Davanti alla Knesset, il Parlamento che si appresta in un anno a celebrare i 70 anni dalla fondazione dello Stato d’Israele, c’è una grande Menorah in bronzo fuso alta più di quattro metri. Sul braccio centrale, incastonata tra i bassorilievi della guerra d’Indipendenza e della rivolta del ghetto di Varsavia, sono impresse due parole, Shemà Israel, «Ascolta, Israele», che oltre a essere l’incipit di una delle preghiere più importanti della liturgia ebraica è anche uno dei più formidabili manifesti politici in pillole che si possa immaginare.
A pensar bene poco altro è richiesto ai rappresentanti del popolo che questo: ascoltare, e se i membri della Knesset abbiano o meno ascoltato la voce del proprio popolo è materia molto interessante ma aliena al presente contesto. Lasciando politica e religione da parte – in uno sforzo quasi proibitivo, qui tutto è l’una e l’altra cosa, anche la pietra bianca di cui sono fatte le case sembra volerti trasmettere un qualche rilevante messaggio secondario – che cosa resta di Gerusalemme? Resta il presente, resta una città visitabile anche in silenzio, anche da soli, una città che pur essendo al centro della più aggrovigliata matassa della Storia sembra fare lo sforzo opposto a quello di molte altre città, sembra offrirsi, sembra volere farsi capire. Anche fuori dalla città vecchia ci sono parecchie cose da fare, basta avere il desiderio di scoprire un’altra Gerusalemme, decisamente estranea a quella cui siamo abituati a pensare.