Far accomodare una nazione intera sul lettino dell’analista è un’operazione complessa e sicuramente poco pratica, soprattutto se si parla della Germania e della sua ottantina di milioni di abitanti: serve quantomeno un lettino parecchio spazioso, e dai piedini ben robusti. L’analista, poi, deve muoversi con prudenza e mestiere per evitare il rischio, sempre presente, di trasformare una seduta esplorativa in un collage di luoghi comuni – quelli buoni per il bar durante i Mondiali di calcio, coi tedeschi sempre puntuali ma che hanno cominciato tutte le guerre e aspettano di superare il confine con l’Italia per iniziare a guidare come pazzi spericolati.
Facendo un minimo d’attenzione, invece, l’analista può ritrovarsi per le mani del materiale prezioso per tentare una prognosi, necessariamente provvisoria quanto generica, che magari non aiuterà i tedeschi a guarire – sempre che ne abbiano bisogno, poi – ma piuttosto servirà a noi, gli altri, per capire meglio com’è fatta, che carburante usa questa locomotiva d’Europa che un po’ ci affascina eppure ci fa anche paura.
Attenzione però: che l’analista sia di scuola freudiana. Che abbia dimestichezza con la classica tripartizione dell’apparato psichico fra Io, Es e Super-Io, e conosca a menadito le contorte relazioni che spesso si intrecciano fra questi tre elementi. La prima cosa che noterà, infatti, saranno i sintomi di un Super-Io ipertrofico: e il suo primo compito, a questo punto, sarà individuarne le cause, ricostruirne la biografia e il percorso di formazione – per usare una formula particolarmente adatta, viste le latitudini, scriverne il Bildungsroman. E allora quale miglior punto di partenza potrebbe trovare, il nostro analista, se non Thomas Mann?
In un famoso discorso tenuto agli studenti dell’Università di Amburgo, nel giugno del 1953, Thomas Mann racconta ai suoi giovani ascoltatori la fatica del ritorno in Europa, a settantotto anni, dopo il lungo esilio negli Stati Uniti. Tornare indietro e stravolgere completamente le proprie abitudini, a quell’età, non è cosa da poco. «Eppure, credo, ho fatto bene», dice: perché qui si vive in uno spazio stretto, ma su tempi lunghissimi. Ed è proprio in nome della millenaria storia del continente, della sua antica dignità andata quasi completamente perduta durante la guerra, che il vecchio scrittore indica agli studenti l’obiettivo di una nuova consapevolezza europea: un’Europa unita, con al centro una Germania riunificata. Perché questo sia possibile però, ammonisce Mann, bisogna fare uno sforzo necessario: bisogna dissipare quel timore, quella diffidenza che gli altri popoli provano quando si parla dei tedeschi. Una diffidenza non priva di fondamento, tocca riconoscerlo.
Mann si riferisce ovviamente a Hitler, ma lo sguardo storto sui tedeschi ha in realtà una storia ben più lunga alle spalle. Già durante il Congresso di Vienna, un secolo abbondante prima, Lord Castlereagh – marchese di Londonderry, in rappresentanza dell’Inghilterra – collegava la stabilità in Europa all’equilibrio tedesco, intendendo con «equilibrio» la divisione della Germania e la sua rinuncia a una dimensione nazionale compiuta. E si possono facilmente immaginare i brividi lungo le schiene dei regnanti d’Europa quando sentirono Bismarck parlare di Blut und Eisen, il sangue e il ferro con cui il Cancelliere (per l’appunto) di ferro si mise poi a realizzarla sul serio, quella dimensione nazionale. Ma anche dopo, a voler saltare gli anni del nazismo, non è che le cose siano andate molto meglio: basta ripensare alla grande apprensione con cui i governi europei seguirono le vicende della riunificazione, preoccupati per le possibili conseguenze di quell’evento che si verificava sotto i loro occhi a una velocità imprevedibile e impressionante. E sì che era il 1989, e dalla guerra erano passati più di quarant’anni. Insomma, quando la Germania si muove e prende l’iniziativa, non c’è da star tranquilli. Mai.
La storia recente della società tedesca è tutta articolata intorno a questa diffidenza: percepita, vissuta e finalmente interiorizzata. Nel lungo percorso che l’ha portata a fare i conti con il proprio passato (in tedesco Vergangenheitsbewältigung, un termine che implica un vero e proprio scontro fisico, concreto – filologicamente c’entra la Gewalt, la violenza) la Germania ha accolto in sé la diffidenza che ha sempre suscitato negli altri popoli e ci ha costruito sopra la propria trasformazione in una società moderna. Finita la guerra, i tedeschi hanno rielaborato la propria storia alla luce di questa diffidenza strutturale e hanno deciso che per ripartire era necessario tenerne conto, era necessario ripensarsi come popolo proprio a partire da ciò che più di qualunque altra cosa la rappresentava simbolicamente: la gigantesca colpa del nazismo. Ed essendo tedeschi, l’hanno fatto in maniera irreversibile, totale ed inesorabile.
