’Islam, e lì ti dici: “Oddio, è spacciato”. E invece no, perché ci sono tantissime persone stufe del politicamente corretto». So che Wolfe è un inarrestabile fustigatore di liberal, ma la parità di disprezzo che concede a Trump e Hillary Clinton ci ricorda in modo brutale del modo in cui gli americani qualunque prendono le loro decisioni.
È chiaro che non gli piace Clinton. «Mi sembra che si sia allontanata talmente tanto dalla sinistra che lo sa Dio quali potranno essere le sue politiche. È molto diversa dal marito, che è una persona incantevole: lei no. È rigidissima. Lo humour non le viene naturale. Quindi ha molti problemi da superare ed è difficile trovare cose intelligenti tra tutto quel che ha fatto come segretario di Stato o in qualunque altra carica abbia ricoperto».
L’occasione del nostro incontro, però, è il suo ritorno alla non fiction. Al momento è completamente preso dal suo nuovo libro eretico, The Kingdom of Speech, e da ciò che sostiene. Si tratta di un lungo saggio polemico lungo quasi duecento pagine su soggetti da nulla come la teoria del Big Bang (per lui altrettanto ridicola del racconto della creazione secondo i Navajo, ma molto meno divertente), Charles Darwin e la teoria dell’evoluzione (un tentativo di teoria del tutto, o cosmogonia, che secondo Wolfe spiega molto meno di quanto la gente “moderna” non ami immaginare) e, soprattutto, delle origini del grande elemento che ci distingue dalle bestie: la parola umana. Secondo Wolfe, quelle origini non sono assolutamente ciò che Noam Chomsky, stella della linguistica e intellettuale globale, ha sostenuto siano negli ultimi cinquant’anni.
La teoria del linguaggio di Chomsky era innatamente radicata nella fisiologia, con l’idea che «sei nato con un organo per il linguaggio in dotazione, che funziona dal momento in cui entri nel mondo, come il tuo cuore e i tuoi reni», spiega Wolfe. Questa idea è entrata decenni fa nell’immaginario di tutti, ma secondo Wolfe si è andata sgretolando sotto il peso delle nuove sfide della linguistica. Nel 2014, ci racconta, «otto pesi massimi dell’evoluzionismo – linguisti, biologi, antropologi e informatici – hanno pubblicato un articolo in cui annunciavano di rinunciare, gettare la spugna, levare le tende, di farsela sotto davanti alla questione dell’origine del discorso – del linguaggio – e del suo funzionamento». E così uno degli assunti chiave su come siamo diventati umani in modo riconoscibile viene smascherata come priva di fondamento.
Il libro è brillante, satirico e serio insieme. Come i suoi romanzi, ha un eroe tipicamente wolfesco: Daniel Everett è un modesto missionario/antropologo/linguista del tipo eremita delle foreste, che porta nel mondo dei fautori della teoria dello sviluppo del discorso la sua denuncia che il re è nudo. C’è poi un cattivo abbastanza tipico (Noam Chomsky), che l’autore vede come intellettuale e fabbricante di miti trasformista, elitario, da torre d’avorio (il MIT) e di sinistra. E c’è il personaggio tristemente limitato, Charles Darwin – il Darwin dell’Origine della specie, un ricco scienziato gentiluomo inglese, contraddittorio e paternalistico (del tipo, dice Wolfe, che non aveva davvero bisogno di lavorare). Il suo ritratto del naturalista “cacciatore di farfalle” Alfred Wallace, il rivale di Darwin nel Diciannovesimo secolo per ciò che riguarda i crediti della biologia evoluzionistica, uno peraltro venuto da diversi gradini più in basso nella sala sociale, ce lo mostra ora coscienzioso ora spietato.
«Mi è venuta l’idea», spiega Wolfe, «perché ho scoperto, mentre scrivevo altro, che non c’è mai stata una spiegazione dell’origine del linguaggio. Pensaci: sono passati 150 anni circa da Darwin, e nessuno ancora ha capito come è nato. Suppongono tutti che sia parte dell’evoluzione, ma non trovano niente di evoluto nel linguaggio. Nessun animale ha niente di lontanamente avvicinabile al potere umano della parola, e il discorso domina ogni cosa».
Ero preoccupato per The Kingdom of Speech. Finora avevo sempre saputo come orientarmi fra i personaggi e i temi della sua non fiction. E Wolfe all’epoca non era così… fanatico. E ho avuto la sensazione che il Big Bang, l’evoluzionismo darwiniano, i linguisti dell’accademia e Chomsky fossero un po’ al di sopra del mio livello intellettuale. Allora ho testato queste idee su Steve Jones della UCL, l’università londinese, che in Inghilterra è l’esperto televisivo più noto: all’inizio era scettico su cosa potesse dire un romanziere sulla questione, e invece è finito con l’ammirare la comprensione mostrata da Wolfe della vasta letteratura darwiniana, e il modo in cui ha inteso la reale debolezza dell’idea del Big Bang e della visione chomskiana dell’origine del discorso. Parlandone ancora in giro tra gente più esperta di me ho capito che non dovevo preoccuparmi: ancora una volta, Wolfe aveva colto qualcosa di importante.
Nonostante quasi sessant’anni a New York, nonostante il sublime superattico nell’Upper East Side con vista su Central Park, Wolfe è un uomo del Sud; una specie di outsider da Richmond, Virginia, lo storico Vecchio Sud, ancora legato ai britannici, ancora snob. Suo padre era un agronomo (come Gregor Mendel, il padre della genetica), redattore del giornale dell’agricoltura Southern Planter. Wolfe frequentò la Washington & Lee, università di lignaggio della Virginia, dove imparò l’abito bianco e la falsa cortesia del Sud. Poi partì per la costa orientale per prendere un dottorato in studi americani a Yale.
