Non scorderò mai la scenata di mia madre quando le confessai che rischiavo di essere rimandato in inglese.
«Com’è possibile, scusa?».
Il suo irato sconcerto non dipendeva dalla fiducia riposta nel mio profitto scolastico su cui già da un pezzo aveva messo una pietra, ma da quella specifica materia che cinque anni di vacanze studio avrebbero dovuto rendermi perlomeno familiare.
Come spesso avveniva, la colpa venne accollata all’esuberanza intellettuale di mio fratello che, invece di ispirarmi, mi schiacciava. Che senso aveva continuare a mandarci insieme in Paesi anglofoni se, anno dopo anno, il suo inglese si faceva sempre più oxfordiano e il mio aveva il miracoloso potere di regredire?
Toccò a mio padre informarmi che quell’estate me la sarei dovuta cavare da solo. Era deciso oramai: avrei trascorso un paio di mesi presso una famiglia della costa occidentale degli Stati Uniti, senza amici né fratelli, niente leader né tutor. Soli, io e il mio zaino, come latitanti.
Ero troppo mite per oppormi alla volontà paterna. E, malgrado il dolore per la separazione da mio fratello, non osai protestare. Finché le fantasie sulla prima estate californiana della mia vita in una famiglia che immaginavo numerosa e spumeggiante come i Bradford s’impossessarono di me come una malia. Avevo sedici anni, e sebbene l’esordio nell’adolescenza fosse stato più difficile del previsto, scoppiavo di salute, testosterone e romanticismo.
* * *
Il giorno prima della partenza il telefono squillò nel cuore della notte. Trafelato corsi in camera dei miei. Il modo in cui mia madre stringeva la cornetta non prometteva niente di buono. Considerando l’insofferenza con cui annuiva, pronunciando secchi monosillabi, mi persuasi di essere l’oggetto della stupefacente conversazione telefonica. Dopo aver attaccato scosse la testa con enfasi, riservando a mio padre il suo sguardo più severo. Cos’altro avevamo combinato? Qualcosa di grave se il misterioso delatore si era sentito in diritto di violare quell’ora proibita.
«Era la signora californiana».
Lì per lì non mi domandai come mai le si fosse rivolta in italiano.
«Che voleva?».
«Salutarci e rassicurarci».
«A quest’ora?».
«A San Diego sono le sette di sera» disse dando un’occhiata all’orologio «ma non è questo il punto».
Stavolta fummo io e mio padre a guardarci, in attesa che il punto venisse svelato.
«Sono italo-americani. Lo stiamo mandando a imparare l’inglese in una famiglia italo-americana».
* * *
Atterrai all’aeroporto di San Diego uno smagliante pomeriggio di luglio del 1988. Il tentativo di mamma di sventare il colpo e farsi restituire il maltolto, mettendo di mezzo avvocati e assicuratori, non aveva sortito gli effetti sperati. Piegato in quattro nel passaporto, recavo un foglietto con i numeri di telefono di un amico fortunato (era già da una settimana in un’adorabile famiglia WASP di La Jolla) e della zia di mio padre fuggita a Los Angeles durante le leggi razziali e mai più rientrata alla base. Se la vita in casa Corleone si fosse fatta insostenibile avrei sempre avuto un paio di rassicuranti alternative.
La signora che ostentava il cartoncino con su scritto il mio nome a caratteri sbilenchi, senza alcuna pietà per l’ortografia, era in canottiera, shorts e flip flop color mandarino; l’alopecia camuffata da un maldestro gioco di prestigio a base di lacca e bigodini era quella che colpisce anzitempo certe donne sovrappeso. Feci di tutto per tenere a bada l’imbarazzo, rifugiandomi nel sorriso angelico con cui ancora oggi accolgo le calamità. In quanto a lei, fu meno abile nel nascondere la delusione.
«Sono Pina Gonzales e questa è Meredith, la mia figlia minore».
