
Nelle foto di queste pagine, alcuni scatti del progetto “L’isola” di Francesco Millefiori. Il fotografo, nato nel 1980 a Catania, cerca così di definire la propria terra: «La Sicilia come contesto, l’isola come metafora di un modo di vivere: l’isola è casa mia, la mia famiglia, il mio ambiente, del quale tu non fai parte. L’isola è il privato»
Il giorno che si votava per il referendum io sono andato a Palermo, libreria Modus Vivendi, un posto famoso dovunque, anche sul continente, per come tratta bene i lettori: a Fabrizio Piazza aveva fatto simpatia il mio libro e c’eravamo messi d’accordo per una presentazione.
Domenica, quindi, mattina presto e io già per strada, anche se la presentazione era alle undici, perché Palermo è sempre Sicilia, però è dall’altra parte rispetto a dove abito io.
La Sicilia è un’isola, e le isole, vuoi o non vuoi, le percepiamo tutte come piccole, posti che ti puoi girare in motorino, vedi una spiaggia bella, ti fermi, ti fai il bagno e poi riparti con l’asciugamano sotto al sellino. Non è nemmeno tanto sbagliato: l’Irlanda è una nazione, farà quattro, cinque milioni di abitanti, spiagge troppo fredde per fare il bagno, va bene, vento gelido, niente motorino, magari pullman, però quanto potrà essere grande l’Irlanda?
La Sicilia ha la forma di un triangolo sgorbio, però le Sicilie sono due, e Napoli non c’entra niente, un siciliano, nella sua mente, tira sempre una diagonale più o meno da Agrigento a Messina, facendo attenzione a lasciare Caltanissetta al di là della linea: da quel lato è Occidente, dall’altro Oriente, con Gela da considerare come una specie di exclave. Quanto tempo è che abbiamo questa diagonale in testa? Chi lo sa, da quella parte i sicani, da quest’altra i siculi, età del bronzo, forse del ferro, protostoria, poi storia, poi post storia, adesso siamo tutti siciliani, va bene, però siciliani è la crasi di siculi e sicani, per arrivarci una serie di guerre, o vogliamo chiamarli genocidi, stermini, cose che all’età del bronzo si potevano fare senza incorrere in nessuna sanzione internazionale. Mille e trecento anni prima di Cristo arrivano i Siculi e scacciano i Sicani dalla costa: sciò, via, andatevene all’interno. Dice: va bene, però poi basta, avete fatto la pace, c’è stata la crasi. Quando mai. Cioè sì, ma c’è voluto tempo. Pasquale Villari, le Lettere meridionali, 1878, l’unità d’Italia fresca fresca, Giacomo Dina vuole sapere da Villari della Sicilia, deve pubblicare la lettera su L’Opinione, chiede: ma insomma com’è quest’isola? Villari ne sa poco, per rispondere raccatta informazioni dai suoi amici, intellettuali inglesi che si sono trasferiti a vivere in Sicilia per scelta: eh com’è…, gli rispondono quelli, dipende: questi qua hanno una diagonale dentro la testa, ora ce l’abbiamo pure noi, come facciamo a dirti com’è? Dipende? chiede Villari, e da che dipende? E che è questa diagonale? Gli rispondono: «I paesi delle province di Catania o di Siracusa: “Paesi buonissimi, si sta come in Toscana, si può andare coll’oro in mano”. Se invece chiedevo di paesi della Sicilia occidentale, specialmente delle province di Girgenti e di Caltanisetta, la risposta era spesso: “Eh! paesi di solfare, bisogna stare attenti”».
Il campanilismo non c’entra, in Sicilia non c’è mai stato, le contrade, le città rivali, i comuni, noi i buoni e loro i cattivi, no, non si tratta di questo, è una cosa che c’entra con le distanze che non sappiamo misurare e con l’essere controintuitivi.
Per esempio dal mio lato, a Siracusa, punta a Sud Est del triangolo sgorbio, negli anni Novanta del secolo scorso, parte il progetto Urban: soldi della Comunità Europea per rifare le facciate di Ortigia, centro storico, un’isola dentro un’isola, ottanta per cento a fondo perduto. L’idea è semplice, infatti funziona, dà molti frutti: fai la richiesta, avvii i lavori, e dopo dieci anni ti ridanno i soldi che hai speso, tempi lunghi perché Bruxelles è lontana, i soldi ce ne mettono a viaggiare, però va bene, siamo un’isola.
