Che ne è stato degli hippie? Guardandosi intorno sembrano spariti. Nessuno più decide di farsi crescere i capelli e vivere in libertà, fondando comunità alternative che non tengano conto dei diritti di proprietà e dei costumi sessuali tradizionali; in pochissimi esplorano il “libero amore” o le “porte della percezione” (le espressioni, oggi, fanno un po’ ridere). Più nessun ventenne affronta, in pulmino o in autostop, la famosa strada per il Nepal che dall’Europa passava per Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan e India: forse perché hanno altro da fare, forse perché ha perso il suo fascino, o forse perché da allora molti di questi Paesi sono stati devastati dalla guerra e dal radicalismo. A mezzo secolo dalla sua entrata in voga, la parola “hippie” descrive qualcosa a metà fra una figura effettivamente esistita in passato e uno spauracchio ideologico astratto e caricaturale – come il signoraggio di Beppe Grillo o i comunisti di Silvio Berlusconi.
Secondo alcuni, però, questa sparizione potrebbe significare il contrario. Il pensiero hippie per molti aspetti rilevanti è stato assimilato sino a perdere la specificità (le acconciature, i colori sgargianti) che lo segnalavano come cultura antagonista: è diventato la cultura dominante, e basta. Questa è ad esempio la tesi di svariate grandi mostre svoltesi negli ultimi anni: You Say You Want a Revolution?, al Victoria and Albert Museum di Londra (2016), Hippie Modernism al Walker Art Center di Minneapolis (2015), The Whole Earth: Kalifornien und das Verschwinden des Außen, alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino (2013), e ancora Access to Tools, al MoMA di New York (2011). Il Financial Times, non certo un bastione della controcultura, ha di recente titolato un editoriale Were the hippies right?
È sufficiente guardarsi in giro per vedere che molte battaglie gli hippie le hanno vinte – negli Stati Uniti, ma pian piano le conquiste sgocciolano anche di qua. Ognuno si veste come gli pare. Il servizio militare obbligatorio è stato abolito. La marijuana è legalizzata o in via di legalizzazione. Il vegetarianesimo è sempre più diffuso e le impostazioni “filosofiche” dell’alimentazione (dal biologico al biodinamico) sono ormai una presenza quotidiana. L’agopuntura è passata dalla mutua. La classe dirigente non appaga la propria sete di spiritualità nelle chiese delle varie confessioni ma sempre più spesso in pratiche di stampo orientale, seppur adattate alle esigenze del mercato occidentale, come la mindfulness e certi tipi di yoga. Una forma cauta di ambientalismo è condivisa da gran parte dello spettro politico. Lo stesso vale per il femminismo, se si escludono le frange più estremiste e conservatrici; e lo stesso vale per la difesa dei diritti LGBTQ. Il sesso è stato in larga misura desacralizzato: lo si rappresenta senza censure, se ne parla liberamente in televisione e sui giornali, lo si trova con la massima facilità grazie alla diffusione degli anticoncezionali, alla trasformazione dei costumi e all’invenzione (guarda un po’, in California) di app come Tinder, Hornet e Brenda. Bob Dylan ha vinto il premio Nobel per la letteratura.
Un hippie a cui negli anni Sessanta avessero prospettato un futuro di questo genere si sarebbe di certo sorpreso non poco. Ma probabilmente lo avrebbe sorpreso ancora di più il fatto che, di tutti gli aspetti della controcultura hippie, ce n’è un tipo specifico e non accessorio che non è entrato nel sentire comune. Quelli accettati oggi, infatti, sono solo ed esattamente quelli privi di un risvolto economico radicale. Abbiamo la ganja terapeutica e una parola elegante come “poliamorismo”, ma, guarda un po’, la proprietà privata è ancora lì, e il massimo di comunitarismo che si conosce nella vita adulta è tutt’al più un tavolino in affitto in un coworking. Queste istanze sono semplicemente sparite, ormai prive di difensori se non in frange minoritarie e inascoltate – gli ormai sparuti cantori della decrescita felice ne sono forse l’esempio più significativo, ed è tutto dire. E nel frattempo il Burning Man è sempre più libero e selvaggio, e nessuno vede una contraddizione nel fatto che sia frequentato da alcuni fra gli imprenditori più ricchi del pianeta. In fondo, hanno diritto anche loro a qualche giorno pazzo, no?
I primi ad analizzare questa trasformazione di idee sono stati Richard Barbrook e Andy Cameron, due accademici marxisti inglesi che nel 1995 hanno scritto un pamphlet contro la rivista Wired intitolato The Californian Ideology: perculato per vent’anni dalla Silicon Valley, è stato di recente celebrato come profetico, toh, su Wired. Anche loro, come le mostre di cui sopra, individuano il punto focale della trasformazione nella figura di Stewart Brand. Brand negli anni Sessanta era un biologo–artista–attivista vicino ai Merry Pranksters; nel 1968 ha pubblicato il primo Whole Earth Catalog, inaugurando una storia editoriale destinata a durare negli anni. Volendo minimizzare, lo si potrebbe definire un catalogo di vendita postale; volendo esagerare lo si potrebbe definire «una specie di Google tascabile». Quest’ultima definizione è di Steve Jobs. Il WEC aveva come motto “access to tools”, “accesso agli strumenti”, e come attività quella di vendere per corrispondenza qualunque oggetto potesse servire a rendersi indipendenti e autonomi dalla società. Brand aveva notato che le comunità hippie cominciavano a lasciare le città dove si erano aggregate (su tutti la San Francisco di Haight-Ashbury, già diventata un parco a tema alla fine degli anni Sessanta) per trasferirsi nella campagna: in cerca di spazi di libertà, e soprattutto della possibilità di ricreare una società alternativa secondo le proprie regole, strada ritenuta più facile o efficace che lottare per cambiare quelle della società mainstream. «Stiamo sviluppando un mondo di potere intimo e personale: il potere dell’individuo di istruirsi da sé, educarsi da sé, e trasformare il proprio ambiente», scrive Brand nella prima edizione del WEC. (Scrive anche: «Stay hungry, stay foolish»).