Con il rischio che la memoria mi tiri uno dei suoi scherzi sono pronto a giurare che la bimba fosse scalza. Una scimmietta dalle membra sottili e snodabili che faceva pensare alla versione disneyana di Mowgli. Almeno è ciò che pensai quando prese a zampettare avanti e indietro sui tapis roulant, mentre la madre mi raccontava la storia della sua vita. Nata a Napoli, aveva sempre vissuto a Gaeta. Era lì che aveva incontrato il padre di Meredith, Jerry Gonzales, sottufficiale della US Navy. Era al terzo mese di gravidanza quando Jerry, richiamato in patria, le aveva proposto di trasferirsi con lui a San Diego. Ottenuta cittadinanza americana e divorzio quasi contemporaneamente, Pina aveva affrontato i penosi strascichi legali provocati dalle violenze domestiche subite dall’ex coniuge, a quanto pare più interessato alla tequila che alla prosperità del suo ménage multietnico. Prima di giungere alla macchina Pina ebbe modo di elencarmi un altro novero di sconvolgenti peripezie su cui preferisco tacere. Ma ora stava bene: quello era il suo Paese e Dio solo sa se ne era fiera.
Nessun adulto mi aveva mai parlato con tale franchezza dei propri casini. Eppure niente di ciò che diceva sembrava reale. I decenni americani avevano agito sull’eloquio di Pina in modo sconcertante dando vita a un idioma variopinto che coniugava, con la grazia di un controcanto, le strutture sintattiche d’un italiano rudimentale e alcuni prestiti lessicali anglosassoni addolciti dalla dizione partenopea. Solo vedendolo capii che ciò che lei si ostinava a chiamare ’o truck era uno sgangherato pick-up bianco che associavo a film su giovani ribelli o irsuti boscaioli del Nevada.
Accovacciato sul bordo rugginoso del grande bagagliaio a cielo aperto, come un clandestino in procinto di violare il confine, affrontai la prima corsa su una free-way della mia vita in un ventoso crepuscolo californiano, sussultando ogni volta che un autotreno emetteva strazianti barriti di mammut. Il tragitto fu lungo e disagevole, ma dopotutto romantico. Quando arrivammo a destinazione — un sobborgo residenziale di casupole a schiera, pulmini Volkswagen e giardinetti brulli — il sole era un ricordo.
* * *
Non c’era niente di ospitale nel minuscolo prefabbricato che Pina aveva la sfrontatezza di chiamare home; e neppure nel comitato d’accoglienza composto dal festoso, ciarliero gineceo di signore in confronto alle quali la padrona di casa vantava una linea da mannequin.
La casa, almeno per quel che concerne la parte giorno, si esauriva in un living arredato pretenziosamente che fungeva da cucina, tinello e salone. I miei gusti di moccioso snob, cresciuto nella bambagia, furono insultati da più di un dettaglio: le tendine traforate d’un angelico color azzurro, il tavolino da caffè ingombro di monili kitsch su cui svettava un set di delfini di madreperla e, accanto alla tv accesa che non avrei mai visto spenta, la statua della Madonna a mani giunte e occhi trasognati.
A spregio dei principi di frugalità imposti dalla dieta di mia madre, le pietanze in tavola — caponate o parmigiane che fossero — erano più adatte a un banchetto nuziale che a uno spuntino di benvenuto. La mia inappetenza fu biasimata da Pina, e ancor più sguaiatamente dalle sue amiche. Per fortuna non ero la sola attrazione della festa. Al mio fianco sedeva un cerimonioso ragazzo asiatico con il tic di rimettere a posto gli occhiali che scivolavano sul naso congestionato che, a sua volta, non la smetteva di gocciolare. Meredith aveva raggiunto con lui il grado di familiarità che autorizza le bimbe maleducate a tormentare i cagnolini, e i cagnolini a grugnire rabbiosi. Ma il poveretto non grugniva, subiva le molestie con l’autocontrollo di un Samurai, alternando risolini impacciati a “nooo” dalle “o” molto chiuse.
