Eravamo in questa casa che aveva una terrazza enorme ed era il compleanno di qualcuno» diceva. E noi ci ricordavamo o credevamo di ricordare la gente che ballava e i denti colorati da lampade di Wood. Jeans molto strappati e cappelli da gangster a nascondere le stempiature. Doveva essere l’anno in cui andavano di moda i braccialetti con i pendagli, sentivamo un casino di braccialetti tintinnati sui bicchieri con il ghiaccio, e tatuaggi abbinati a eyeliner viola, brillantini sugli zigomi e sui tavoli. Le ragazze con i piedi nudi nei sandali e la pelliccia. «Di colpo lei era dietro le vetrate e le superava venendo verso di me. Aveva piegato la testa, stordita ma anche raggiante» diceva. «L’avevo già vista, sapevo chi era. Sapevo che non andava mai alle feste e veniva da un’altra città. Mi era passata accanto senza andare da nessuna parte di preciso. Ed è lì che l’ho sentita. Una scossa lancinante tra le scapole, glaciale ma anche torrida. C’era qualcuno che gridava “Domani sarete tutti morti”. Non mi aveva sfiorato, ma sapevo che era venuta per me.» E a questo punto del racconto anche quelli di noi che non erano stati a quella festa giuravano di ricordare di averlo visto scavalcare i corpi che ballavano, nuotare tra i cubi di polistirolo e i vasi con le palme. «Ero consapevole che tutti ci stavano guardando ma anche che nessuno riusciva a vedere la risata che lei tratteneva per me. Le ho detto “Stai con me per sempre!”. Sì, era una scena un po’ drammatica, lo ammetto. “Certo” ha detto lei».
Raccontava questa storia con il coraggio che a noi sarebbe sempre mancato di essere apertamente romantici. Noi allargavamo sorrisi furbi e buttavamo indietro la testa lasciando cadere qualche battuta cinica che smorzasse l’amore e il ricordo delle lampade di Wood. Spiavamo Camilla dall’altro lato del tavolo, imperscrutabile. Poi sarebbe arrivata tutta la vita, la casa in campagna e i cani, le bottiglie di vino costoso, i figli dai nomi letterari, i corsi di sci e le macchine, i gioielli riparatori, la porta del bagno chiusa a chiave e l’acqua che scorre. E noi amici avremmo invidiato per sempre il modo in cui ci avrebbero lasciato sulla porta un minuto di troppo per poi aprirci con il sorriso benedetto di chi ha appena fatto sesso, dicendoci «siete arrivati, che meraviglia, dai entrate!» riempiendoci le mani di bicchieri e baci. Avremmo seguito per anni la complicità cretina con cui i loro occhi si agganciavano nel mezzo di una stanza chiassosa, il loro modo di restare in contatto mentre chiacchieravano con noi e accarezzavano la testa ai bambini, dispensavano lei sorrisi, lui fragorose risate. Avremmo seguito l’evolversi delle loro feste: le stanze più grandi, gli alcolici di migliore marca, la musica più quieta, ma sempre quello stropicciato disordine delle stanze, l’idea di essere piombati inaspettati ma benaccolti che faceva sentire chiunque a proprio agio e insieme diceva che loro non si curavano troppo di noi. La voce di Tommaso allegra e contagiosa, la bellezza inattaccabile di Camilla. Li avremmo visti diventare vecchi e ancora sparire nel sottoscala per infilarsi le mani sotto i vestiti senza riuscire a resistere — la prova della propria esistenza nella carne dell’altro. Sarebbero morti un giorno, prima di tutti noi, e noi ci saremmo seduti sul divano delle nostre case deserte o alla scrivania dell’ufficio, chiudendo la porta e tenendoci la testa tra le mani, pensando al tempo felice della nostra giovinezza, all’amore e alle lampade di Wood e allora — solo allora — avremmo capito che c’è una fine.