I frutti del progetto Urban sono delle specie di mandorle, tante escono amare, nel senso che comincia una speculazione raffazzonata, notabili e borghesi comprano edifici fatiscenti, li restaurano, poi ne fanno un albergo o un b&b da regalare alla moglie o ai figli mezzi disoccupati come una specie di giocattolo: non ti annoiare più, ora sei il direttore di quest’albergo, alla prossima cena del Rotary puoi dire anche tu che sei stressato perché lavori dalla mattina alla sera.
Il centro storico un poco si spopola, però pazienza, il risultato comunque è buono, comincia un risveglio turistico: se non altro c’è dove dormire, si dorme dovunque, tutto diventa hotel, il Palazzo delle Poste, i bassi di piazza San Giuseppe, si parla di trasformare in hotel pure il carcere borbonico, ma quanto dormono questi turisti? Fatto sta che i tour operator si accorgono che Ortigia sta cambiando aspetto, poi va bene, l’ospitalità, i servizi al cliente, i figli di papà li fanno un po’ per hobby, è bello dirsi impegnati con un lavoro, però impegnarsi per davvero è faticoso, e poi la verità è che per noi è difficile essere ospitali, non ci siamo abituati, da noi non venivano turisti, venivano dominatori, gente che voleva dormire con tua moglie e fare schiava tua madre, la storia che apriamo le case allo straniero non è tanto vera, gentilezza sì, forse, non lo so, più che altro diffidenza, una cosa che viene da lontano, penso, entri al bar e il barista non ti chiede, non ti parla: ti guarda.
Comunque aumentano i posti letto, le strade, con le facciate rifatte, cambiano aspetto, Ortigia comincia a richiamare qualche proto-turista, più che altro gente che scrive per la Routard o la Lonely Planet o il National Geographic, fotografi freelance che poi vendono i pezzi ai magazine di viaggio internazionali o a quelle riviste che trovi in aereo. Parte un lento tam tam, dopo i fotografi arrivano i registi a girare gli spot per le macchine, strade di campagna polverose, fai una curva e compare il mare: a bordo inquadratura, sull’angolo sfocato, una porcilaia diroccata in mezzo a un mandorleto dismesso, l’idea dell’antico e del dimenticato, però bello, bellissimo, che può essere scoperto grazie a un macchinone di lusso, Avola, Vendicari, Calamosche, queste sì che sono spiagge dove ti viene di fermare il motorino.
Arrivano altri fotografi, per le grandi case di moda, entrano in un teatro col soffitto tarlato e ne fanno un set, polvere che ricade sugli abiti, il rosso sbiadito delle quinte ottocentesche, molto evocativo, struggente la bellezza quando la vedi dimenticata, ti fa sentire protagonista, pensa che scemi questi autoctoni, che hanno smesso di vederla per decenni, adesso per fortuna sei arrivato tu e l’hai riscoperta, e poi i creativi, gli artisti, sono bravi a evocare, a far sembrare bella la polvere, si scambiano tra loro delle informazioni, il giro si allarga ai loro amici, una piccola comunità di gente che capisce le tendenze: andateci adesso nel Sud Est siciliano, dicono le riviste di viaggi, perché tra poco lo scopriranno un po’ tutti e non sarà più così da intenditori andarci.
Sette, otto anni fa, questa vocazione turistica si consolida, i numeri crescono, arrivano gli investimenti anche da fuori, addirittura si intuisce che nel giro di poco sarà completata l’autostrada Siracusa-Catania, il collegamento con l’aeroporto sarà più svelto e molto più sicuro, è il momento per farsi sotto, comprare, restaurare il basso della zia a piazza del Precursore, sul Palazzo delle Poste ci facciamo un roof garden, dove c’era un ponte ci facciamo un porticciolo su misura per l’attracco degli yacht, cambiamo i piani regolatori, quel ponte là non si capisce che ci sta a fare, e io poi dove lo piazzo il tender?
