Tel Aviv è una città di non semplice lettura: è apolitica eppure non è difficile trovare rimandi a Theodor Herzl; è laica eppure giovani ortodossi con chiassosi soundsystem ne occupano le strade centrali il giovedì sera facendo ballare i passanti mentre distribuiscono libretti di preghiere; è accogliente con gli stranieri eppure di stranieri ce ne sono veramente pochi; ha una popolazione giovanissima eppure ha prezzi una volta e mezza quelli di Milano. Insomma è una cosa e l’altra, dove spesso l’altra è il contrario della prima.
È una città economicamente molto dinamica, tutte le multinazionali tecnologiche hanno uffici qui ed è il primo ecosistema di startup al di fuori dagli Stati Uniti: con 28 startup per chilometro quadrato (più alta media al mondo), una ogni 290 residenti (anche qui più alta media al mondo) e ben 84 tra acceleratori, spazi di co-working e centri d’innovazione (per fare un raffronto: Londra ne ha 65; Parigi 48; Berlino 24 e sono tutte città grandi dalle 20 alle 30 volte Tel Aviv). La forza lavoro è iper-qualificata: nove lavoratori su dieci sono laureati eppure un quarto della popolazione è impiegata nell’industria del turismo o nella nightlife.
A proposito di nightlife, Tel Aviv non ha nulla da invidiare a città ben più rinomate: 450 bar, 340 caffè, un centinaio di ristoranti di sushi (sono ovunque, evidentemente ne vanno pazzi), sono numeri quasi incredibili se rapportati a una città di piccole dimensioni: Tel Aviv ha infatti “solo” 400mila abitanti. I ristoranti sono mediamente molto buoni e la cucina, non esistendo una “cucina israeliana” vera e propria, è una continua rielaborazione di tradizioni dell’Europa dell’Est, del Medio Oriente, delle Americhe. Di notte c’è davvero di tutto e le vicende possono prendere pieghe inusitatamente selvagge. È vero, tutto questo edonismo tradisce un distacco dagli eventi che sembra leggermente artato, auto-imposto, a volte persino volutamente cieco. E però funziona, e in fondo di isole felici non se ne trovano poi molte a queste latitudini.