«Chist’ diventa a primm puttannell ’e San Diego» sentenziò una delle signore, suscitando l’ilarità delle altre e spronando la bimba a perseverare. Almeno finché non fu incaricata di andare a chiamare qualcuno (con grande sollievo del giapponese). Al suo ritorno Meredith stringeva il dito a una vegliarda che sembrava uscita dal romanzo di Dostoevskij che avevo divorato in aereo: esile, sdentata, zoppa, la testa avvolta in un foulard color senape guasta.
“Mammà” esclamò Pina.
La vecchia mi squadrò con diffidenza, come se fossi l’ennesima stranezza offerta da quel grande Paese ostile e incomprensibile in cui (come avrei scoperto in seguito) era stata attratta con la promessa di chissà quale Eldorado al solo scopo di mettere le mani sulla modesta pensione d’invalidità.
Il giapponese si congedò con un inchino, seguito a ruota da Meredith (che per fargli il verso o per omaggiarlo, s’inchinò a sua volta), mentre Pina portava in tavola una brocca trasparente di vino bianco su cui galleggiavano diafani pezzi di pera.
Venni sottoposto a un serrato terzo grado: che lavoro faceva mio padre, come se la cavava mia madre ai fornelli, avevo idea di cosa fosse un tostapane o un rotolo di carta igienica. Dalla sorpresa suscitata dalle mie risposte, arguii che Pina non fosse la sola della combriccola a non mettere piede in patria da parecchi decenni.
L’imponente moka sui fornelli dev’essere un altro inganno della memoria. Non ricordo di averne mai più viste altrove di così grandi. Presto avrei imparato che Pina, italianizzando un costume americano, la metteva sul fuoco tutte le mattine: doveva bastare per tutta la giornata. Anche quella prima sera versò un dito di caffè per ciascun invitato in altrettante tazzine, e le infilò nel microonde.
Sbucò un’altra ragazza dal retro (quante stanze aveva quella topaia?). Doveva essere Jennifer, la figlia maggiore. Si rivolse alla nonna in un napoletano arcaico, e subito dopo chiese a Pina le chiavi del truck in un inglese dall’inflessione californiana. Il salto da una lingua all’altra era il correlativo sonoro della metamorfosi di un bassotto in un levriero.
Jennifer snobbò la proposta di Pina di unirsi al banchetto: un certo Ralph l’attendeva in downtown per una pizza. Conciata così, tornò alla carica Pina, rischiava di buscarsi un raffreddore. Jennifer sbuffò. Cos’altro avrebbe potuto fare?
Mentre si consumava l’atavica sfida tra madre-petulante-e-apprensiva e figlia-laconica-e-musona, io, seguendo le norme imposte dall’educazione, non avevo trovato di meglio che alzarmi in attesa di essere presentato alla nuova venuta.
Quando finalmente il mio sguardo incontrò quello della ragazza la salutai, sbrigandomi ad aggiungere che ero felice di conoscerla.
«He speaks weird» disse alla madre: tenuto conto della provenienza, il commento mi sembrò di straordinaria impudenza.
«Così parlano adesso in Italia» la rintuzzò Pina.
Convenni con Pina che la mise di Jennifer fosse più consona a una mattina in spiaggia che a una sera in pizzeria. Non a caso la stessa signora a cui era scappato l’impertinente apprezzamento su Meredith e il giapponese esclamò: «Dove credi di andare, ragazzina, co’ tutt sti zizz ’a fora?».
Subito dopo pretese un’expertise dall’unico maschio in tavola (del giapponese si erano perse le tracce). Mi schermii dicendo che certe cose non mi piacevano, nel senso che non ero solito pronunciarmi sulle tette di una mia coetanea, almeno non in sua presenza.
«Non ti piacciono le zizze? Sarai mica ricchione?».