Il mercoledì, Repubblica ha ancora l’inserto dei viaggi, esce un pezzo di tante pagine tutto su Siracusa. È inverno, l’articolo dice: questa primavera organizzatevi e andate a vedere Ortigia, il lungomare Alfeo, la fonte Aretusa, l’isola grande intorno al porto, al tramonto, sono una cosa che spezza il cuore, e poi non è ancora turismo di massa, va bene, i servizi e l’ospitalità sono così così, questi figli e queste mogli un po’ viziati dei grandi borghesi siculorientali sono vagamente sgarbati e non troppo esperti del settore, i baristi ti guardano fisso senza parlare, però vale la pena, anzi è sintomo di dilettantismo, quindi di relativo pionierismo, andateci tra maggio e giugno, a Siracusa, fidatevi, che ci sono le rappresentazioni classiche, un evento cui non si può mancare. Poi, di fianco all’articolo vero e proprio, c’è un grosso box, appariscente, lungo, col titolo in blu oltremare che ricorda il golfo roccioso del Plemmirio: «Da vedere». È un elenco per punti. Al primo posto c’è scritto: una volta arrivati a Siracusa e visitato il teatro greco non perdetevi la Riserva dello Zingaro.
La Riserva dello Zingaro è un posto bellissimo, è vero che è da non perdere. Però è tra Castellammare del Golfo e San Vito Lo Capo, provincia di Trapani, se vai su Google Maps e selezioni “percorso più breve” esce fuori che da Siracusa allo Zingaro sono 336 chilometri.
La Sicilia è un’isola e ti sembra piccola, le dimensioni di quest’isola sono una verità controintuitiva, non ci puoi fare niente, vedi il triangolo sgorbio e pensi: motorino e asciugamano. Pure i sicani dell’età del bronzo, per dire, che ne sapevano? I siculi li scacciano dalla costa di Siracusa e loro cominciano a camminare, fanno un sacco di strada, arrivano ad Akragas, fondano Agrigento e pensano che ormai sono lontani, pensano che non può essere sempre Sicilia quella dove sono adesso, invece i sicani sono come Jack Kerouac in Sulla strada: il Texas è quello Stato dove guidi e guidi e guidi e sei sempre in Texas. Io, per esempio, il giorno che si vota per il referendum, di mattina presto, visto che la presentazione nella libreria di Palermo è alle undici, sono per strada che guido e guido e guido e mi fermo a Sacchitello, che è l’autogrill dove tutti gli orientali si fermano a fare pipì quando vanno a Occidente, tiro il freno a mano nel parcheggio e mi chiedo: ma ce la farò stasera a tornare in tempo per votare?
Non lo so cosa devo votare, quindi forse dopo la presentazione perderò tempo apposta per arrivare dopo le ventitré, comunque intanto mi infilo nel bagno di Sacchitello, che è pienissimo, e mentre faccio la coda penso: va bene, mi fa comodo per mettere a tacere la mia coscienza politica, però questo viaggio non finisce mai, due ore e tre quarti di macchina, e poi ci scommetti che via Oreto sarà già piena di macchine, pure se è domenica mattina? Un po’ mi scappa, c’è la coda, nel frattempo, per distrarmi, penso a quell’articolo uscito sull’inserto Viaggi di Repubblica, un mercoledì di qualche inverno fa: non vi perdete la Riserva dello Zingaro. Penso: metti che il servizio al posto delle rappresentazioni classiche a Siracusa avesse riguardato, che ne so, il festival del cinema di Roma. Dopo avere visitato il Colosseo, mi raccomando, non perdetevi piazza Maggiore a Bologna. Come distanza più o meno siamo là: 375 chilometri, dice Google Maps.
Il fatto è che la Sicilia è un’isola, però non è tanto piccola, Wikipedia dice che è la regione più estesa d’Italia: verità controintuitiva, e poi via Oreto, che traffico, quello sì che è intuitivo, infatti l’ho intuito prima di uscire di casa, meno male che sono partito all’alba anche se è domenica.