Questo abbiamo sempre pensato. Il giusto dispiegarsi della storia che Tommaso amava raccontare mentre stringeva le spalle di Camilla con il suo avambraccio poderoso, da ragazzino cresciuto a lezioni di tennis e biscotti con le vitamine. La raccontò anche il giorno del suo compleanno, quando vivevano insieme da quasi un anno, e Tommaso arrivò che c’eravamo già tutti. Bagnato fradicio e con le guance scarlatte. «Ho fatto tardi al lavoro» disse, e poi era corso, senza pensare alla pioggia o ai vestiti zuppi, fino alla pasticceria francese che piaceva a Camilla. Teneva in mano una reliquia di torta alluvionata e lei l’aveva baciato e gli aveva tolto l’acqua dai capelli e dagli occhi con un gesto che trovammo eccitante e materno insieme, e lasciò la torta dove stava.
Un mese e mezzo dopo Camilla scomparve.
Cos’è successo? chiedevamo stupidi. Lo chiedemmo per un po’. Poi la polizia stabilì che si era trattato di una fuga, “una sparizione volontaria” dissero, e le parole e i nostri discorsi persero senso. Non riuscivamo più a chiedere nulla. Nemmeno come fosse potuto accadere, di chi fosse la colpa, quali erano i dettagli che ci erano sfuggiti.
Di colpo ci accorgemmo di sapere pochissimo di loro, dei nostri cari amici. Avevamo solo una manciata di racconti scintillanti e iperbolici, sempre quelli, e le risate scroscianti di Tommaso. Il sorriso inespugnabile di Camilla. Eppure il loro corpi… La mano che Tommaso non riusciva a trattenere quando le passava accanto, il modo in cui le stringeva il collo da dietro e l’impazienza, soprattutto quella, con cui lei lo reclamava nel bel mezzo di una cena o di un pic-nic estivo. Incuranti del mondo attorno. Attratti l’uno verso l’altra da una legge più forte di quella che tiene insieme le galassie. E ora? I buchi neri possono risucchiare le galassie, ci insegnano, e Camilla era sparita. Lasciandoci frastornati e troppo impauriti per sporgerci sul bordo a cercare un fondo o le vere ragioni. Che fine aveva fatto l’amore? E i racconti dell’amore?
Tommaso, l’esuberante e gagliardo amico della nostra giovinezza, il benedetto dalla sorte e l’invidiabile, ora faticava a infilarsi sotto la doccia (qualcuno di noi rimaneva fuori dalla porta del bagno). Non l’avevi previsto? avremmo voluto chiedere. Non c’è stata nemmeno un’avvisaglia, uno smottamento sotto la superficie? A letto l’hai mai sentita piangere? Niente. Tommaso non sapeva niente di lei, a parte quel racconto che faceva sempre. E noi avremmo voluto prenderlo per le spalle e scuoterlo. Com’è possibile? avremmo voluto chiedere.
Adesso stava seduto sulla sedia di plastica in terrazza e guardava il benzinaio di fronte, il vaso con la pianta di limone che stava morendo. Le nostre visite si fecero più penose, più rare. La tensione crebbe estesa per qualche mese, poi calò.
Anche se non ce lo dicevamo, ci sentivamo fregati. Avevamo creduto a una storia, una storia d’amore per giunta, e lui ci aveva ingannati. Non bisognerebbe mai iniziare a raccontare una storia se non si conosce il finale, se non si conoscono i personaggi meglio di come conosciamo noi stessi. E invece la fine era arrivata fuori tempo, interrompendo la trama troppo presto e lasciandoci confusi, delusi anche. Eppure non osavamo abbandonarlo del tutto: lì, invisibile ma forte, c’era l’attaccamento alla nostra giovinezza e sapevamo che se ci fossimo dimenticati di lui, se l’avessimo lasciato naufragare voltando le spalle, qualcosa di nostro sarebbe andato in rovina.
Le settimane chiarirono che Tommaso non stava solo soffrendo. La scomparsa di Camilla, la totale assenza di spiegazioni o appigli, la sua irraggiungibilità stavano facendo svanire i contorni delle cose. Non era più sicuro di conoscere le stanze in cui si aggirava, le nostre parole rimbalzavano come un’eco e lui le guardava sbattere nell’aria senza afferrarne il senso. A volte si fermava a vedere un quadro appeso alle pareti e si chiedeva chi l’avesse messo lì, che diavolo significasse. Non ricordava. Senza il corpo di Camilla, iniziava a dubitare della sua stessa esistenza. Svaporava. Non si faceva domande, se non una: perché il suo racconto non aveva funzionato? Funzionavano sempre le storie che raccontavano quegli stupidi scrittori che pubblicava, tutta gente meno sveglia, meno forte, meno ottimista e lungimirante di lui. Camilla a volte la notte lo teneva sveglio per leggergli ad alta voce alcune pagine. «Così perdi i particolari» gli diceva, mentre lui le infilava la mano tra le cosce. «Ti ascolto, non perdo niente». E lei premeva il corpo contro il suo, e le parole si mescolavano alla saliva e agli occhi spalancati, si perdevano nell’aria e tornavano.
