A Madrid governa in minoranza il partito Popolare di Mariano Rajoy, con l’appoggio esterno di Ciudadanos e qualcosa in più – molto in più – dell’astensione tecnica dei socialisti del Psoe. I socialisti, dopo la “fucilazione” politica dell’ex leader Pedro Sanchez, sono guidati da un comitato di notabili manovrato dagli ex pesi massimi del partito: Felipe González, Alfredo Pérez Rubalcaba e José Luis Rodríguez Zapatero. L’obiettivo della “gestora” è di spostare più in là possibile la data delle nuove elezioni politiche, insieme permettendo alla stella del Psoe andaluso Susana Díaz di guadagnare la segreteria del partito e di tenere a distanza la principale minaccia alla sua stessa esistenza: Podemos. Podemos, che i sondaggi danno seconda forza politica ormai saldamente davanti al Psoe, sta arrivando al suo secondo Congresso (o “Assemblea Cittadina”, dal 10 al 12 febbraio a Madrid, nome in codice “Vistalegre II”) in una situazione quasi apocalittica. Il partito è completamente spaccato in due tronconi, uno fedele al líder máximo Pablo Iglesias, rotturista, massimalista, velatamente anti-europeista, e l’altro trasversalista, dialogante e fieramente populista che si rispecchia nel Segretario politico dell’organizzazione, Íñigo Errejón.
Osservando la scena politica spagnola dall’esterno, il Psoe parrebbe la forza politica con i problemi più gravi. Problemi di stretta natura politica: l’ascesa di Podemos da un lato e quella di Ciudadanos dall’altro hanno relegato i socialisti in un limbo non soltanto a-ideologico ma anche in una posizione facilmente scalabile da entrambi i versanti politici. Se a questo aggiungiamo il consolidamento elettorale del Pp e i buoni risultati ottenuti dal suo Governo fin qui, ecco delineato lo scenario da assalto concentrico alla carovana che il Psoe sta vivendo da molti mesi a questa parte. Da qualunque parte si volti, c’è un nemico pronto a fargli la pelle. Poi c’è la lotta per il controllo del partito. I “baroni” del Psoe hanno già deciso da tempo: il prossimo leader sarà Susana Díaz, ”presidenta“ della Comunità autonoma dell’Andalusia, regione da sempre roccaforte assoluta del socialismo iberico. Il socialismo andaluso è un socialismo prettamente novecentesco: centralista e solidario, con un forte accento “spagnolista”, per nulla amante delle istanze “soberaniste”, nazionaliste e – figurarsi – indipendentiste. Il problema è che la strada per Diaz è tutt’altro che in discesa: per la Segreteria se la dovrà vedere con il redivivo Pedro Sánchez, forte di una discreta base nella militanza e di un progetto politico di avvicinamento a Podemos e con Patxi López, ex presidente della Camera ed ex Lehendakari, presidente del Governo basco, un uomo con cui sarebbe più semplice rafforzare il dialogo con le regioni centripete (lo stesso Paese Basco e la Catalunya) e con Podemos.
Ecco, Podemos. È qui che la sempre funambolica scena politica spagnola sta offrendo lo spettacolo più pirotecnico. È uno spettacolo in senso assoluto: ci sono congiure e tradimenti, colpi di Stato interni e confrontazioni pubbliche, c’è il tragico e il sublime, il machiavellico e l’orwelliano, le macchinazioni su Telegram e le tregue a colpi di tweet. Per italiani antropologicamente attratti dalla politica politicheggiante una vera pacchia.
In estremissima sintesi: Iglesias e Errejón sono il numero uno e due del partito; entrambi provenienti dal mondo accademico (l’Università Complutense di Madrid); entrambi scienziati politici; soprattutto amici. È Iglesias, di cinque anni più grande, a proporre Errejón come responsabile di campagna alle elezioni europee del 2014. Le cose vanno bene, un milione di voti, e il tandem continua indisturbato fino ai 5 milioni di voti delle ultime politiche. A questo punto qualcosa si rompe: il Segretario Generale che ha scommesso sull’accordo elettorale a sinistra con Izquierda Unida è mano a mano sempre più sfidato dal suo secondo. Il terreno di gioco è la direzione politica del partito: uno – Iglesias – quando sente “costruzione di nuove maggioranze” intende “tradimento e inciucio” (intende “Psoe”), mentre l’altro quando trova scritto “unità delle sinistre” legge “marginalità e opposizione a vita”.
