Carla si sedette, aveva trentacinque anni. Le pareti erano giallo chiaro, c’erano altre sedie, vuote. Non si sentiva un rumore anche se Termini era così vicina. Il portone si era aperto con uno scatto, così la porta, non aveva incontrato nessuno. Le tremavano le mani e non poteva fare niente nell’attesa, leggere una rivista, controllare il telefono, distrarsi. Aveva solo paura. Fuori, c’era un balconcino che dava su un cortile interno cupo, la stanza era buia, lei odiava il buio e odiava stare sola, sul balconcino c’era una pianta verdissima, senza fiori, sembrava finta e lei aveva la testa come un cuscino troppo imbottito, imbottito di troppi pensieri, neri. Come si poteva aspettare ancora. Quello che doveva succedere, che succedesse; subito. Si strinse le mani, rigirò la fede, la tolse, la infilò di nuovo. Che stava facendo suo marito in quel momento. Non riusciva a contenere il tremore, si alzò.
Per sposarsi avevano dovuto chiedere il permesso ai genitori di Carla, lei aveva sedici anni, Vito qualche anno in più di lei. I genitori di Carla erano giornalisti, lui un uomo dai capelli chiari e lo sguardo dolcissimo, sempre silenzioso, lei alta, una visione, Carla pendeva da sempre dalle loro labbra. Vito era giovane, forte, e affettuoso con entrambi. Splendeva sorrisi e gesti carini senza risparmiarsi. A cena a casa loro si stringeva Carla. Questa ragazza è unica, non vedo l’ora di sposarla. Erano gli anni Novanta, sembravano i Sessanta. Si parlava di matrimonio, di figli che sarebbero venuti. Carla annuiva raggiante, non aveva mai visto un ragazzo, un uomo così. Al matrimonio il padre di Carla si commosse, una lacrima precipitò giù, la vide solo Carla, il padre di Carla si mise gli occhiali da sole, sorrise di quel sorriso dolce che in tutta la vita Carla avrebbe visto fare solo a lui. E aveva degli occhi, quel padre, colmi di tenerezza e una vena di dolore. Eppure cosa c’era da soffrire? Il mondo era meraviglioso e Carla aveva trovato la sua strada.
Nella stanza gialla, Carla mise una mano sulla porta. Ritrovare Carla, pensò, chissà dove sono finita. Spinse la porta. La mano tremava. Finalmente si sentì un rumore dalla strada. Un tram passò e la stanza tremò. Spinse ancora la porta, non si aprì.
Dopo il matrimonio, per un periodo avevano vissuto a Massafra, città d’origine di Vito, traboccante di familiari suoi. Si erano sistemati a casa della sorella di lui, Mimma. Il loro primo figlio, Nicola, era appena nato, Vito aveva insistito perché lei andasse a partorire lì. Mimma aveva ristrutturato la casa da poco — una casa enorme, buia come la notte, fredda come il freddo che aveva lei adesso. La casa era pronta, ma gli operai non avevano ancora montato le maniglie alle porte. In ogni stanza, allora, Mimma aveva collocato un paio di forbici da inserire nella serratura per aprire. Se ti dimenticavi le forbici fuori, in un’altra stanza, non potevi più uscire. C’erano così tante forbici, Mimma se le portava nelle tasche della sua veste larga, paesana. Aveva un seno enorme, non portava mai il reggiseno. Il seno le arrivava all’ombelico. Una volta c’era Nicola che piangeva in una stanza, e Carla chiusa per sbaglio, senza forbici, in un’altra. Quando Vito era tornato, Mimma gliel’aveva detto. Lui era arrivato da Carla, lei allattava. Le aveva dato uno schiaffo.
Carla spinse più forte, non aveva forza, non aveva niente, finalmente la porta si aprì cigolando. Si affacciò sul corridoio, non c’era nessuno, solo i soliti poster, ebbe più freddo, più paura, tornò dentro, richiuse in fretta la porta. E se mi lasciassero qui per sempre? La luce al neon tremò nella stanza gialla. Carla alzò gli occhi ed era inverno e voleva sentire il caldo del sole. Quanti schiaffi, pugni, calci mi ha dato Vito in questi diciannove anni? Mettiti a contare, si disse, così ti passa il tempo. Uno, due, disse ad alta voce, dieci, venti, disse, cento, duecento, disse, mille, duemila, poi le girò la testa. Si sedette. Aveva freddo. Voleva il sole. Prese una rivista, le cadde a terra.