Dal mio lato del triangolo, Oriente, anzi Sud Est, ogni anno nuovo record di presenze turistiche. Noto scoppia di stranieri, un sacco di inglesi intellettuali nel ragusano, sugli Iblei, come ai tempi di Pasquale Villari, comprano le masserie, le restaurano, la campagna del modicano: quant’è bella con quei muri a secco mezzi caduti, gli inglesi si fanno portare gli ulivi secolari con gli elicotteri e li trapiantano dentro una collina che prima non c’era, l’hanno fatta loro, gli inglesi, così, per abbellire il terreno, per movimentare il giardino, poi vengono gli americani, scendono dalle grandi navi in sosta a Riposto, il porto dell’Etna, prima salivano solo a Taormina e via, di nuovo per mare, ora prendono il pullman, si fanno un’ora e qualcosa di autostrada e vengono a mangiarsi la granita in Ortigia.
In Ortigia, un sacco di tavolini in mezzo alla strada, insieme ai figli e alle mogli dei borghesi siracusani ormai ci sono tanti catanesi, più svelti e più levantini, tanto ormai c’è l’autostrada, possono fare i pendolari, i catanesi sono intraprendenti, si lanciano, vanno sempre veloci, hanno aperto il bar, la pizzeria, la trattoria, la gelateria, la gioielleria, se non stai attento sui tavolini ci inciampi, però va bene, è normale, all’inizio è sempre un far west, è così in tutti i posti di frontiera, da che mondo è mondo, prima il mercato e poi le regole: in Texas sfide a pistolettate per chi si doveva prendere quel fazzoletto di terra, a Siracusa sedie di plastica per chi si deve prendere questo pezzetto di marciapiede, il dehors fino a qua è mio, va bene, ci sto, e fino a là? Pure. Coi catanesi è inutile, vincono sempre loro.
Comunque, a colazione granita di mandorla per tutti. Ad Avola si triplica la produzione della mandorla Pizzuta, la più buona di tutte, a Vendicari, a Calamosche, che belle spiagge, strade polverose attraversate da auto di lusso, la porcilaia diroccata è stata ampliata, concessione per fabbricato agricolo, adesso d’estate mettono dei cuscini molto grandi sul praticello e ti servono l’aperitivo mentre te ne stai sdraiato come un nobile romano, d’inverno la svuotano, diventa un deposito per lo stoccaggio delle mandorle, un sacco di mandorle, quante saranno quelle che escono amare?
A Sacchitello comunque due, tre pullman di turisti ci sono, ed è dicembre, stagione debole, e poi ci sono io che faccio la coda per il bagno, è mattina presto, le otto, le nove, e io sono a metà di quest’isola controintuitiva, un’isola grande, ma quando mai s’è vista, da casa mia allo Zingaro 336 chilometri, come dal Colosseo a piazza Maggiore, cose da pazzi, lo sapevi? Nemmeno io: ho dovuto aprire Google Maps. Certo che è difficile farsi un’idea concreta di questa regione, è difficile se ci abiti, figuriamoci se vivi sul continente e leggi i Viaggi di Repubblica, come fai a sapere che dopo Sacchitello, sull’autostrada, spunta un cartello che dice: prossima area di servizio km 135? Lo leggi e pensi: e ora che faccio? Me la tengo fino a Palermo?
Una parte consistente del problema è questo inganno: sulla Sicilia sappiamo pochissime cose vere, concrete, misurabili, non sappiamo quanti chilometri ci vogliono per coprire la diagonale del triangolo che i siciliani si tracciano sempre in testa, e questo è normale, va bene, alla fine sappiamo pochissime cose vere anche sul Friuli o la Valle d’Aosta. Però sulla Sicilia sappiamo anche un sacco di cose finte che sulle altre regioni non sappiamo, cose finte che inficiano quelle vere, anzi un poco le annullano, le spazzano via, ci fanno credere di non avere nessun bisogno di sapere niente perché già sappiamo tutto e abbiamo messo l’asciugamano sotto al sellino.