Il filosofo Peter Sloterdijk ha usato, per descrivere questo processo, il termine metanoia: una conversione culturale, una mutazione profonda della propria percezione di sé attraverso la quale il popolo tedesco ha sostanzialmente svuotato l’immagine che aveva di se stesso e l’ha riempita di contenuti nuovi, più affini alla democrazia liberale e alla modernità occidentale. Slegata dal suo originale contesto religioso, la metanoia di cui parla Sloterdijk va intesa come un mutamento prospettico, una conversione dell’assetto spirituale di un popolo intero che trasforma le proprie regole culturali – riconosciute definitivamente come pericolose e nocive – con l’obiettivo di avvicinarsi a un modello di «civiltà superiore». Un processo di progressiva “stedeschizzazione” (Entdeutschung: il termine è del Thomas Mann di Considerazioni di un impolitico), dunque, lungo il quale la Germania ha abbandonato l’elmetto a punta di Bismarck per indossare più sobri abiti civili da Paese occidentale moderno. E forse nulla più del Memoriale per gli ebrei assassinati in Europa, l’enorme monumento alle vittime della Shoah a Berlino, rappresenta fisicamente questo percorso di trasformazione. Monumento perenne – come lo definì Angela Merkel – a una colpa ugualmente perenne, definisce perfettamente il compimento dell’identità tedesca postbellica: noi siamo quelli che hanno fatto questo – da leggersi in senso duplice: quelli che hanno sterminato gli ebrei, e quelli che hanno eretto un monumento a eterna memoria del proprio crimine. Ed è rivelatrice la polemica che recentemente ha investito Björn Höcke, membro del partito populista di estrema destra Alternative für Deutschland, che ha criticato il Memoriale dicendo che quello tedesco «è l’unico popolo al mondo a essersi piantato un monumento alla vergogna (Denkmal der Schande) nel cuore della propria capitale». Höcke è stato attaccato in maniera durissima, giustamente, per queste parole: il fatto però è che, anche se in un senso diametralmente opposto a quello che intende lui, dentro c’è una profonda verità. I tedeschi sono l’unico popolo ad avere eretto un monumento alla propria colpa, e averlo fatto è esattamente in linea con il compimento della loro metanoia. Arrivato a questo punto, il nostro analista si troverà però inevitabilmente di fronte a una domanda: com’è possibile una conversione generale e collettiva di questa magnitudine? Com’è possibile che un popolo intero si metta lì, decida che è necessario diventare un’altra cosa, e bum?
Sarà in quel momento che gli torneranno in mente gli esami di filosofia e sociologia che, con ogni probabilità, avrà dovuto sostenere durante la sua carriera universitaria. Ricordi che gli torneranno utili per decifrare il secondo sintomo chiaramente diagnosticabile del suo gigantesco paziente: una naturale diffidenza nei confronti dell’individuo, una innata propensione a pensare in termini di comunità.
È la comunità la base della società tedesca, infatti – ma attenzione a come la intendiamo. Non si tratta del gruppo di appartenenza, o della “cultura” da cui si proviene, bensì della struttura generale riconosciuta e legittimata, attraverso regole, pratiche e procedure formalizzate: in una parola, l’istituzione, il sistema. È grazie a questa tendenza verso l’insieme regolato che i tedeschi sono riusciti nella formidabile impresa di trasformare la propria identità collettiva: per nulla a proprio agio quando devono dire ich, “io”, e prendere l’iniziativa individualmente, trovano conforto in un wir (“noi”) vidimato e bollato che gli consente di muoversi come entità generale. Qualcosa che ha a che fare con la burocrazia di Max Weber (che mica per caso ha identificato e teorizzato il fenomeno vivendo da queste parti), o con le righe della Banalità del male in cui Hannah Arendt scrive di quella «strana idea, effettivamente molto diffusa in Germania, che essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce». Una specie di imperativo categorico kantiano sotto steroidi che lascia vagamente intravedere, come punto d’arrivo, quel «disagio della civiltà» che Freud (come dicevamo: serve che l’analista abbia una formazione freudiana) identificava come il risultato della tensione fondamentale fra i requisiti sociali della civiltà e l’individuo.
Il punto, però, è che probabilmente alla base della Germania di oggi, della sua forza e del suo successo, c’è anche – oltre naturalmente a un sacco di altre cose – il disagio della civiltà di cui parlava Freud. La tensione fra lo spirito comunitario che definisce la società tedesca, da una parte, e dall’altra quell’iniziativa dell’individuo di cui non si può che diffidare (anche perché, come spesso si sente dire da queste parti, «quando l’abbiamo fatto è finita malissimo»), e che però inevitabilmente ogni tanto salta fuori.