La prima notte divisi la stanza con il giapponese. Mi cedette gentilmente il letto e si accovacciò sulla branda di fortuna allestita per me da Pina. Sebbene il suo inglese fosse persino più maldestro del mio riuscì a spiegarmi che era lì da un mese, quella era l’ultima sera, l’indomani sarebbe partito molto presto: si profuse in mille scuse preventive per il disturbo che di certo mi avrebbe arrecato. Fu talmente furtivo che all’alba del giorno dopo riuscì a sgattaiolare senza svegliarmi. Non lo vidi mai più. E chissà perché, dopo un quarto di secolo, sono qui a chiedermi che ne sia stato di lui, che vita abbia avuto quel mio mite predecessore in casa Gonzales.
* * *
Non fu difficile adattarsi al tran tran modesto e insalubre. Mandarmi in villeggiatura in uno squallido sobborgo di una grande città della California meridionale, non avendo io ancora diritto alla patente di guida, non era stata la scelta più assennata che i miei genitori avrebbero potuto fare. In compenso però mi avevano dotato di una scintillante American Express per le emergenze. Be’, se non era questa un’emergenza! Così, quasi ogni mattina mi facevo lasciare da un taxi nello spiazzo di fronte al grandioso mall in mezzo al deserto (a quel tempo, almeno, una meta esotica per un adolescente romano). Ciondolavo per ore in quel dedalo di soppalchi, negozietti e scale mobili, sperperando soldi dei miei genitori in fast food messicani e action movie dalle trame tanto lineari quanto implausibili.
Restavano i pomeriggi. Mai sottovalutare le risorse di un nerd proscritto. Avevo i miei Balzac e un altro paio di Dostoevskij, ma soprattutto i quaderni e la stilografica con cui già da mesi attendevo alla stesura del capolavoro romanzesco che avrebbe dovuto riscattare, entro e non oltre la maggiorità, l’adolescenza in cui mi ero trovato imprigionato.
Quando le muse mi abbandonavano (già allora erano amanti piuttosto volubili) sedevo in veranda con Caterina, questo il nome di mammà. Ormai eravamo una coppia affiatata: due esuli strappati alla stessa patria lontana. Sebbene invidiasse l’approssimarsi della fine del mio confino, non ero io l’oggetto privilegiato dei suoi mugugnanti strali; bensì Isaac (il cognome giace nella fossa comune del ricordo), il tizio impegnato all day long nella ristrutturazione del pidocchioso giardinetto di Pina. La sensazione è che agisse alla maniera di Penelope: più lavorava meno faceva progressi. Con grande scorno di Caterina che, dalla sua ombrosa veranda, non smetteva di insolentirlo: «Fetente, strunz’». Isaac non le dava mai troppa corda. Solo quando lei si placava, lui si divertiva a stuzzicarla con quei «Hey, grandma, how you doing today» che ravviavano la macchina ingiuriosa: «Fetente, strunz’…».
Lo charme di Isaac si avvaleva della strabiliante somiglianza con Leslie Nielsen, attore sugli scudi per il fresco trionfo planetario di Una pallottola spuntata. A torso nudo e in bermuda jeans, i capelli immacolati dalla riga impeccabile, Isaac svolgeva i suoi compiti con indolenza e senza alcun sussiego. Ogni tanto entrava in casa e si serviva da bere, facendo imbestialire Caterina.
«Lascialo stare, mammà» provava a rabbonirla Pina «chill’ è scostumato».
«Nooo» tuonava Caterina «chill’ è scem».
Il siparietto tra madre e figlia si ripeteva quasi ogni giorno come un rito, l’importante è che mammà, sulla questione, avesse sempre l’ultima parola: così, se Pina dava a Isaac dello scemo, per Caterina era scostumato. Quando Pina lo accusava di essere scostumato Caterina si sbrigava a rettificare: «Nooo, chill è scem».
