Per millenni la moglie è stata considerata come proprietà privata del marito. E questa usanza barbara è sopravvissuta in Paesi a noi lontani per cultura e tradizioni. Per fortuna nel secolo scorso la condizione della donna ha compiuto enormi balzi in avanti. Così in avanti che oggi non solo c’è chi non considera più la moglie come proprietà privata, ma addirittura come un bene pubblico, da condividere col resto della società…
Che ci fossero in giro uomini tanto generosi, a Duccio Innocenti e Gianni Cianchetti, i due scapoli seduti ai tavolini di un bar che fumavano e bevevano Campari aspettando l’ora di pranzo per presentarsi a casa delle rispettive madri e sedersi a tavola e farsi servire, tutto ciò sembrava alquanto strano.
Eppure questa era la chiacchiera insistente che negli ultimi tempi animava molti dei discorsi che si sentivano al Bar del Corso di una sonnacchiosa cittadina di provincia un tempo celebre meta di villeggiatura nota per le arie salubri, i parchi ombreggiati e gli alberghi accoglienti, e oggi ridotta dalla crisi e dalla cattiva amministrazione a poco più che un cimitero di pensioni a una stella, cronicario per vecchi catarrosi e alcove di puttane stagionate.
Per tornare alla chiacchiera, si diceva che persino il temuto avvocato Monaci, che aveva lo studio proprio sopra al bar e a metà mattina calava un paniere vuoto dalla finestra per tirarlo su ricolmo di tramezzini e caffè, avesse concesso la bella e giovane moglie in “comodato d’uso” ad altri signori, che gli avevano poi restituito il favore.
La fonte era un assicuratore del circondario che bazzicava il bar per cercare di piazzare qualche polizza e leggere a sbafo i quotidiani sportivi. Uomo schivo e grande fumatore, diceva e non diceva guardando lusco dietro ai suoi occhiali sottili… Lui, in qualche modo, doveva aver partecipato a quel mercato comune che celebrava la libera circolazione di beni e servizi. Ma dalle scarne parole che uscivano insieme al fumo da quelle labbra, si intuiva solo che gli scambi avvenivano tra una cerchia ristretta e distinta di persone: affermati professionisti, ricchi commercianti, insospettabili padri — e madri — di famiglia, e che le coppie della quadriglia, diciamo così, si comportavano con uno scrupolo e una segretezza degne di una setta.
Gianni e Duccio, cui il tempo non mancava di certo essendo il primo in cerca di occupazione e il secondo nemmeno in cerca, per scucire a quel carattere riservato qualche informazione in più, iniziarono a lavorarsi l’assicuratore salutandolo calorosamente ogni volta che passava al bar e punzecchiandolo sul fronte calcistico, che pareva l’unico argomento che lo rendesse incline alla confidenza. Per ingraziarselo Gianni prese l’abitudine di lasciare sempre un caffè o un amaro pagato a quel discreto avventore. Per scardinare il suo tetragono riserbo, i nostri partirono da lontano, anzi, lontanissimo: giorno dopo giorno intavolarono ragionamenti di ordine generale come il meteo, lo sport e la politica e poi, come fa il serpe col topolino, per spire sempre più strette lo avvolsero fino a morderlo con l’argomento più velenoso: lo scambio di coppia.
Era vero che…? Come si faceva per…? Ma l’assicuratore restava guardingo, ignorava gli assalti o li respingeva con risposte vaghe e deludenti. Finché una piovosa sera d’inverno nel bar rimasero in quattro: Duccio, Gianni, l’assicuratore e il barista assonnato che dava il cencio tra i piedi dei tiratardi, tante volte non avessero capito che voleva chiudere…
A dire il vero dentro al bar non erano quattro, ma cinque: in un cantuccio, rischiarato dalla luce tropicale della slot machine, c’era Remigio, un pensionato rimasto vedovo da poco, ma nessuno fece caso a lui.
Quella sera Duccio e Gianni avevano fatto bere mezza bottiglia di sambuca all’assicuratore, che era diventato più loquace del solito. Tanto che, rimettendosi l’impermeabile e accendendosi una sigaretta dentro al bar che tanto ormai aveva la saracinesca mezza abbassata, si rivolse ai due e gli fece cenno di avvicinarsi:
«Vi interessa ancora quella faccenda?».
«Naturale che ci interessa».
«Allora statemi a sentire perché non ve lo ripeto», disse impastando leggermente le parole. «Usciti dal paese prendete la provinciale. Passato il ponte, dopo il bowling, voltate a destra, sulla sinistra c’è un albergo…».
«C’era un albergo, è fallito!».
