Mi sfugge il motivo per cui Francesco Poroli – perdonatemi, ma io lo chiamo Ciccio – mi ha chiesto di scrivere queste righe di introduzione al suo bellissimo Like Kobe, un libro (un libro?) che come sottotitolo sfoggia Il Mamba spiegato ai miei figli. Lui ne ha due, bellissimi, per cui forse la cosa migliore era che questa introduzione fosse uscita direttamente dalla sua penna – che Ciccio è bravo anche a scrivere, oltre che a disegnare. Io invece di figli non ne ho, motivo per cui non capivo. Ma poi forse mi sono dato una spiegazione. Perché non ho figli ma ho una foto, che tengo ancora oggi disordinatamente esposta in casa, in cui sono abbracciato – entrambi sorridenti – proprio a Kobe Bryant. Entrambi anche molto più giovani, va detto. Lui con un mini-afro e io con un’improbabile camicia bianca con il collo alla coreana. Era il 1997 d’altronde, parliamo di venti anni fa esatti. Piazza Castello, Milano, metà settembre, ho una memoria che fa schifo ma quel momento me lo ricordo davvero bene. Perché io grazie a Tullio Lauro avevo appena iniziato a scrivere di basket NBA (per Magic Basket, una testata che la pallacanestro americana la voleva raccontare – toh! – a bambini dai 6 ai 15 anni) e lui aveva appena terminato la sua prima stagione nella NBA, la prima di quelle che poi sarebbero diventate venti, anche se al tempo forse non poteva immaginarselo. L’annata da rookie era stata tutt’altro che memorabile a dire il vero, perché a 18 anni nel mondo dei grandi non è facile cavarsela anche se di te si parla un gran bene. Così bene che comunque – al termine di un campionato chiuso con meno di 8 punti di media in poco più di 15 minuti in campo – il ragazzino con il n°8 e la gloriosa canotta gialloviola dei Lakers è comunque il protagonista di un tour estivo in giro per il mondo che tocca necessariamente anche l’Italia, dove Kobe aveva vissuto da ragazzino al seguito di suo padre Jelly Bean, impegnato come straniero nel nostro campionato di Serie A. In quel 1997 Kobe Bryant non era ancora Kobe Bryant, avvicinarlo era possibile, perfino abbracciarlo e scattarci una foto assieme, ma se su un diciottenne venivano già dirottate tutte quelle attenzioni qualcosa di speciale in quei 198 centimetri doveva sicuramente esserci.
E difatti.
Quello che è stato capace di diventare quel giovane ragazzo col mini-afro e un sorriso da prima pagina sbarcato in Italia un giorno di settembre lo potete scoprire semplicemente sfogliando questo libro. Ci trovate tutti i numeri della sua carriera, le vittorie e le sconfitte, i momenti da ricordare e le curiosità che lo riguardano – insomma, tutto quello che c’è da sapere sull’avventura sportiva di uno dei più grandi campioni degli ultimi anni. Ma dove questo libro diventa realmente speciale – come speciale è stato Kobe Bryant – è nelle invenzioni grafiche di Ciccio. Ne valgano come esempio due su tutte, che ho trovato folgoranti perché combinano la bellezza del tratto artistico alla centralità del concetto che sono chiamate a illustrare.
La prima racconta uno dei numeri più importanti nella carriera del Black Mamba, il 20 – perché venti come detto sono state le stagioni da lui disputate in carriera e perché tutte venti Bryant le ha trascorse indossando un’unica maglia, giocando per un’unica squadra: i suoi Los Angeles Lakers. Una franchigia titolare di uno dei loghi più iconici del mondo sportivo americano, conosciuto da tutti ma qui reinterpretato su diverse tonalità di viola e impreziosito da un mix di palme & nuvole, dove il sole che sempre splende sui tramonti californiani si sdoppia nel pallone che Bryant tiene in mano, in procinto di battere il proprio avversario con un crossover assassino.
Ero convinto di aver trovato la mia illustrazione preferita di Like Kobe salvo dovermi ricredere sfogliate solo altre quattro pagine, quelle sufficienti a imbattermi in un profilo geometrico del viso di Bryant, con la scritta ossessione a occuparne tutta la parte posteriore. Ecco, in questa tavola c’è davvero riassunto tutto, tutto quello che serve per capire Kobe e tutto quello che serve per apprezzare appieno il talento di Ciccio. Perché se la definizione che lo stesso Bryant dà alla parola in questione è corretta – «Ossessione? Facile. Significa amare quello che stai facendo» – allora i mondi apparentemente lontani dei due protagonisti di questo libro di colpo si toccano e finiscono per sovrapporsi. Perché Ciccio ama alla follia quello che fa – disegnare, illustrare – ed è quindi giusto dire che ne sia ossessionato. In modo sano. In modo bello. Come Kobe Bryant con la pallacanestro.