Il mantra di Errejón è uno solo: ampliare il perimetro di attrazione elettorale del partito. E nel ricercare un fondamento teorico alla propria visione politica arriva ad autoproclamarsi paladino del populismo “buono”. In effetti è un grande appassionato di politica argentina e una certa idea di peronismo non lo spaventa affatto, e in fondo pure Obama si è definito populista. Non è d’accordo con Iglesias quando questi decide di chiudere ogni porta a un possibile accordo di Governo con il Psoe del Sánchez pre-accordo con Ciudadanos; avverte nella barricata l’eco del grande problema storico della sinistra radicale, e cioè l’infantilismo; vuole applicare al nazionale quel sistema di intese che permette a Podemos di governare nelle due città più importanti di Spagna, Madrid e Barcelona.
Iglesias non ne vuole sapere: il suo obiettivo è quello di annientare il Psoe e sostituirlo tout court. Nessuna mano tesa ai traditori del pueblo: si parlerà con i socialisti solo e soltanto da una posizione di forza, quando questi si troveranno obbligati ad allargare a sinistra per non finire assimilati culturalmente (oltre che politicamente) dai popolari. Se per questo bisognerà aspettare il 2020, e così sia. D’altra parte, per stessa ammissione dei dirigenti socialisti, i figli dei votanti del Psoe votano tutti Podemos. È solo questione di tempo, i sondaggi li danno già sopra, bisogna solo attendere il round giusto per infliggere il montante del ko.
In questo quadro i due hanno cercato la sintesi durante i lunghi mesi che hanno portato allo showdown del 12 febbraio prossimo, senza riuscirci, a tratti coprendo goffamente i frequenti scazzi su Twitter come «estrema trasparenza del dibattito interno» e poi armeggiando alle spalle, anche in questo rivelandosi abilissimi, con babyface Errejón a provare la decentralizzazione del partito da quella Madrid feudo invalicabile del “coleta” (“codino”) Iglesias. Finora due sono stati i banchi di prova interni che li hanno visti l’uno contro l’altro – il primo sul controllo del partito di Madrid; il secondo su questioni di procedura per Vistalegre – e l’ha sempre spuntata Pablo, seppure con margini sottilissimi (soprattutto la seconda volta).
Poi è stata la volta del fattaccio della chat su Telegram dei sodali di Errejón intitolata “Jaque Pastor”, in italiano “Matto del Barbiere”, una mossa d’apertura scacchistica con cui si fa scacco matto all’avversario dopo pochissime mosse. È una trappola che si riserva ai principianti, ma Iglesias – che è venuto su studiando la formidabile macchina da guerra del Pci italiano – principiante non è e il Matto è andato gambe all’aria.
I due hanno continuato a pugnalarsi di notte e sedere fianco a fianco (proprio fisicamente) nel Congresso dei Deputati di giorno fino all’irreparabile: purghe pabliste agli uomini di Errejón a Madrid; truppe errejóniste infiltrate in ogni ganglo del partito per ribaltarne l’equilibrio dal centro alla periferia; pubblici additamenti anti-Errejón con campagne di stampo stalinista su Twitter; e infine anche il romance: l’ex fidanzata di Iglesias, Tania Sánchez, fuoriuscita da Izquierda Unida e aggregatasi al Podemos dell’ex novio, cambia parrocchia e si infila da manuale nella corrente del suo numero due, causando la messa all’indice da parte del líder máximo: e così la corrente di Errejón diventa pubblicamente per Iglesias «la corrente di Íñigo e Tania», i due traditori, non stancandosi mai di ripetere la formula ai microfoni, fino alla fine, fino a questa anti-vigilia congressuale.
Ora: che succederà a Vistalegre II? Impossibile, letteralmente impossibile, prevederlo. In realtà a Vistalegre non si voterà per il leader: ufficialmente – e anche un po’ furbescamente – Errejón non vuole candidarsi a Segretario Generale. Non vuole sfidare apertamente Iglesias: troppo grande il rischio di bruciarsi per sempre e finire nelle retrovie del partito. Un po’ ponziopilatescamente l’ha buttata ancora una volta sul teorico. Si voteranno le idee, i rispettivi programmi. Quello duro e puro di Pablo contro quello trasversalista di Íñigo. Che il leader rimanga Iglesias, ha ripetuto allo sfinimento il Segretario Politico. Vistalegre II discuterà sulla direzione politica del prossimo Podemos, non su chi debba essere in prima fila nei prossimi mesi ad attuarla.
Il problema è che Iglesias ha disinnescato anche questa trappola assicurando che se il suo progetto politico dovesse andare in minoranza al Congresso, lascerà immediatamente la carica di Segretario Generale, a quel punto costringendo Errejón a prendere in mano il partito. Chi rischia maggiormente è però lo stesso Íñigo: applicandogli la medesima logica, con un Iglesias vincente a Vistalegre per il numero due si aprirebbe il probabile baratro e le ormai notorie purghe pabliste sono lì ad attenderlo. Comunque vada, la sera del 12 febbraio il tandem che ha fatto le fortune di Podemos sarà sotterrato per sempre.