* * *
Ho letto non so più dove che ricordare una cosa significa ricordare l’ultima volta che l’hai ricordata. Questo significa che ogni ricordo, soprattutto se nitido, è un subdolo impostore. Lo dico perché ciò che sto per narrare è così scolpito nella mia memoria da farmi diffidare della sua veridicità. So che era notte, e dato che in California le notti sono fresche è probabile che la finestra della mia camera fosse chiusa. Un’altra cosa che posso affermare con ragionevole sicurezza è che fui svegliato da un improvviso trambusto proveniente dal corridoio. E visto che all’epoca avevo il vizio di lottare contro l’insonnia ascoltando la musica, ci sta che io per prima cosa abbia spinto il tasto Play dello stereo portatile. Da sempre i rumori notturni sollecitano la mia natura di struzzo, inducendomi a immergere la testa nella bolla sonora del primo brano musicale a disposizione. Con uno sforzo di fantasia potrei persino allestire una playlist plausibile (anche i miei gusti musicali non sono così mutati). Peccato che il tramestio giunto dal corridoio si facesse sempre più molesto e persistente, al punto da sovrapporsi alla musica. Provai ad alzare il volume, ma niente, là fuori stava accadendo qualcosa che non potevo ignorare. Con tutta la circospezione di cui ero capace spinsi Stop, uscii dal letto e brancolante mi approssimai al nucleo delle mie inquietudini. Il tempo che impiegai per farlo è dilatato dalla memoria.
Se oggi, dopo quasi venticinque anni, provo a riaprire quella porta (la notte fatidica ci riuscii solo dopo vari tentennamenti), il quadro che mi si para davanti non è meno sconcertante di quanto mi apparve allora. In fondo al corridoio c’è Meredith in slip e T-shirt che guarda la nonna, la quale, a una manciata di passi di distanza, singhiozza come l’eroina di una tragedia greca informata dal Coro della sopraggiunta morte dell’eroe. Se ne sta lì, mammà, in terra, protetta dall’oscurità e da un’antiquata camicia da notte, accampata vicino alla camera di Pina, da cui giungono rumori sinistramente sincopati. Avrei la tentazione di richiudere la porta (il mio imbarazzo non è mai venuto meno), ma il dado è tratto.
Più mi avvicinavo a Caterina più i rumori si facevano inequivocabili: i gemiti di Pina formavano un perfetto contrappunto con i grugniti scurrili di Isaac. Già, se la stavano proprio spassando.
Mi chiedo se l’ansia che mi assale ripensandoci non dipenda anche dall’esito grottescamente fallimentare dei miei investimenti romantici. Altro che Bradford! I Gonzales, soprattutto in quel momento, mi sembravano la cosa più lontana dai Bradford che si potesse concepire: una vecchia rancorosa che, sotto gli occhi della nipotina, singhiozza a ridosso di una porta oltre la quale quella bagascia della figlia sta scopando il suo attempato boyfriend. Eccole qui le mie California girls: hanno poco in comune con le bellezze balneari celebrate dalla celebre canzone dei Beach Boys, di recente tornata in auge grazie alla cover di David Lee Roth.
Sentendo come ci davano dentro quei due, capii anche perché la ristrutturazione del giardinetto andasse così per le lunghe, e perché, sebbene non abitasse poi così lontano, ogni tanto Isaac si trattenesse a dormire in casa Gonzales sul divano in salone.
A un certo punto, sconvolto dalla vista di Caterina in quello stato, e dal modo in cui Meredith la guardava, afferrai la vecchia per il braccio e feci per sollevarla. Mi aspettavo che si opponesse con maggior vigore. E invece si arrese senza batter ciglio. La guidai fino alla sua stanza rispettando il suo passo claudicante. Prima di chiudermi la porta in faccia, mi mise addosso gli occhi velati dalla cataratta del pianto, e con un filo di voce che non smette di straziarmi, m’implorò: «Portami via, ti prego, portami via con te».