«Proprio quello. Se ci passate davanti il primo e il terzo giovedì del mese dopo la mezzanotte, vedrete che ha la bandiera dell’Europa a mezz’asta. E una volta dentro badate che non ci sia nient’altro a mezz’asta…», disse con un sorrisetto sardonico. «Troverete il cancello chiuso. Ma voi citofonate lo stesso. La parola d’ordine è: “Presidentesiamoconte”. Io non v’ho detto nulla, eh? E quando vi scade la polizza, sapete da chi venire, intesi?».
«Intesi!».
E lo dissero all’unisono anche se la macchina Duccio l’aveva venduta e Gianni usava quella della mamma.
«Ah, un’ultima cosa: non vi presentate a mani vuote… E salutatemi le vostre signore!».
Così disse l’assicuratore, e con il giornale in capo perché era senza ombrello, buttò la sigaretta in una pozzanghera e sparì sotto la pioggia. Il sorriso soddisfatto dei due sembrò colare come trucco sotto una lampada: loro non ce l’avevano le signore!
Quando l’insegna del bar si spense e la pioggia aumentò d’intensità e la saracinesca alle loro spalle si abbassò con fragore lugubre, i due si resero conto di essere in tre. Gianni, Duccio e Remigio si trovarono vicini, quasi pigiati, a cercare protezione dalla pioggia sotto la tenda gocciolante del Bar del Corso. Allora il pensionato ruppe l’imbarazzo, ma solo per sostituirlo con uno più grande.
«Scusate, per caso ho udito la vostra conversazione…».
«Per caso! Come no!».
«Sapete, ho sepolto mia moglie», disse segnandosi la croce sul petto, «che ormai è più di un mese…».
«Pace all’anima sua».
«Pace. E mi chiedevo…».
«Ti chiedevi?».
«Se… se potevo unirmi a voialtri per quella gita…».
Remigio insisteva e Gianni e Duccio, che avevano paura potesse mandare tutto a monte spargendo la voce, più per debolezza che per convinzione, alla fine acconsentirono sbrigativamente a portarselo dietro.
«Ah, mi raccomando, non ti presentare a mani vuote», disse Duccio.
«Come sarebbe a dire?».
Ma i due non risposero, e approfittando della tregua temporanea di quell’acquazzone, si dileguarono nella notte, lasciando il terzo con le sue umide perplessità.
Il giorno dopo era mercoledì, Duccio e Gianni non si fecero vedere al bar ma si dettero appuntamento direttamente al parco.
Non vi presentate a mani vuote… «Ma certo! Venite in coppia!», ecco cosa aveva voluto dire l’assicuratore! Avevano circa un giorno per rimediare. Trovare moglie al volo non era un’impresa facile (né auspicabile, a ben vedere). Fu Duccio a proporre la soluzione: rimediare due mignotte e spacciarle per consorti.
Si mise a setacciare la rubrica del telefonino e a comporre nervosamente dei numeri. Trovò una certa Rosanna, vera e propria istituzione nella zona che però si vociferava fosse uscita dal giro. Rosanna fornì anche il numero di una sua amica rumena che faceva le pulizie in un grande albergo e arrotondava con qualche extra. Si accordarono per 150 euro a testa e, prima di congedarsi, si salutarono battendo il cinque.
Che la giornata si sarebbe messa male si capì sin dal mattino quando Gianni, svegliatosi a mezzogiorno come di consueto e uscendo di casa per andare a fare colazione al bar, si accorse che la macchina della madre non c’era più. Gianni non aveva tenuto in conto che il giovedì era giorno di mercato. Sicché dovette andare al deposito, sborsare i 150 euro che aveva in tasca, e ritirare la macchina. E questo era un problema, perché di soldi non ne aveva altri. Li avrebbe chiesti alla mamma. Non ora, ma dopo pranzo, quando sulle vette della glicemia era più malleabile. Duccio invece, rimase quasi tutto il giorno sul divano a guardare sul satellite vecchie partite di cui conosceva già il risultato.
L’unico che non se la prendeva comoda era Remigio. Si era alzato all’alba dopo una notte tormentata in cui aveva fatto la spola con il bagno. Si era concesso una passeggiatina al camposanto deponendo un mazzo di fiori sulla tomba della povera moglie, poi aveva messo a soqquadro l’armadio cercando un vestito buono, ma in una giacca di piloro c’era una macchia e ormai non si faceva a tempo a mandarla in tintoria, e i pantaloni di velluto gli stavano larghi di cavallo. Mentre apriva i cassetti indispettito ripensava a Duccio e Gianni e alle loro raccomandazioni… Alla fine, la sua scelta era ricaduta sull’unico vestito elegante e pulito che aveva in casa: le gramaglie che aveva indossato al funerale della moglie. Ecco, con la cravatta rosa — l’unica già stirata — era davvero perfetto. C’era solo una cosa che non lo convinceva: che voleva dire «Non vi presentate a mani vuote?».