C’era il sole, il giorno in cui se n’era accorta. Era cominciata con delle telefonate strane, Vito si alzava da tavola, o dal divano, e rispondeva in un posto in cui nessuno poteva sentirlo. Poi aveva preso a tornare a orari strani, a fare cose strane. Una volta il telefono aveva squillato e aveva risposto Carla perché lui non c’era, il telefono squillava, lei stava facendo il bagnetto a Rosa, la loro seconda figlia. Vito avrebbe dovuto essere in casa ma per un contrattempo sul lavoro non era ancora tornato. Lavorava in banca, era amato e stimato, guadagnava bene. Lo stimavano tutti, in realtà. Parenti di Carla e Vito, amici, conoscenti, colleghi. Chi era davvero, Vito lo faceva vedere solo a lei. Non chi era davvero, si disse seduta con le mani in grembo, ma l’altra persona che lui era. Abbiamo mai smesso di amarci?
Rispose al telefono con Rosa in braccio, avvolta nell’accappatoio di una fatina rosa, il cappuccio aveva delle orecchie gialle, c’erano cuoricini dappertutto. Pronto. Le rispose una voce di donna, C’è Vito, disse, No, torna tra un’oretta, Allora richiamo, grazie, Mi può dire il suo nome per favore?, ma quella aveva chiuso. Carla si era dovuta sedere perché i muri stavano crollando, e il tetto stava crollando, e l’intero isolato stava crollando, e Roma. Pronto, C’è Vito, No, Allora richiamo, Mi può dire il suo nome, silenzio. Quanto era stata stupida. I segnali c’erano tutti e quel giorno c’era un bel sole fuori, si stava caldi ma non troppo, era primavera, una bellissima primavera profumata, Vito aveva un amante da chissà quanto tempo e Carla si alzò, uscì sul balcone di casa loro — casa di Vito, e della famiglia di Vito — con la bambina in braccio, alzò la testa e chiuse gli occhi per farsi baciare dal sole. Poi le vennero di nuovo meno le gambe, si lasciò andare a terra con la bambina, Rosa, stretta tra le braccia.
Saltò sulla sedia quando squillò il campanello della porta. Le venne un tuffo al cuore. Allora esiste ancora qualcuno sulla terra, si disse. E attese. Ma sentì solo il rumore della porta che si apriva, e basta, nemmeno dei passi, nemmeno una voce, C’è nessuno, disse a voce bassa, perdeva il controllo, la voce le tremava. Non veniva nessuno.
Sua madre era morta quando Nicola aveva cinque anni, Rosa tre. Pallida e febbricitante tra le coperte, era sempre bellissima. L’ultima cosa che le aveva detto era stata, Abbi cura di te. Suo padre era morto l’anno dopo, si è lasciato andare, avevano detto i medici, non aveva più la forza di vivere dopo la morte della moglie. E io?, aveva pensato Carla fuori dalla stanza in cui suo padre moriva. Non sono abbastanza io, per farti rimanere in vita? Chi mi protegge adesso, chi avrà cura di me. Ed era sempre Vito.
Quello che la proteggeva, che aveva cura di lei, e quello che la picchiava senza sosta. Che cos’è la gelosia? Una lente rosso scuro che ti metti sugli occhi e il mondo è tutto rosso, un rosso pastoso, e tu vedi solo rosso. Così era Vito. Perché suo padre, perché sua madre, non l’avevano salvata? Perché sei tu che non ti sei voluta far salvare.
Voglio il divorzio, disse Carla ad alta voce. Lo amo tantissimo, disse. Lo odio tantissimo. Non passava nessun tram, non si sentiva una voce, non ce la faccio più ad aspettare, doveva fare qualcosa, ma non se ne poteva andare. Si alzò di nuovo. Aprì il balconcino. Nel suo piumino nero, rabbrividì. Gelò. La pianta verde tremò per il vento. Prese una sigaretta. Non fumava da tre settimane. Si mise la sigaretta in bocca. Vito poteva essere anche molto buono. Accese la sigaretta come un gesto definitivo.
Com’era stata bella quell’estate in Salento, lontano da tutti, solo loro quattro, Vito, Carla, Rosa e Nicola. Nicola aveva dieci anni, Rosa otto, e per due settimane Vito era stato tranquillo. Avevano cenato una sera in una trattoria a Torre dell’Orso. Avevano mangiato i ricci, i frutti di mare, il provolone, gli spaghetti con le vongole. Né Carla né Vito amavano mangiare pesce ma lì sembrava così buono. Nicola mangiava a quattro palmenti, rideva. Rosa si faceva togliere le vongole e chiamava quel piatto “al sapore di vongole”. Avevano giocato a nomi, cose e città tutti insieme come non facevano da mesi, anni. Vito era come sempre bellissimo.