La Sicilia è così, è un posto iper presente nella rappresentazione che l’Italia dà a se stessa e agli altri del proprio territorio. Molta letteratura, alta e bassa, molti film di consumo, molti commissari di polizia, molti comici di grande successo che ti spiegano l’isola, e poi cronache di tutti i tipi, cronaca nera, cronaca politica, della Sicilia si parla tanto, in continuazione, i forestali, gli sprechi; Palazzo d’Orléans ci costa il doppio di quanto costa la Casa Bianca. La Valle d’Aosta, invece: come si chiama il palazzo della Regione Valle D’Aosta? Boh, della Sicilia siamo convinti di sapere una sacco di cose, conosciamo i toponimi, suonano subito evocativi, sentiamo Sicilia e chiudiamo gli occhi, ci abbandoniamo, colpa dei creativi che sono bravi a fare le foto dentro ai teatri dismessi.
Poi sì, in effetti, se dopo aver ascoltato rapiti la parola Cefalù riapriamo gli occhi, se accendiamo il pensiero, lo sappiamo, siamo consapevoli che si tratta di finzione letteraria, cinematografica, poetica, folcloristica, però per uscire dalla finzione ci serve uno forzo che non facciamo quasi mai, l’isola è controintuitiva e noi preferiamo intuire, misurare è noioso, a intuire ci si sente più intelligenti, una curva, una sola, in mezzo alla polvere, e cucù: il mare! Non te l’aspettavi, vero? Io sì, però grazie, che ci vuole, io ci abito. Per cui l’unica idea che ne abbiamo è questa: un’isola, se già ci vuole poco a girarsela in motorino, quanto ci vorrà a girarsela con questa bella automobile nuova? Manca, è sempre mancato, quell’altro racconto della Sicilia, quello fattuale, quello per cui uno che ha fatto bene le elementari si rende conto che da Siracusa alla Riserva dello Zingaro ci sono 336 chilometri, è lunga questa curva per vedere il mare, o se non lo sa, prima di scrivere il pezzo è abituato ad andare su Google Maps e misurare i chilometri, meno male che a Sacchitello ci sono questi bagni così grandi, sennò con la pipì come fai?
A Palermo, libreria Modus Vivendi, che bel posto, l’atmosfera è quella che piace a me, sembrano già tutti amici miei, parliamo, ce ne stiamo raccolti, ci capiamo: vengo da Oriente ma vengo in pace, gli dico, anche se mi sono fatto tutte queste ore di macchina, mattina presto, pipì a Sacchitello, ma voi come fate a tenervela quando venite a Siracusa? Ah, noi non ci veniamo, mi dicono loro. Ma come? A un certo punto esce fuori il discorso di essere siciliani, a proposito di com’è scritto il libro che ho scritto, che ha una lingua a forma di triangolo sgorbio, però con una diagonale dritta, non è dialettale, c’è qualche innesto, va bene, piccolo, quando è necessario, è un libro che parla, nelle mie intenzioni doveva essere ascoltato più che letto, lingua orale, gli emiliani ce la fanno, sono bravissimi, Ugo Cornia, io accendo i ceri sotto ai suoi libri, però per un siciliano è più difficile, il mio dialetto è molto rappresentato in moltissime opere di finzione, di larghissimo consumo, di enorme successo, il dialetto siciliano trionfa, è popolare anche all’estero, però nella sua versione posticcia, letteraria, artefatta, predisposta per essere riconoscibile come siciliana.
Ne parliamo, me ne parlano gli amici di Palermo, Modus Vivendi, pubblico molto più intelligente di me, dicono cose che non sapevo di pensare: io il libro l’ho scritto in italiano, però parla di un siciliano che si è trasferito per lavoro in Umbria, si doveva sentire lo scarto linguistico, il suo parlato, la sua sintassi, sono modellati sull’italiano che si parla in Sicilia, un po’, si parva licet, come quella di Ugo Cornia sull’italiano che si parla in Emilia. Un esperimento. Riuscito? Non penso, però uno almeno ci prova, sennò che fai? Di nuovo compare Turiddu?
