Un edificio di David Adjaye a Cavalicco di Tavagnacco. Sulla strada provinciale che da Udine va a Tricesimo, accanto al Ristorante Pizzeria Al Baffo. Potrebbe essere solo una questione di tempo. Nel paesino friulano ha sede Moroso, esportatrice di Made in Italy nei salotti (veri) del design internazionale. E Adjaye, architetto inglese nato in Ghana, ha firmato i nuovi (futuri) uffici dell’azienda. In realtà l’ha fatto un po’ di anni fa, prima di intraprendere il progetto che l’ha consacrato a livello mondiale, quel National Museum of African American History and Culture cha ha inaugurato a settembre a Washington. È arrivato il momento di tirare fuori il sogno dal cassetto? «Speriamo che sia finalmente l’anno buono», risponde Patrizia Moroso, direttrice artistica dell’azienda di arredamento. «Adjaye all’epoca era ancora abbastanza sconosciuto – racconta lei – ed erano tempi in cui noi crescevamo del 30 per cento annuo. Poi sono arrivate un po’ di lungaggini burocratiche e quando eravamo pronti a partire siamo precipitati nella crisi degli anni 2009-2010. Oggi stiamo riemergendo, ma il mondo ne è uscito ridimensionato». L’azienda oggi è tornata a crescere a doppia cifra. «Chiuderemo il 2016 con il 12-13 per cento in più, con un fatturato consolidato sui 30 milioni di euro», conferma Roberto Moroso, amministratore delegato e fratello di Patrizia, nonché presidente della locale Upc Tavagnacco, squadra di calcio della Serie A femminile.
È il cerchio della famiglia l’alveolo in cui questa storia d’impresa ha piantato le radici e si è sviluppata. I quattro piani immaginati da Adjaye raddoppierebbero gli attuali uffici – con nuovi spazi che potranno contenere anche l’archivio, chissà – a loro volta sorti su quella che era la casa di Agostino e Diana. I Moroso originari, nati tappezzieri, che hanno fondato l’azienda nel 1952 e che oggi ancora passano a distribuire vigorose strette di mano agli ospiti, a tutto quel mondo internazionale che i figli hanno fatto entrare – a partire dalle contaminazioni della Bologna di fine anni 70 che Patrizia ha frequentato studiando al Dams: il gruppo di Valvoline, Igort, e poi Massimo Iosa Ghini. In fondo, il microcosmo friulano tanto chiuso non lo è stato mai, come testimonia lo zio Marino, da oltre sessant’anni in azienda, area prototipia – l’uomo che Ron Arad chiama «Michelangelo» e che sta formando due giovani discepoli: «Patrizia non era ancora nata: un giorno arrivò Jacobsen [Arne Jacobsen, architetto e designer danese, considerato tra i maggiori del XX secolo, ndr] con il progetto della poltrona con le orecchie. Me la fece fare in tre giorni. Lui era matto, mangiava panini e beveva birra, io incollavo pezzetti di gomma, tutto a mano. Ma alla fine ci riuscii, a fare il prototipo. Avevo 13 anni». Vai a spiegargli che oggi la Egg Chair è stata visualizzata su YouTube 12 milioni di volte, magari senza neanche riconoscerla, all’interno del video di J-Ax e Fedez, Assenzio. Qui siamo su un altro registro, fatto di spilli e pellami da selezionare a mano, di ovatta e forbici, di tessuti preziosi e di operaie specializzate che preferiscono le macchine da cucire senza software perché così possono calibrarle meglio. Eppure, paradossalmente, siamo su un terreno non meno innovativo. «È la sfida di fare cose nuove – continua lo zio Marino – che quando gli altri le vedono dicono: quello è matto». Uno può pensare alla poltrona rigida Big Easy di Ron Arad o anche alla chaise longue Shadowy di Tord Boontje di reti da pesca intrecciate in Senegal, a scelta.
