Nel 2017 avevo sette anni. Ho ricordi confusi, che si alternano a immagini nitide, scene isolate: io col cane in campagna, io che riempio la ciotola del cane, io che entro nel portone di scuola e mi giro, e mentre gli altri salutano le mamme, mamme sorridenti, io saluto la tata. Ho trascorso l’infanzia prevalentamente con Svetlana. Cosa ricordo di mia madre?
Il mio cane si chiamava Pluto. Viveva in campagna, e quando sono nata io lui già c’era. Biondo, alto, incrocio collie e pastore belga. Lo aveva trovato papà sulla strada sterrata in cima ai poggi. Dice che aveva il segno della catena al collo. Malnutrito, maltrattato. Ecco perché risultava così aggressivo. Una volta con noi, abbaiava a chiunque entrasse in casa. Ringhiava, si metteva sulla porta per impedire l’accesso, in genere scattava pronto ad azzannare. Ai bambini non fa niente, garantiva papà, coi bambini è protettivo. Con te poi… pensa che da neonata si metteva ai piedi del lettino! Non permetteva a nessuno di avvicinarsi, guai a chi ti toccava.
Mamma non era della stessa idea: tenetelo lontano dalla bambina, prima o poi succede qualcosa. Finisce male, si era convinta, qui finisce male. Arrivò a impuntarsi: fuori da casa mia. No, replicava papà, no, piangevo io, non puoi separarmi dal mio cagnolino, è l’unica cosa che ho al mondo.
Pluto viveva nella casa in campagna dove noi andavamo per vacanze e fine settimana, di fatto era accudito dai custodi, non rappresentando per noi alcun impegno, finanche responsabilità, di lui a noi toccava la dimensione festosa, nient’altro. Accolti sul cancello, inseguiti lungo il viale di cipressi, travolti sul prato. Abbaiare festoso, coda scodinzolante, balzi. Si comporta da cucciolo — spiegava papà — non sa di essere grande. Mamma mi tirava per un braccio: non vedi che è pericoloso.
Che ricordi ho di mia madre?
Lei odiava Pluto. Odiava l’animale con cui io passavo le giornate all’ombra al sole, distesi seduti, pancia sopra pancia sotto. Diceva a mio padre che non si rendeva conto del pericolo, quella bestia era aggressiva — diceva — poteva uccidere, lei lo vedeva dagli occhi, ha gli occhi iniettati di sangue. Pur di non imbattersi in lui, rimaneva chiusa in camera, cosa che forse avrebbe fatto ugualmente, cane o non cane. Anche a Roma passava molto tempo in camera. Certe volte io m’intrufolavo senza bussare, salivo sul letto, e la guardavo: che fai? Lei alzava la testa dal cuscino: tanta gente mi vuole male, diceva piano. Perché, mamma? Provavo io. Scrivono cose brutte su di me.
Mia madre era scrittrice di quattro romanzi di un successo inferiore alle sue aspettative. Sono la migliore, piangeva nei momenti peggiori. Questo Paese è arretrato. E se ci trasferissimo in America? Si rianimava di colpo. Come se in un Paese dall’altra parte del mondo potessero apprezzarla. Laggiù, lontano lontano, esisteva qualcuno che l’avrebbe capita. Anni dopo al suo tu non mi ami, avrei gridato che era lei a non far nulla per essere amata, mi dicesse un gesto, un solo gesto d’amore compiuto per qualcuno che non fosse uno sconosciuto al fine di sedurlo, affiliarlo a sé, per poi abbandonarlo. È solo questo che ti dà piacere, mamma, abbandonare le persone.