I miei colleghi, in Umbria, spiego agli occidentali dentro la libreria, sono persone che hanno studiato, insegnano nelle scuole, hanno sensibilità e cultura, e anche loro ogni volta mi dicono: ma lo sai che si sente poco che sei siciliano? Invece si sente un sacco, gli rispondo. Verità controintuitiva: la Sicilia è un’isola, però non tanto piccola, avete presente l’Irlanda? Loro, gli umbri, dico ai palermitani, sanno come parlate voi occidentali, l’accento viene calcato, si deve sentire, serve a connotare, siamo tutti palermitani, i campani sono tutti napoletani, ti capita come collega quello di Salerno e gli dici: ma lo sai che si sente pochissimo che sei campano? Siamo un posto grande, quasi tre ore di macchina per arrivare qua, niente pipì fino alle nove e un quarto, nemmeno noi stessi sappiamo quanta strada c’è, i Viaggi di Repubblica ci hanno convinto che le dimensioni non contano, o forse sono stati i primi a informarci e ci hanno informato male, prima non ci ponevamo nemmeno il problema, c’è voluto il turismo per cominciare a fare i turisti tra di noi, spostarci da Oriente a Occidente e viceversa, conoscersi: voi di qua, noi di là, e Sacchitello in mezzo. Quanto tempo è che i siciliani non sono i siciliani ma la loro rappresentazione?
Quanti chilometri ci sono da Siracusa a San Vito? Tra di voi, pubblico palermitano, ci sono tanti insegnanti, domani mattina prendetene uno a caso, uno di quelli bravi, al primo banco, e chiedeteglielo così, a bruciapelo: quanto c’è di strada da qua a Siracusa? Prima però minacciatelo: guai a te se apri Google Maps! Forse lo sa, secondo me no, però in compenso sa che al commissario piacciono gli arancini, che la Sicilia è buttanissima e che c’entrano qualcosa lo sbarco alleato e il fatto che siamo nati stanchi. Se è uno bravo per davvero conosce anche tante formule: l’isola irredimibile, la sicilitudine, l’immobilismo, l’indolenza, se è proprio bravissimo vi spiegherà che Giovanni Percolla dorme così tanto tutti i pomeriggi perché ha la pulsione di morte, tutti i Siciliani ce l’hanno, ogni desiderio di ogni siciliano è in realtà pulsione di morte. La pulsione di morte ce l’ho pure io, ci mancherebbe, però stamattina più che altro mi pulsava la vescica, e poi mettiamo che io voglia morire di incidente stradale sulla Palermo-Catania, quanti km è lunga? Niente, secondo me anche se quello a primo banco è il più bravo di tutta la scuola, non lo sa.
Più esplodono i record di presenze, più la Sicilia diventa turistica, e più viene a coincidere con il racconto che se ne è sempre fatto e se ne continua a fare. Chi racconta ha questa responsabilità di raccontare un posto troppo raccontato per tòpoi: bella location, ambientazione esotica, che fai, te la lasci scappare? Se scrivi un libro, anche piccolo, anche scemo, questa cosa un po’ te la devi ricordare mentre lo scrivi, ci devi provare, altrimenti di nuovo le frasi col verbo alla fine, l’accento calcato, il commissario che muore sparato perché non sa rinunciare all’iris con la ricotta, il ciclo dei vinti?
La presentazione finisce presto, io invece mi attardo dentro la libreria per riuscire a tornare a casa dopo le ventitré ed evitare di prendere posizione sul referendum. C’è una signora molto elegante, è arrivata adesso, non ne sa niente della presentazione del mio libro, però vede la pila: ne ho venduti pochi, penso mentre ne solleva uno, in effetti è la prima volta che vedo qualcuno con in mano una copia del mio libro dentro una libreria, e forse sarà pure l’ultima. Quant’è vestita bene, penso, che gusto, secondo me suo marito le ha regalato un albergo da gestire a Siracusa. Legge la quarta di copertina, lo sfoglia, mi avvicino, le dico: lo sa che io un po’ prima di compiere trent’anni sono partito col mio migliore amico, d’estate, così, all’improvviso, per l’Irlanda? Avevamo meno di una settimana, siamo scesi a Cork, volo Ryan Air, trenta euro andata e ritorno, poi ce la siamo girata in autobus, tutta quanta, dal Colosseo fino a piazza Maggiore, e pensi che l’Irlanda è addirittura una nazione! La signora mi dice che le fa piacere saperlo però non capisce che c’entra. Niente, le dico, però posso regalarle questo libro? Mi permetta, ci tengo: è scritto in italiano, lo sa?