In Italia non è così raro che le piccole medie imprese di provincia, magari familiari, siano un passo avanti per qualità, know how e visione. Tanto da costringere i designer internazionali ad andare a scovarle nelle zone industriali dei paeselli, alla periferia dell’impero. Moroso è a un’ora abbondante di macchina dalla stazione di Mestre, se non c’è traffico sulla tangenziale. Si passano boschetti di pioppi, fiumi, una campagna operosa, la città a forma di stella di Palmanova, fabbrichette e acciaierie. Moroso è un’azienda internazionale con 150 dipendenti, prende i propri tessuti dall’Olanda (da Febrik) e dalla Danimarca (da Kvadrat), ha filiali negli Usa e in Gran Bretagna ed esporta in 64 Paesi nel mondo. Non c’è contraddizione: è Italia.
«Mi ricordo di Antonio Citterio quando arrivava in Topolino da Milano», racconta lo zio Marino. Ma ci sono anche Ron Arad, Patricia Urquiola, Ross Lovegrove, Konstantin Grcic, Alfredo Häberli, Toshiyuki Kita, Tord Boontje, Nendo. Lo stesso David Adjaye che, oltre al progetto della sede, nel 2015 ha firmato la serie Double Zero: è facile immaginarli arrivare qui, con vista sulle Alpi Giulie, e poi andare a mangiare qualcosa magari Al Baffo. È il posto dove con Roberto, Patrizia e una delegazione di architetti americani dello studio Gensler, ci dividiamo la pizza, parliamo di Venezia, di Padova, di Cincinnati, di World Series, dei figli che studiano all’estero. Una convivialità che ritorna anche fuori, sul lavoro: «Molti designer – spiega lei – vengono a trovarci: mi aiuta a capire il mondo al di là delle tendenze di mercato che portano appiattimento e conformazione. Cerco di salvare i modi diversi di vedere le cose. In fondo, creare un oggetto fatto a mano, sensibile, unico, non può che essere il frutto di uno scambio, tra cliente e designer, tra designer e artigiano. Un viaggio di andata e ritorno che si chiama dialogo».
C’è un “acquario”, un parallelepipedo di vetro all’interno dello showroom progettato da Citterio e popolato dalle ultime collezioni, come un giardino di fiori colorati e multiformi. È il cuore creativo: grandi Mac, ragazzi affaccendati. È il posto di Patrizia e della sua filosofia: «Il design è dovunque e da nessuna parte. È un pensiero pervasivo, è funzione e visione, è urgenza di cambiamento, perché cambia la vita di chi ne gode». A tenere i conti, poi, ci pensa il fratello: «Questo prodotto costa troppo? Ci sediamo, insieme, guardiamo un dettaglio alla volta e vediamo dove si può limare. Purtroppo i costi sono alti e la marginalità è scesa del 20 per cento rispetto a 5-6 anni fa. Per questo dobbiamo consolidare il marchio e la struttura in tutto il mondo. Fortunatamente abbiamo affrontato la crisi senza essere indebitati, una solidità patrimoniale frutto della mentalità della famiglia. Così siamo stati liberi di fare scelte coerenti con la nostra filosofia. E alle finanziarie, che vengono a chiederci se siamo in vendita, rispondiamo: non ci interessa, stiamo bene così, autonomi».
Un progetto, nuovo, è all’orizzonte. «Una serie di piccole opere prodotte insieme ad artisti. Disponibili a un prezzo abbordabile e proposte sul web, senza intermediazioni, perché chi ama certe cose è più un navigatore che uno che va per negozi», racconta Patrizia Moroso. La Rete ha annullato le distanze. Per ammirare però, un giorno, quello che oggi rimane sulla carta un grande cubo bianco, il primo edificio in Italia di David Adjaye, bisognerà imboccare ancora una volta l’autostrada Alpe-Adria in direzione Tarvisio, fino alla casa di una famiglia friulana che si è aperta al mondo.