La New York che si trovò davanti negli anni Sessanta era un «pandemonio con un gran ghigno in faccia». Era un «enorme carnevale». Gran materiale per scrivere. Nuova Arte, Nuovi Media, Nuova Gente. E oltre ai temi nuovi c’era il suo approccio: la borsa degli attrezzi del New Journalism, già delineata nell’introduzione alla sua antologia The New Journalism del 1973, una raccolta di autori che andavano da Hunter S. Thompson a Joan Didion, che scrivevano articoli di non fiction alla nuova maniera. Per Wolfe si trattava di usare strumenti eccitanti come il monologo interiore, entrare nelle teste dei suoi personaggi per origliare ogni pensiero folle, disperato, convoluto con cui parlavano fra sé. E come ci entrava? Era «splendidamente semplice», risponde: «Intervisti il soggetto. Gli chiedi tutto dei suoi pensieri ed emozioni». Tutto pur di evitare il pallido beige del narratore noioso, gentiluomo, colto, dal punto di vista sempre uguale.
Il dialogo realistico nella costruzione scena per scena era un’altra affascinante tecnica di Wolfe: conversazioni rese in maniera incredibilmente convincente, senza editare tutte le sfumature etniche e di classe, le esitazioni e l’isteria. Ciò voleva dire un’investigazione reale, immersiva: bisognava passare il tempo con i soggetti ben oltre le normali necessità professionali. Ma così poteva raccontare la scena per esserci stato davvero. E poteva azzeccare le voci meglio di un ventriloquo perché le aveva riascoltate sui suoi nastri.
Lo strumento definitivo di Wolfe era «l’annotazione di tutto ciò che è quotidiano: gesti, maniere, stili di mobilio, abbigliamento, arredo, stili di viaggio, abitudini alimentari, di gestione della casa, maniere di comportarsi con i figli, servitù, superiori, inferiori, pari, e i vari look, le pose, le camminate e altri dettagli simbolici rintracciabili in una certa scena. Simbolici di cosa? Simbolici, in genere, dello status delle persone nella vita».
Tom Wolfe aveva scritto a tempo pieno come giornalista a cottimo dal 1959, e aveva sviluppato stile e approccio distintivi nei primi anni Sessanta. Il suo primo libro, La baby aerodinamica kolor karamella, una raccolta di saggi, uscì nel 1965. Scapolo fino a 47 anni, sposò Sheila, all’epoca art director della rivista Harper’s, nel 1978: hanno due figli. Ha prodotto sedici libri in cinquantuno anni, insomma non ha macinato pubblicazioni. Ma hanno definito diversi decenni in modo tanto forte che la scrittura di uno dei suoi libri “importanti” avrebbe permesso a chiunque fosse stato dotato di meno ambizione e disciplina di vivacchiare per quattro decenni. I quattro ovvi grandi libri sono Electric kool-aid acid test (1968) – il libro hippie per gli anni Sessanta; La stoffa giusta (1979) – storia degli astronauti e della cultura dei piloti dell’aeronautica che li ha prodotti, il libro dei valori virili per gli anni Settanta; Il falò delle vanità (1987) – Wall Street, avidità e tensione razziale per gli anni Ottanta; e Un uomo vero (1998) – romanzo pigliatutto sulla Atlanta dei nuovi ricchi per gli anni Novanta. Quattro libri enormi, per impatto e per vendite.
Per ciascun libro ebbe una piccola idea – qualcosa che aveva visto o letto – e la seguì a intermittenze. Le idee di Wolfe possono avere una gestazione di vent’anni, e poi a un certo punto lui comincia la fase che chiama reporting. È la parte pesante del lavoro. Passare il tempo a Wall Street e nelle aule di tribunale del Bronx per Il falò; incontrare giovani che «urlano per denaro» sui pavimenti della Borsa e i procuratori distrettuali nel deserto del Bronx che guadagnano un quarto, forse meno, dei loro omologhi negli studi legali affermati. Ascoltare gli imputati che si difendono e i giudici che decidono. Per farlo andava in giro con l’intero kit alla Tom Wolfe, completo bianco e annessi? Dice che in quei casi si limitava a un più modesto blazer blu con pantaloni cachi.
Wolfe si è sempre distinto nella New York letteraria e liberal per il suo conservatorismo e il suo inequivocabile patriottismo, entrambi man mano sempre più evidenti. Ha combattuto celebri battaglie con altri romanzieri, in particolare Norman Mailer, John Irvine e John Updike, che avevano liquidato i suoi romanzi degli anni Novanta come narrativa da aeroporto scritta bene. «La tensione in Un uomo vero non cessa mai del tutto. Siamo di fronte a un grande romanzo o a un grande bestseller?», scrisse Norman Mailer in una recensione nel 1998. Wolfe li chiamò «i tre marmittoni» e disse che avrebbe loro fatto bene uscire più spesso di casa. Ma quando nel 2004 disse di ammirare la risolutezza di George W. Bush, qualcuno si chiese se non si trattasse di un semplice tentativo di stuzzicare i liberal (cosa facilissima, come dice lui). Elogiare Bush significava, per Wolfe, farsi subito trattare da paria, come all’epoca rivelò lui stesso: «Ero a una cena a New York e ho detto solo: “Oh, dimenticavo, molesto pure i bambini”. Voterei per Bush anche solo per poi andare all’aeroporto a salutare tutti quelli che dicevano che si sarebbero trasferiti a Londra se avesse rivinto. Qualcuno deve pur rimanere».