Quando io, con le chiavi di casa che mi aveva consegnato con precauzione e scaramanzia, entrai per portarlo con me a una scialba festa di mezza estate, trovai le stanze buie. Un buio rarefatto, le serrande abbassate. L’odore appiccicoso di piedi sudati e frutta marcia, il pulviscolo diffuso. C’era troppo silenzio per provare a chiamarlo. Lo cercai in camera, il letto mai più sfatto e il comodino terrificante da quella parte del letto. I due bagni, gli spazzolini, la spugna nel pavimento della doccia comprata in un viaggio in Grecia mesi prima. Il salotto, mi accorsi solo in quel momento, era costellato di segni di Tommaso. Le foto notturne alle pareti, lo schermo sproporzionato del televisore, il divano di stoffa nera, la poltrona in pelle anche questa nera, i libri, tutti volumi di scienza e politica letti a metà, i cd di jazz che Camilla detestava. Mi accorsi in quel momento che tra le foto che riempivano le pareti non c’era nemmeno uno scatto di Camilla, nemmeno uno di quelli che erano diventati famosi, acquistati da ereditieri con fiuto per il talento. Nessuna traccia delle sue luci sovraesposte, i colori tenui, l’azzurro e il verde che indossava, i romanzi americani che leggeva. Il Regno di Tommaso regnava incontrastato.
Lo chiamai piano, l’aria era densa di polvere e di afa. Chiamai ancora. Poi mi ricordai della terrazza. Era lì, ne vidi il profilo e le scarpe ammucchiate ai piedi della sedia, il tavolino con le sigarette e il posacenere vuoto. Sembrava concentrato su qualcosa, come quando cerchiamo di ascoltare un sussurro che ci sfugge, un sospiro che significa molto dietro le piastrelle del bagno.
Solo quando gli arrivai vicino, nella luce bruciata della sera, vidi che teneva in mano una foto. Era la pagina di un libro strappata, una riproduzione dozzinale. Un ragazzino con la tavola da surf gialla, i capelli già bagnati, che si volta assorto verso l’obiettivo alle sue spalle. Sta per entrare in acqua, è concentrato, e qualcuno, una ragazza o un amico più grande, ha gridato il suo nome inaspettatamente facendolo voltare. C’è la data del compleanno di Camilla di qualche anno prima. Happy Birthday, nessuna firma. Non so dire se si trattasse di una foto scattata da lei, certo i colori, un certo mito di adolescenza salutista e fragile, le corrispondevano. L’azzurro quasi bianco del cielo d’acqua, il giallo sbiadito dei vestiti estivi e delle rose, e l’eternità di tutti i ragazzini che stanno per tuffarsi. L’aria di mare e malattia che rende i bambini imperscrutabili e lontani.
Tommaso teneva in mano la foto, cercando di vedervi le risate e i richiami. Litigi a tavola, una lenta carezza. Un uomo ossessionato da dita che mancano la presa sul polso. Com’era Camilla quel giorno? Chi era quell’uomo, perché tendeva a pensare che si trattasse di un uomo e non di una donna, che ostentava un’intimità inimmaginabile e che comunque non aveva avuto il coraggio di firmarsi? E poi si fece buio e io vidi Tommaso chiudere gli occhi. Un ragazzo con indosso solo i pantaloni di un pigiama si affacciò dalla finestra sopra il benzinaio e sbirciò la strada in attesa di qualcuno che doveva arrivare. Lo osservai ancora, seduto sulla sedia di plastica. Stendeva le braccia davanti a sé, apriva e stringeva i pugni nel vuoto mentre se ne stava lì impalato in attesa.