New York, Venezia, Madrid e Torino
Maureen Gallace: Clear Day
Fino al 10 settembre 2017. MoMA PS1, New York. A cura di Peter Eleey e Margaret Aldredge Diamond
Maureen Gallace nasce in Connecticut nel 1960; dipinge su piccole dimensioni (intorno ai 20 x 30 cm) fienili, cottage, prati e spiagge della sua terra e del New England. Le opere non sono dipinte en plein air, bensì nello studio di New York dove Gallace, sibilla del detachment, si allontana con passo felpato dalla visione realistica – trascura, per esempio, le finestre dei cottage, similmente a quanto faceva Milton Avery elidendo occhi, naso e bocca dei soggetti ritratti. La pittura è plastica e luminosa, così poco spigolosa da sembrare sottilissimo pongo steso con il pollice; l’umano è assente. C’è chi avvicina Gallace a Hopper, ma farlo equivale a sforbiciare un calendario per accostare un tiepido pomeriggio di luglio rinfrescato dagli spruzzi di una piscina fuori campo, all’odore di pioggia trasportato dal vento di metà ottobre. C’è chi paragona Gallace a Morandi; nuovamente, il sentimento è altrove: del grigio polveroso del maestro bolognese non c’è traccia; in Gallace tutto si trova in balìa del vicino oceano: il grigio è blu; gli arbusti, schiuma marina.
momaps1.org
Philip Guston and The Poets
Fino al 3 settembre 2017. Gallerie dell’Accademia, Venezia. A cura di Kosme de Barañano
Venezia è una regina trascurata, Philip Guston (1913-1980) le restituirà lo scettro. Avete visitato la mostra di Damien Hirst? Spero di no. Su Instagram è stato coniato un hashtag più esaustivo di qualsiasi mia paternale: #artforpeoplewhohateart; arte per chi – per pigrizia (ignoranza è una parolaccia) – preferisce pensare che l’arte sia in crisi, e non si cura dell’incessante brulichio delle centinaia e centinaia di artisti con una ricerca formale forte che fanno parlare di sé o che, al contrario, lavorano in un buco di garage dimenticato da tutti ma non da Dio. Il kitsch è morto, il feticcio è morto (lo sono sempre stati) e il capitalismo è roba vecchia, basta! Torniamo a Guston: sulle pagine di IL ho già supplicato che sfondasse gli italici confini; bene, finalmente arriva e ci salverà tutti. Più della bella Biennale, più del grande David Hockney a Ca’ Pesaro, giungerà con la sua torma di poeti (D. H. Lawrence, W. B. Yeats, Wallace Stevens, Eugenio Montale, T. S. Eliot), sarà accolto festosamente dallo spettro di Tiepolo e dei suoi figlioli e redimerà l’Italia da tutti i torti inflitti all’arte.
gallerieaccademia.org
New World Figuration, Bernhard Rappold
Dal 27 maggio al 5 luglio 2017. Galeria Alegria, Madrid
Bernhard Rappold nasce a Vienna nel 1979; già aveva ritenuto opportuno nascere nel 1897, il giorno in cui Klimt e compagni inaugurarono la Secessione, e sicuramente nei tardi Sessanta sfrecciava per l’Italia a bordo di una Spider Duetto diffondendo il verbo delle camicie optical. Tutto mi porta a credere che Rappold sia nato l’altro ieri e che rinascerà domani, la prima volta che parlammo mi dichiarò la propria fascinazione per l’autogamia dei protozoi. In un mondo dove tutti storcono il naso di fronte alla parola “originalità”, appropriandosi d’idee, estetiche e mutande altrui, in un mondo di multipli, Rappold brilla unico e orgogliosamente inedito. Inscindibile dalla sua opera, Rappold si veste delle tele che dipinge e suona le Guitars da lui stesso assemblate. Capace di officiare l’unione tra ornamento e sciamanesimo, tra il racemo e il punto, Rappold risolve con spiritualità la sempiterna tenzone tra disegno e pittura: nella ripetizione libera, da dessin automatique, il motivo decorativo sposa a sorpresa le linee serpentinate che tentano di racchiuderlo e definirlo.
galeriaalegria.es
Renata de Bonis – Aurora
Fino al 30 Giugno 2017. Galleria Giorgio Galotti, Torino.
Aurora è il quartiere di Torino dove ha sede Galleria Giorgio Galotti, ed è il titolo con cui Renata de Bonis, artista brasiliana nata nel 1984, presenterà la propria prima mostra personale italiana. L’artista si è lasciata catturare dal nome del quartiere – l’epifanica luce rosa che precede il sorgere del sole cristallizzatasi nella toponomastica locale. De Bonis ha vestito il proprio corpo di materiale fotosensibile; ha indossato due magliette trattate con le soluzioni anticamente usate per la tecnica cianografica. All’alba e al tramonto di un giorno d’Aprile ha impresso sul proprio petto le mutazioni della luce solare; le maglie esposte in galleria, una verso est, l’altra verso ovest, simuleranno la distanza luminosa tra la nascita e la morte del giorno, e dunque tra Oriente e Occidente. Artista fossile, termometrica, da sempre interessata alla registrazione dell’evento naturale e agli scarti incontrati dalla scienza nel cronometrare la natura, stenderà lungo la terrazza dell’edificio una selezione di sacchetti di supermercati evocanti il sole nel proprio nome o simbolo, e lascerà che l’intemperie li facciano sbiadire o alterare nei due mesi della mostra. L’esposizione come organismo vivente, dove tutto segue il ciclo della vita e il materiale di consumo, l’inquinante sacchetto, muore di consunzione