Peder Severin Krøyer è stato un artista danese di tardo Ottocento, tra i maggiori esponenti della “Scuola di Skagen”. Dal segno d’ispirazione impressionista, ci ha lasciato in eredità una serie di raffigurazioni realistiche della vita quotidiana dell’epoca in quel placido angolo di Nord Europa. A centosedici anni dalla scomparsa di Krøyer – avvenuta nel 1909 – era arduo prevedere che un suo dipinto avrebbe potuto iniziare a godere di fama globale su internet.
Nell’opera in questione, sette membri della famiglia Hirschsprung – genia nordica di industriali e mecenati – sono immortalati in posa, all’aperto, sul terrazzo di casa. Madre, padre e figli stanno uno accanto all’altro: alcuni seduti, altri in piedi, altri appoggiati alla balaustra tra piante e vasi fioriti. E nessuno rivolge agli altri uno sguardo. C’è chi legge un giornale, chi cuce, chi scruta l’orizzonte, chi è assorto nei propri pensieri. Quando, nel gennaio 2015, un semisconosciuto pittore americano (Scott E. Bartner) ha ripescato il ritratto degli Hirschsprung e lo ha pubblicato su Twitter, accompagnandolo al commento «How people ignored each other before smartphones», in poche ore l’immagine si è propagata per la Rete, condivisa da decine di migliaia di persone. Anche se la battuta di Bartner lasciava aperte interpretazioni opposte, in quel post si intravedeva la possibilità di ridiscutere, se non addirittura di contrastare, un luogo comune conservatore e moralista che è andato affermandosi in questi anni: quello secondo il quale i telefoni cellulari (e, per estensione, la Rete) ci avrebbero reso distaccati, superficiali, indifferenti al prossimo, egoisti.
Per qualche motivo, negli ultimi mesi, quell’opinione è sembrata aumentare la sua presa. La ritroviamo nel video realizzato da Steve Cutts per Are You Lost in the World Like Me? di Moby, in cui un omino dagli occhioni innocenti si aggira in una metropoli popolata da zombie spietati – vale a dire, di gente con lo smartphone in mano. Oppure, nelle parole di biasimo di chi alla fine di settembre, davanti alla fotografia di Hillary Clinton insieme a decine di sostenitori che – tutti – le danno le spalle per farsi un selfie con lei, ha gridato al decadimento dei costumi. O ancora, per restare in Italia, nel Vorrei ma non posto di J-Ax e Fedez, canzone che per mesi ci ha rimproverato una gravissima vanità cellulare-indotta (Chiara Ferragni è arrivata dopo).
Qui non si vuole discutere l’opportunità o il dovere di mostrare i lati oscuri della società digitale. La differenza tra una puntata di Black Mirror e un Are You Lost in the World Like Me? è, però, che quest’ultima non arriva neppure alla critica di costume, fermandosi al puro populismo. Con l’aggravante, dove quest’ultimo messaggio si diffonda in Italia, di insistere sull’impatto negativo di internet; proprio mentre lo stesso internet, per milioni di nostri connazionali, è ancora una terra incognita. E proprio nel nostro Paese questo messaggio sta trovando particolare attenzione, anche grazie a una sponda giornalistica: basti pensare alla moltiplicazione, negli ultimi anni, di servizi sui ristoranti o locali “senza cellulari”, nei quali cioè i clienti decidono di farsi sequestrare il proprio telefono all’ingresso, per ritrovare un legame autentico con i propri commensali. Come opporsi a questo tipo di conservatorismo?
Nell’estate di Vorrei ma non posto è uscito negli Stati Uniti un saggio che, con tutta la leggerezza che manca agli apocalittici, si intitola Wasting Time on the Internet. Firmato da Kenneth Goldsmith, artista concettuale e primo Poeta Laureato del MoMA, prende abbrivio da una serie di lezioni intitolate come il libro, organizzate dall’autore alla University of Pennsylvania nel 2014. Con questi progetti, Goldsmith ci chiede di abbandonare «il semplicistico senso di colpa sullo “sprecare tempo su internet”, e iniziare piuttosto a esplorare – forse persino a celebrare – le vaste possibilità che si estendono davanti a noi».