Siccome tanto era tutto pagato, Duccio decise di presentarsi un po’ in anticipo: in fondo se dovevano essere marito e moglie non c’era nulla di male nel conoscersi meglio. Mentre la Rosanna con le sue unghie laccate contava i soldi, qualcosa nella tasca dei pantaloni di Duccio vibrò: un numero fisso lo chiamava con insistenza, ma Duccio aveva diversi motivi per non rispondere mai ai numeri che non aveva in rubrica. Andò in bagno per le abluzioni, tornò in camera, si spogliò e si mise a letto nudo e smanioso come uno sposo la prima notte di nozze.
Poi fu la volta della sposa, per così dire, che andò in bagno a prepararsi. Ma tardava ad uscirne. Duccio, spazientito, le diede una voce. E la signora rispose con un’imprecazione. Allora Duccio andò in bagno, e trovò la signora sulla tazza, alle prese con un assorbente.
«Ecco, ma proprio oggi, dico proprio oggi mi dovevano venire?».
«No, scusa, proprio oggi lo dico io!».
La Rosanna era una vera professionista, per cui si trattenne 50 euro per il disturbo e, con l’umore che contraddistingue le donne in certi giorni, lo mise alla porta.
A Gianni non era andata meglio: la madre, spazientita per avergli già dato 150 euro appena il giorno avanti, dopo pranzo negò il prestito.
«Li spendi tutti con quelle donnacce!».
«Ti ho già detto che ci ho pagato una multa!».
E non mentiva Gianni, anche se aveva già perso la ricevuta, ma l’aveva fatto talmente tante volte che oramai la sua verità in mezzo alle bugie era come una pastiglia di liquirizia in mezzo alla merda di un gregge di pecore. Ora, senza soldi, convincere la sua accompagnatrice romena sarebbe stato molto più difficile. Mancavano un paio d’ore all’appuntamento, quando i due amici si sentirono al telefono per fare il punto della situazione. Dopo un breve consulto i due convennero che quando le giornate nascono storte, è meglio non insistere. Così decisero di lasciar perdere e tanto per non farsi vedere al bar e lasciare il dubbio che avessero avuto di meglio da fare ripiegarono sul multisala, dove davano un film di supereroi.
Si erano dimenticati di un particolare: Remigio. Nessuno lo aveva avvertito, non solo perché nessuno aveva il suo numero, ma proprio perché lui aveva il dono di risultare invisibile agli altri, proprio come era successo quella sera al bar.
Remigio si era fatto la barba due volte, si era stirato il completo, aveva aspettato la chiusura della farmacia per prendere una confezione di profilattici al distributore automatico e, avvolto in una nube di dopobarba, si era presentato al bar con quattro ore di anticipo. Vedendolo tutto azzimato, il barista lo aveva salutato affettuosamente:
«Che t’è rimorta la moglie?».
Remigio aveva cenato con un tramezzino e una spuma al cedro e si era messo a spulciare il giornale e a giocare alla slot-machine, volgendo di quando in quando uno sguardo d’apprensione verso la porta.
Allo scoccare della mezza i due sodali non si vedevano, chi si vedeva bene invece era il barista, che impilava le sedie una sopra l’altra. Che fosse saltato l’abboccamento?
Remigio seguitava a chiamare Duccio, ma il telefono squillava a vuoto. Non era che quei due bischeri l’avevano coglionato ed erano andati senza di lui per fargli un dispetto? Al solo pensiero Remigio diventò tutto rosso, pagò e uscì incontro alla notte. Si ricordava bene le indicazioni — “passato il ponte, dopo il bowling a destra, sulla sinistra c’è un albergo…” — si ricordava bene anche la bandiera dell’Europa, azzurra con le stelle giallo oro, così come si ricordava la parola d’ordine: “presidentesiamoconte”.
Proprio mentre al multisala finiva il film e Gianni e Duccio uscivano sbadigliando dalla sala, Remigio parcheggiò la sua auto tutta lustra a qualche metro di distanza dall’hotel imbandierato. E, con un vistoso fagotto bianco sottobraccio, guardandosi intorno furtivo, arrivò davanti al cancello. Suonò, si schiarì la voce e scandì la parola d’ordine. Il cancello si aprì come per magia, e Remigio, col suo fagotto bianco, si incamminò trepidante e timoroso verso la festa. Cosa aveva nel fagotto? Be’, un vassoio di paste. Un intero cabaret assortito di bignè, diplomatici, pesche all’alchermes, budini di riso e babà al rum. Perché quando si è invitati a certe occasioni, come gli avevano ricordato, non ci si presenta mai a mani vuote…