A metterla in questi termini, oltre a Freud, vengono in mente la filosofia della storia di Hegel e gli «individui cosmici» alla Napoleone, e uno si sente un po’ ridicolo a parlarne nel 2017; ma per capire che lo schema a livello euristico funziona basta invece dare uno sguardo a una vicenda più recente, e per certi versi non meno eroica: i sette anni che separano il 1998 dal 2005, la fine dell’era di Helmut Kohl dall’insediamento del primo governo di Angela Merkel.
Forse ci ricordiamo cos’era la Germania post-unificazione: tanto entusiasmo, l’epopea del crollo del Muro e la gente con ancora negli occhi Roger Waters (+ special guests) che suona The Wall dal vivo a Potsdamer Platz, ma anche un sistema economico praticamente al collasso. Un Paese in recessione e senza competitività, con una spesa pubblica molto elevata e la disoccupazione in crescita – insomma il «malato d’Europa», come lo definiva l’Economist ancora nel 1999.
Bene: Enter Gerhard Schröder.
Quando ripensiamo a quegli anni, e alla stagione della cosiddetta “terza via”, tendiamo a ricordarci solo di Tony Blair, ed è comprensibile: in fondo, se quella spinta riformista ha finito col prendere quasi ovunque il nome di blairismo un motivo ci sarà. Dimentichiamo, però, che in calce al documento che tracciava la linea della terza via c’era, oltre alla firma del premier britannico, anche quella del Cancelliere tedesco; e che in quel documento, declinato in tedesco come la ricerca del neue Mitte, il nuovo centro della società, affondano le radici dell’Agenda 2010, il piano di riforme che Schröder usò come manifesto e blueprint dei suoi anni di governo.
A rileggere quella storia, il nostro analista troverebbe testi, citazioni, discorsi al Bundestag che gli ricorderebbero molto da vicino quelle pagine in cui Freud descrive la tensione costante fra individuo e comunità: ad esempio un intervento di Schröder che, di fronte ai parlamentari, preannuncia la necessità di ridurre le prestazioni dello Stato e di «promuovere la responsabilità dei singoli e richiedere più prestazioni individuali». Un piano che potrebbe essere sintetizzato in termini terapeutici, magari immunologici, pressappoco così: inoculare dosi di iniziativa individuale in un corpo costituito da strutture essenzialmente comunitarie.
Il modello economico tedesco, infatti, è storicamente basato su un’architettura comunitaria – tanto da essersi meritato una denominazione specifica nei discorsi degli economisti, quella di «economia coordinata/economia sociale di mercato», altresì detta «capitalismo renano». Con questa formula si intende, a grandi linee, un modello produttivo coordinato attraverso una gestione del processo in cui vengono direttamente coinvolti diversi attori economici, sociali e istituzionali: oltre alle imprese, naturalmente, le associazioni sindacali e i Betriebsrat, i consigli di fabbrica (la cosiddetta “cogestione”, cioè la loro partecipazione nei cda aziendali), ma anche scuole e università (con ad esempio il sistema duale, che prevede periodi di formazione e apprendistato per gli studenti organizzati insieme alle aziende), banche ed enti locali, attraverso forme di governance d’impresa il cui obiettivo principale è garantire stabilità al sistema. Affianchiamo a questa immagine anche un welfare decisamente generoso e protettivo nei confronti di chi rimane senza lavoro, e avremo un quadro generale dell’economia tedesca.
Agli inizi degli anni Duemila, però, i problemi iniziarono a venire a galla, e a diventare sempre più pressanti. Da una parte un costo del lavoro elevatissimo, che inevitabilmente danneggiava la competitività delle aziende e la loro capacità di adattarsi al mercato (e alla concorrenza) globale, rendendo per di più difficile trovare lavoro; dall’altra un welfare forse un po’ troppo generoso e protettivo, che alla fine permetteva ad alcuni di trasformare la disoccupazione in una professione retribuita (tramite sussidio) e forniva scarsi incentivi a rientrare nel mercato, generando quindi una spesa pubblica sempre più alta.