E dunque di mia madre nell’infanzia ho pochi ricordi. Siamo in spiaggia quando inizia a piovere, e io corro fuori dall’acqua, e la tata mi avvolge nell’asciugamano, e fuggiamo. Mia madre non c’è. C’ero, mi dice lei anni dopo, come puoi non ricordarti? O per la recita di Natale dove io sono un angelo, e mamma a fine spettacolo viene dietro il palco e dice che sono stata un angelo speciale, diverso dagli altri, oh io sono nata per fare l’angelo. Non ero io, mi corregge quando rievoco il momento. Quel giorno lei era a Milano, non poteva essere lei. Doveva essere Svetlana, o la maestra Evelyn. E perché, la bambolina di pezza che è diventata la mia preferita perché me l’aveva regalata mamma? La bambolina da cui non mi separavo mai, anche se non faceva niente, non piangeva, non parlava, non camminava, eppure era la mia bambola, la bambola che in segreto chiamavo Teresa, Teresa ti cambio il vestito, Teresa andiamo a ninna, Teresa, ti prego, non lasciarmi sola.
Oh no no, assicura mamma oggi, non te l’avevo regalata io, era un regalo di zia Gaia.
Sicura?
Lei fa sì con la testa: cento per cento.
Eppure esiste un giorno in cui ricordo bene che lei c’era, e chiarissima si srotola di nuovo e di nuovo nella mente la successione degli eventi, persino la posizione di mia madre, dove stava e cosa faceva. Ricordo un giorno in cui lei c’era. E c’era davvero.
Sai che penso, Gaia? Che se oggi morissi, molta gente sarebbe felice, si lamenta mia madre al telefono.
Seduta sulla poltrona del giardino, una gamba sopra il bracciolo, il piede nudo che dondola nel vuoto, continua: con tutte le persone che ho aiutato in vita mia…
Laggiù, a pochi metri da me, evanescente nella luce estiva. Compare sempre così nei miei ricordi, figura a metà — forse c’era, forse no —, tanto che a volte mi chiedo se sia esistita davvero, o non sia stata solo un’invenzione della mia mente,
un’apparizione lieve che basta ch’io mi volti, ed eccoti sparire, mamma.
Non quel giorno, quel giorno c’era, esisteva davvero, ci sono persone a poterlo confermare: tua madre era lì, non si rese subito conto, se solo avesse visto in tempo.
Invece lei non era attenta, sulla poltrona, a parlare al telefono — ricordi quando ho prestato i soldi a Letizia? Cos’erano mille, duemila euro, e lei oggi che fa?
Discute di questo mia madre quando Pluto mi salta addosso per togliermi la bambolina dalle mani. Io ho sette anni. Ricordo con precisione di avere sette anni, e di sprofondare nel verde ondeggiante del prato, un verde senza fine, senza fondo, e la voce petulante di mia madre in lontananza: il bene che fai ti torna indietro come male…
Ho sette anni quel giorno d’estate in cui il mio cane, amatissimo cane tenta di strapparmi la bambola con la bocca, e io m’irrigidisco, perché adesso non mi sembra più il mio cane, ma un cane, solo un cane. E stringo la bambolina, stringo forte Teresa al petto, per proteggerla, perché so che lui potrebbe farla a pezzi, e io non lo permetterò, nessuno deve toccarla, passate sul mio cadavere. Il cane allarga le fauci, vuole proprio lei, cerca ancora di tirarmela via coi denti, e io mi divincolo, e lui sopra di me, come un essere umano vero, tutti gli uomini che anni dopo, molti anni dopo, mi ameranno. Lottiamo, lottiamo, finché il cane mi afferra il polso, e affonda i denti. Allora io urlo mamma. Mamma, imploro. E mia madre alza lo sguardo, a distanza di qualche metro, non abbastanza lontano però. Mia madre vede la sua bambina assalita dal cane, e il polso insanguinato, e le urla, e la preghiera: mamma mamma. Ecco, mia madre vede tutto e non si alza. Rimane seduta laggiù, dieci/quindici metri da me, comunque non così lontana da giustificarti, mamma. Il telefono le cade dalle mani. E lei immobile, gli occhi fissi su di me, sapendo che può azzannarmi, quella bestia può anche uccidere, e voi non lo capite. Teresa Ciabatti non si muove, non ne è capace. L’unica azione che riesce a compiere dopo qualche istante è urlare il nome di mio padre. Antonio, sul prato ondeggiante, verde senza fondo, lungo i cespugli di lavanda, fin su alle cime dei cipressi di questo giardino meraviglioso che è casa nostra, Antonio, urla fortissimo.