Fumò. Poi fumò un’altra sigaretta. Le venne da vomitare, si sentiva così debole. Si sedette, non si sentì meglio. Ma non poteva muoversi da quella stanza, sarebbe stata la fine.
La fine viene col divorzio, e Carla era stata da un avvocato che le aveva consigliato la sua ex amica Anna. Non troppo alto, un po’ troppo in carne, ma simpatico. La casa sarebbe rimasta a lei. Non la voglio quella casa, la disprezzo. L’avvocato si toccò i baffi e annuì. Poi continuò. I figli sarebbero stati con lei. Carla aveva conservato tutte le denunce a Vito. Vito avrebbe dovuto pagare, e l’avrebbe pagata per tutto. Ma lui si può permettere i migliori avvocati, aveva detto Carla. Mentirà. Qui non c’è da mentire o non mentire, qui le carte parlano, disse l’avvocato un po’ risentito. Nella stanza gialla, a quel punto, doveva parlare con qualcuno. Non c’era nessuno. Un vaso azzurro su un mobile di legno tremò, come per una piccola scossa di terremoto ma non c’era niente. L’avvocato aveva aperto un fascicolo su cui c’era il suo nome, Carla Romano, aveva detto, Sistemiamo tutto, le aveva sorriso rassicurante e Carla aveva pensato, adesso si occuperà lui di me. Era uscita dallo studio dell’avvocato piena di speranza.
E adesso, era qui. Era successo quello che era successo, e lei per la prima volta in vita sua aveva preso una decisione da sola, si era sentita forte quando l’aveva presa, saprò prendermi cura dei miei figli anche da sola, sono una brava madre, sono una brava donna, sono una brava moglie; io, Nicola e Rosa vivremo felici, prenderemo una casa più lontano possibile da quella del loro padre, io in quella casa non metterò piede mai più. Vito non sapeva ancora niente. Né dell’avvocato, né della decisione che l’aveva portata nella stanza gialla. In quella casa non metterò piede mai più. Se lo ripeté allora, mentre la forza le veniva meno. Non aveva forza da un po’. Da tre settimane. Da quando aveva scoperto di essere incinta una terza volta, di un figlio non programmato, un figlio venuto proprio quando lei aveva trovato la forza per lasciare Vito. Un figlio che avrebbe avuto due fratelli troppo grandi, Nicola aveva diciotto anni, Rosa sedici, era uno splendore di adolescente, biondissima come sua madre, come la madre di sua madre, come la madre della madre di sua madre. Però era una ragazza chiusa, attaccata a Vito come fosse il suo unico, grande amore. Attaccata a Massafra e ai suoi parenti, chissà come avrebbe preso il divorzio. Chissà come avrebbe vissuto senza suo padre. Chissà se ce l’avrebbe avuta per sempre con lei, Carla. Nicola era più forte.
Non c’era spazio per quel bambino. Non poteva averlo proprio ora che aveva deciso di andar via. Perché è successo proprio ora, proprio ora che ho la forza?
Ma ora aveva forza per tutto, anche per un aborto. Sì, disse Carla, è la cosa giusta. Non c’è spazio per questo bambino. La decisione ormai l’aveva presa. A Vito non aveva neanche detto che era incinta. L’avrebbe passata liscia, per una volta. Avrebbe fatto una cosa per sé. Avrebbe abortito. Anche se l’avessero lasciata in quella sala d’attesa, in quello studio medico per sempre. Per farmi cambiare idea. Tutti congiurano per farmi cambiare idea. Ma non ci sarebbero riusciti, lei sarebbe andata fino in fondo. Non c’era spazio per quel bambino. Doveva divorziare. Doveva divorziare per i suoi figli, e per se stessa. E al bambino non doveva pensare mai più. Chissà se quel bambino era femmina o maschio? Chissà se anche lui sarebbe stato biondo? Non pensare. Chissà che nome gli metteremmo, se lo lasciassimo nascere. Vorrei una femmina. Dovremmo chiamarla per forza Maria Addolorata come la zia di Vito, ma in famiglia la chiameremmo Mara. Le squillò il cellulare, lei sussultò, si sentì un rumore fuori dal corridoio, qualcuno mise una mano sulla porta, la maniglia, molto lentamente, girò, la porta fece per aprirsi, e al telefono era Vito.