Per uscire da questa situazione, il governo di Schröder fece essenzialmente due cose. Da un lato ridisegnò il mondo del lavoro, introducendo anche nuove forme contrattuali: è il caso, ad esempio, dei mini-job, mini-contratti dal costo ridotto che permisero l’emersione e la conseguente regolarizzazione di enormi blocchi di lavoro nero, soprattutto in settori tradizionalmente non inquadrati come i servizi di cura e accoglienza. L’effetto fu non solo quello di rendere vantaggioso offrire contratti regolari dove prima contratti (e quindi tutele) non se ne vedevano neanche di striscio, ma anche di abbassare in generale il costo del lavoro – un aspetto che, unito alla tendenza verso la contrattazione decentrata che iniziò a diffondersi in Germania dalla metà degli anni Novanta, consentì alle aziende di riprendere ad assumere e di disporre della necessaria flessibilità organizzativa per non farsi travolgere. Flessibilità organizzativa, tra l’altro, gestita insieme ai sindacati e ai consigli di fabbrica presenti nei cda (la “cogestione” di cui si parlava prima), quindi limitando parecchio gli effetti di precarietà.
Dall’altro lato venne ridisegnato anche il welfare, cambiando il sistema dei sussidi ma soprattutto spostando l’accento sulle politiche attive: non si tratta più solo di ricevere il sussidio, ma anche di partecipare a corsi di formazione e riqualificazione, imparare come si fa un curriculum, andare agli appuntamenti coi consulenti della Bundesagentur für Arbeit (Agenzia federale per il Lavoro) e dei Jobcenter (le agenzie di collocamento) – tutte quelle cose, insomma, necessarie per rientrare efficacemente nel mercato del lavoro, che alla fine è pur sempre la migliore rete di sicurezza possibile.
Questa iniezione di individualismo ha provocato una tensione fertile, ha fecondato il corpo comunitario tedesco permettendogli di adeguarsi e adattarsi al contesto in maniera funzionale: attuando i cambiamenti necessari senza snaturare però il tessuto produttivo nel suo complesso. Creando cioè una struttura coerente – requisito fondamentale, secondo chi ne capisce, per il successo di un sistema economico. Risultato: la locomotiva d’Europa. Disoccupazione bassissima, produttività alle stelle, esportazioni come mai prima, casse pubbliche piene.
Certo, non è che non ci siano problemi: l’esplosione dei mini-job, ad esempio (nel 2012, secondo le statistiche, un quarto dei nuovi contratti stipulati era di questo tipo), o l’aumento del numero di persone con salario inferiore alla media nazionale (un quinto, secondo un recente reportage dello Spiegel). Ma sono in pochi a mettere in dubbio l’effetto complessivamente positivo delle riforme di Schröder: anche Martin Schulz, candidato Cancelliere della Spd alle elezioni politiche del 24 settembre, e che sta impostando gran parte della campagna sul tema della «giustizia sociale», parla di «correzioni» da fare all’Agenda 2010, non certo di buttarla via.
Arrivati alla fine della seduta, l’analista avrà ora sì qualche risposta in più, ma soprattutto parecchie nuove domande. La storia clinica del paziente è più chiara, i sintomi meglio definiti: ma servirà davvero una terapia? E quale, poi? Questo bizzarro percorso psichiatrico, infine, potrebbe addirittura essere raccomandabile per altri pazienti? Potrebbe essere un modello replicabile? C’è un libretto di istruzioni pulsionali per diventare la locomotiva d’Europa? Altre sedute sarebbero necessarie, forse qualche consulto con i colleghi. Intanto però al nostro analista non rimarrà che osservare il suo gigantesco paziente che si alza dal lettino e si avvia verso l’uscita, con in mano il portafogli per onorare la parcella. E forse proverà un po’ di compassione: un Io così mortificato, tenuto in scacco da un Super-Io ipertrofico e un “Noi” ineludibile, sembra davvero impreparato per la sfida che lo attende – nientedimeno che la guida del mondo libero. L’ultima telefonata di Barack Obama prima di lasciare la Casa Bianca, fatta a Angela Merkel, suona infatti come un passaggio di consegne che lascia pochi dubbi: leader of the free world, ora, non è più the POTUS, ma die Kanzlerin, almeno finché ci sarà Donald Trump in giro. Un ruolo di cui la Germania farebbe volentieri a meno – non per niente l’Economist parla di «egemonia riluttante» — ma a cui non potrà sottrarsi.
A tutto questo penserà, il nostro analista; e forse, di nuovo, anche a Thoman Mann.
In quel discorso del 1953 ad Amburgo, in cui tratteggiava il sogno di un’Europa unita, Thomas Mann implorava gli studenti che stavano ad ascoltarlo di compiere quel passo necessario per restituire fiducia alle nazioni confinanti, per rendere credibile la buona fede del popolo tedesco e il suo impegno nella costruzione di un futuro comune: abbandonate l’idea di una «Europa tedesca», dice il vecchio scrittore, e abbracciate quella di una «Germania europea».
Più di sessant’anni dopo, ora siamo forse pronti ad accettare il fatto che, in realtà, abbiamo bisogno di entrambe.