Ma nonostante l’afflato indipendentista, questi pionieri erano in larga misura cittadini: intellettuali, ex-studenti, più esperti di poesia che di come star caldi d’inverno. E quindi Brand vendeva loro ciò che poteva servire, e le nozioni su come usarlo: stufe, guide al compostaggio o al sesso tantrico, seghetti alternativi, manuali di chimica, cupole geodetiche, corsi di yoga – eventualmente con recensioni sia della redazione che di lettori/acquirenti, come su Amazon. La pubblicazione era solida, di grande formato, impaginata artigianalmente, con commenti a penna fotocopiati e i bordi del ritaglio spesso visibili intorno alle foto. Vendeva un sacco. Da un certo punto di vista, quello che ha fatto Brand – aiutarli a imparare e a fare da sé – era un contributo cruciale a una nascente rivoluzione nelle forme di vita. Da un altro punto di vista, voleva dire attingere a un segmento di mercato nuovo nuovo e bisognoso proprio di quello che Brand aveva da offrire. Scrive il Financial Times: «Intorno alle schitarrate dei fattoni e agli slogan superficiali, sulla West Coast cominciava a farsi sentire un certo spirito imprenditoriale».
Questo spirito imprenditoriale non era solo quello di Brand. Lo spostamento in campagna e il cambio di direzione – dalla trasformazione della società alla creazione di una società nuova – porta con sé un diverso tipo di atteggiamento nei confronti del “sistema”, che non è più un nemico ma una fonte imprescindibile di strumenti, nozioni, pratiche: rese accettabili, perlomeno all’inizio, dall’idea che alla lunga saranno usate contro di esso. Come scrive Fred Turner, specialista di comunicazione e movimenti di opposizione che insegna a Stanford: «Vedendo nei beni di consumo degli strumenti di trasformazione personale, [gli hippie] si sono reinscritti precisamente nella società dei consumi che sostenevano di stare rifiutando».
Un esempio perfetto è il movimento dei maker, di cui ho già scritto su questo giornale: un fenomeno nato dallo spirito di autonomia e reinvenzione di certe comunità hippie, ma attualmente diventato un business enorme, benché ammantato di una retorica antagonista divenuta, spesso se non sempre, strumento di marketing. I fondatori di Apple si sono conosciuti allo Homebrew Computer Club, un incontro in cui dei proto-smanettoni condividevano competenze e curiosità per inventare nuovi computer: ma poi, senza alcuna soluzione di continuità etica, sono passati a gestire una megacorporation globale. Più in generale, scrivevo, «chi prima voleva fare oggetti nuovi per un mondo nuovo si è ritrovato – con delusione o con sollievo, a seconda dei casi – a fare oggetti nuovi, e basta».
Tutto quello che oggi chiamiamo “cultura dell’alimentazione” ha seguito un percorso analogo: nozioni e fissazioni che un tempo erano appannaggio di un’élite di naturalisti accaniti sono diventate estremamente diffuse e anche, paradossalmente, un giro d’affari enorme. Alice Waters, che negli anni Sessanta era attiva in California nel movimento “free speech”, ha poi aperto il primo ristorante bio a km zero diventato famoso in tutto il mondo, e fondato linee commerciali e scuole di cucina. In Italia una traiettoria simile l’ha seguita il movimento Slow Food, nato da un gruppo vicino a il manifesto e sfociato nell’arcipelago di Eataly.
Per non parlare della sharing economy: tutta una costellazione di pratiche, prima che di app, nate per facilitare la condivisione – che sono sì un modo di mettere dei beni privati in comune, ma anche, a seconda dei punti di vista, un modo di metterli a reddito. Sotto l’etichetta si contano sì esperimenti chiaramente non commerciali come Couchsurfing, ma anche colossi come Airbnb e Uber.
Un’eredità forse meno visibile, ma altrettanto profonda, perlomeno in Italia, è nei modi di fare politica. Uno dei cardini della “Californian ideology” – messo a fuoco dal documentarista Adam Curtis nella famosa serie All Watched Over by Machines of Loving Grace – era la fede tecnocratica nel potere di autogoverno delle reti. In quegli anni si era delineata una visione utopica del futuro della democrazia, ispirata dai primi sviluppi delle tecnologie di networking e dal concetto di omeostasi – che definisce, in ecologia, la capacità di un ecosistema o di un organismo di autoregolarsi. Negli anni Sessanta si era cominciato a notare che, interpretando un sistema biologico come una rete di unità più piccole, emergono certi meccanismi di feedback che permettono a quelle unità di coordinarsi senza alcuna autorità centrale: le foglie di un albero, le formiche di un formicaio, le cellule di un corpo adottano comportamenti armonici senza una dirigenza centralizzata che ne indirizzi l’agire, ma solo in base a stimoli ricevuti dai “vicini” nella rete (le altre formiche, il ramo accanto).