Wasting Time on the Internet è il tentativo di una nuova fenomenologia dell’uso dei dispositivi digitali. Goldsmith studia un esempio che ha in casa: quello del figlio adolescente e dei suoi amici. Un pomeriggio dopo scuola, mentre i ragazzini si trovano in gruppo sul divano della sala, e sono assorti ciascuno nell’uso del proprio cellulare ma allo stesso tempo sono tutti pigiati fisicamente, schiena contro schiena, spalle contro spalle, Goldsmith li osserva e li analizza: «Stanno insieme in modo meraviglioso, profondamente coinvolti in ciò che accade sullo schermo e allo stesso pienamente consci di sé e degli altri: nessuna espressione o movimento viene trascurato. Il gioco si propaga come un’onda attraverso i loro corpi: scalciano i piedi, saltano dalla gioia, gridano dalla rabbia». Questa descrizione piena di empatia ci svela un balletto la cui originalità e persino dolcezza abbiamo sotto gli occhi da anni, ma non abbiamo mai colto mentre ci lasciavamo andare alle pavloviane condanne della “generazione selfie”: «Dicono che la tecnologia crei distanza tra le persone, ma troviamo sia esattamente l’opposto: le nostre esperienze fisiche ed emotive si amplificano attraverso i nostri dispositivi».
Davanti a ogni circostanza della sua fenomenologia quotidiana, Goldsmith procede agganciando riflessioni sulle avanguardie artistiche della modernità, e sui modi con i quali internet rappresenterebbe la realizzazione – in un frullato vorticoso – di secoli e secoli di visioni e utopie su temi come la memoria, la scrittura creativa, l’autobiografia, l’inconscio. Confutando in modo implicito l’idea che internet sia davvero “disruptive” come a volte ci piace pensare: esistono piuttosto chiari elementi di continuità con il passato. Goldsmith si rivolge a Jorge Luis Borges, a Walter Benjamin, ai flâneur ottocenteschi che oggi provano a perdersi navigando, o a folli letterati britannici come Samuel Pepys o James Boswell, i cui romanzi-fiume anticiparono la logica del web come ingovernabile archivio. Ma il riferimento principe è il surrealismo, i cui appelli a un’esistenza in equilibrio tra sogno e veglia si rispecchiano nel nostro quotidiano: «Parliamo al telefono mentre navighiamo sul web, in parte sentendo quello che ci viene detto e allo stesso tempo rispondendo alle mail e controllando gli aggiornamenti di stato. Siamo diventati molto bravi a essere distratti. Breton sarebbe felicissimo». E così anche Marcel Duchamp. Il cui concetto di “stato tra gli stati”, o “infrathin” – catturato con la metafora del «calore di una sedia che è stata appena lasciata» – è recuperato da Goldsmith che lo ricollega al suono che in automatico accompagna l’accensione del nostro computer, o l’invio di una nuova mail. Segnali che qualcosa si è compiuto, anche se non sappiamo bene né come né quando.
Le pagine migliori del libro sono quelle in cui più si scongiurano i termini di un’agiografia, e in cui Goldsmith arricchisce la definizione di Sianne Ngai, professoressa di estetica a Stanford, di internet come creatura “stuplime”: una combinazione di stupido e sublime. In Rete siamo allo stesso tempo da soli e con gli altri, presenti e assenti, noi stessi e un avatar, Marcel Proust
e gattini.
Nel confutare i maggiori conformismi nostalgici, il libro arriva alla voce “odore della carta”. «Leggere sul web ha una diversa natura fisica rispetto a leggere sulla pagina stampata», considera Goldsmith mentre riflette sull’operazione di sottolineatura delle frasi sul Kindle: «Senza dover usare un altro utensile intermedio, la mia pelle può direttamente creare o modificare le parole. In che modo questo non sarebbe fisico?».
In Wasting Time on the Internet, la Rete è di frequente un fatto letterario. Non soltanto perché oggi «leggiamo e scriviamo più di quanto non abbiamo fatto in una generazione», in uno stile a frammenti e frattaglie che sarà presto un canone. Ma soprattutto perché internet occupa ormai una porzione così ampia delle nostre vite da richiedere una considerazione paragonabile a quella delle altre sfere dell’attività umana (su una certa riluttanza da parte dei romanzieri a includere smartphone e social media nelle proprie opere ha scritto bene a inizio settembre Paolo Giordano, sulle pagine della Lettura). A un certo punto di questo saggio, viene in mente Pablo Neruda e il suo celebre: «Non so come amino gli altri». Aggiornando il verso, potremmo pensare a: «Non so come usino internet gli altri». E grazie a Goldsmith – e a quel dipinto di Krøyer – possiamo anche arrivare a una prima risposta, semplice ma preziosa: in molti modi diversi, e comunque per stare insieme, non per ignorarsi.