Hai mai incontrato un robot? La domanda è dipinta a caratteri cubitali neri all’ingresso del Vitra Design Museum di Weil am Rhein (Germania) e accoglie i visitatori della mostra Hello, Robot. Design Between Human and Machine, visitabile fino al 14 maggio. La risposta si snoda in un percorso espositivo che raccoglie 200 pezzi tra cimeli di cultura pop, opere d’arte, automazione industriale, progetti di robotica medica e architettonica d’avanguardia. Davanti al manifesto di Metropolis del 1927 («una delle quattro copie originali rimaste, un’altra ce l’ha Leonardo DiCaprio», si racconta nella sala), a R2-D2 proveniente dal George Lucas Archive, alle immagini dei Pronipoti di Hanna e Barbera, di Wall-e e di Luxo Jr. della Pixar, di Astroboy, degli automi dei Kraftwerk, di Ghost in the Shell, di Terminator, di Her di Spike Jonze, accanto ai modellini dei Trasformers del 1984 e alle statue di Gundam e Zaku, la risposta non può essere che sì, ho già visto un robot. Al cinema, sui dischi, in libri e fumetti. Incontrarlo, sembra essere un’altra questione. Allora i curatori della mostra (organizzata dal Vitra Design Museum insieme al Mak di Vienna e al Design Museum Gent) hanno tirato fuori il Tamagotchi, la prima aspirapolvere automatizzata, l’iRoomba, Echo di Amazon – il cilindro che risponde ai comandi all’interno della casa “intelligente”, conseguenza dell’internet delle cose e del learning machine verso cui veleggiano anche Google (con Pixel e Home), Apple (Siri, HomeKit) e gli altri big. Tutti abbiamo già incontrato un software, un algoritmo, una macchina che fa cose. Forse solo non lo abbiamo considerato un robot, perché il robot ha quelle sembianze che un secolo di letteratura gli hanno dato. Il termine è, guarda il caso, frutto dell’immaginazione del cecoslovacco Karel Čapek che nel 1920 scrive il dramma R.U.R. (Rossumovi univerzální roboti), in cui i roboti sono esseri artificiali destinati al lavoro forzato. E c’era già il Golem ad agitare i sogni ebraici di Praga.
Il robot è prima di tutto un’immagine, una forma. A ben guardare, è il frutto di un design. Come racconta Amelie Klein, curatrice della mostra e del Vitra Design Museum, «il design è il modo in cui ci relazioniamo all’altro. Crea la connessione tra l’uomo e la macchina, tra il soggetto e l’oggetto». Viene in mente, e certo è nello spirito di Hello, Robot, quel design dell’interfaccia che ha creato app di uso quotidiano, delle quali vediamo solo la funzione. «La mostra rappresenta la più vasta indagine sulla robotica fatta da un punto di vista del design», afferma Klein. Perché, come ha spiegato il direttore del museo Mateo Kries all’inaugurazione: «La robotica non è più da tempo pertinenza della fantascienza o dei soli ingegneri: appartiene alla quotidianità. Sta dando forma al nostro modo di vivere. È un tema per i designer. E solleva diverse questioni». Le domande sono il filo conduttore di tutta la mostra, scandiscono l’allestimento come tante tappe, 14 per la precisione. Abbiamo davvero bisogno dei robot? Sono nostri amici o nemici? Possiamo fidarci di loro? Possono fare il nostro lavoro? Lasceresti loro prendersi cura di te? Le tre leggi della robotica immaginate da Isaac Asimov per i suoi libri sembrano più attuali che mai: un robot non può danneggiare un umano, deve rispondere ai suoi ordini, deve proteggere la propria esistenza a meno che ciò non contrasti i primi due punti.
Continua Amelie Klein: «C’è un sentimento ambivalente nei confronti degli automi. Offrono possibilità esaltanti e insieme preoccupazioni. La gente dice: “Ho perso il mio lavoro a causa di una macchina”, ma il concetto di robot è più ampio. È qualcosa che attraverso sensori raccoglie dati, li elabora e produce una reazione, che può essere un’azione, un suono, una luce, il riscaldamento. Una città che usa i sensori per governare i semafori, il machine learning, la capacità computazionale in generale». Più che buona o cattiva, l’automazione è un dato di fatto. Con evoluzioni ancora in buona parte da immaginare. In mostra c’è un Robot Baby Feeder di RoboticNative, con il biberon attaccato al braccio meccanico, l’esoscheletro di Ekso Bionics che permette di camminare a chi non può più farlo, il chip xBTi di Dangerous Things acquistabile online che si impianta sotto la pelle e contiene un numero identificativo unico per riconoscerci, il Dynamic Arm Plus di Ottobock: una protesi collegata al corpo e controllata dal nostro cervello.
Non siamo così lontani dal momento in cui vedremo umani con pezzi di macchina camminare per strada, mentre stiamo seduti sulla nostra auto che si guida da sola. Google non ha spedito qui in mostra il suo prototipo, ma si può ammirare lo Starship Delivery Robot per le consegne a domicilio. E già ci sono software che riconoscono le espressioni del viso e quindi leggono le nostre emozioni. Kip è un robottino bianco che reagisce alla nostra voce: «Ciao», e lui trema spaventato. È un progetto del Media Innovation Lab dell’Università di Vienna, lavora da «oggetto empatico»: aiuta le persone a vedere l’effetto delle proprie parole sugli altri. Il primo, ancestrale, è la paura. Perché i robot ci aiutano anche a vedere qualcosa che è oltre. Lo spiega bene Amelie Klein quando racconta dell’Elytra Filament Pavillion ricostruito qui nel Campus Vitra dopo essere stato al Victoria and Albert Museum di Londra: progettato da un algoritmo e costruito da un robot. O del catalogo della mostra, disegnato graficamente da un algoritmo dopo che il designer aveva impostato certi parametri: «È stato sorprendente. Ha lavorato in un modo che nessun umano avrebbe fatto, proponendo un’estetica inusuale, diversa dai principi che noi tutti conosciamo. Ci ha mostrato qualcosa al di fuori del nostro controllo. Un aspetto interessante, soprattutto nei processi creativi». Non resta che fare alla curatrice una delle domande che scandiscono la mostra: potrebbe un robot fare il suo lavoro? «Sì, il risultato sarebbe sicuramente sorprendente. L’intelligenza artificiale dà nuove prospettive, magari però non sempre riesce a selezionare una serie di oggetti che abbiano senso insieme. Quindi penso che sarebbe meglio se un essere umano avesse l’ultima parola».