L’ Empty Quarter (Rub’ al Khali in arabo), che lambisce la città di Abu Dhabi, è la più vasta distesa ininterrotta di dune del pianeta. Occupa un terzo della penisola araba. Le sue vette di sabbia, rosse di ferro, raggiungono i 300 metri di quota. Conquistarle a piedi, sollevando a ogni passo etti di granelli pulviscolari, sotto il sole del Tropico del Cancro, è una fatica improba. Compensata dalla discesa. Si affonda fino al ginocchio e ci si lascia andare senza paura, nonostante la pendenza superi i 50 gradi, perché qui la materia ha uno stadio intermedio tra il solido e il liquido. Metro dopo metro si guadagnano velocità e un certo senso di invulnerabilità, di onnipotenza.
In From Rags to Riches Mohammed Al Fahim ricorda che fino agli anni 60 ad Abu Dhabi si viveva in capanne di palma e si beveva acqua salmastra. Il primo ospedale ha aperto nel 1967. L’industria del petrolio aveva iniziato a espandersi. Nel 1971 l’emiro di Abu Dhabi Sheikh Zayed, le cui gigantografie col sopracciglio sinistro inarcato oggi tappezzano strade e palazzi, convinse altri sei capi tribù a fondare gli Emirati Arabi Uniti, di cui fu presidente fino alla morte nel 2014. Ora il Pil nazionale è tra i più alti del mondo e tutto sembra possibile. Perfino aprire i templi occidentali dell’arte in una capitale, Abu Dhabi City, che ancora nel 1962 contava appena 3.564 persone.
Se per Elias Canetti il simbolo di massa dei tedeschi è la foresta, rigida e dritta, e degli inglesi il mare, fluido e pericoloso, qui negli Emirati sembra sia il deserto a plasmare tutt’ora anime e cose. Il miraggio e l’ambiguità delle forme, la tradizione orale che muta il ricordo di bocca in bocca, ospitalità e diffidenza da spazi selvaggi e disabitati, quando bastava rifiutare un caffè nel majlis di una tenda (in arabo “salotto” e “consiglio”) per dichiararsi ostili e accettarlo per dichiararsi amici, l’amore-odio per il vuoto.
Il polo museale in riva al mare, in costruzione su Saadiyat Island, è un’ambiziosa celebrazione architettonica dello spirito del deserto. Nel progetto di Norman Foster, lo Zayed National Museum è fatto di penne di falco metalliche, in onore dell’animale totem dello sceicco e della nazione, usato per la caccia tra le dune. Il Guggenheim di Frank Gehry, col suo incastro di coni inclinati, si ispira alle torri del vento che aiutavano i seminomadi a respirare nelle estati torride. Jean Nouvel ha riparato il Louvre sotto una cupola che evoca gli intrecci delle foglie di palma, fino a pochi anni fa agognate ombre per i beduini. Oltre allo spazio per mostre temporanee Manarat al Saadiyat, già funzionante, il Museo Marittimo di Tadao Ando e il Performing Arts Centre di Zaha Hadid completeranno il distretto. Il Louvre, dopo vari rinvii, sarà la prima esposizione permanente a inaugurare, l’11 novembre. L’accordo con i francesi, del 2007, prevede contaminazioni e simmetrie tra i più diversi contesti culturali della storia universale, in uno spirito di comunione tra i popoli. Le opere saranno più di 700.
Dalla statuetta di una principessa battriana del III millennio a. C. a A Young Emir Studying di Oman Hemdy Bey del 1878, da un braccialetto mediorientale con testa di leone di tremila anni fa a Paul Gauguin e Piet Mondrian fino a Cy Twombly.
Lo spirito ecumenico permea anche la Gran Moschea dello sceicco Zayed, voluta dal padre della patria, seppellito qui prima che fosse completata nel 2007. Di marmo bianco macedone, con ottanta cupole e minareti (una volta, fari negli oceani di sabbia) da 107 metri, capace di ospitare 41mila persone. Il tappeto da 5.691 metri quadrati è stato annodato da 1.200 donne iraniane, le ceramiche dei bagni per le abluzioni sono turche, i vetri di Murano, i cristalli di Swarovski. Il lampadario centrale è una palma a testa in giù: l’albero della vita che, con i suoi datteri rossi, verdi e gialli, nei grami tempi non così antichi prometteva la prossimità di una fonte.
Una fonte, Abu Dhabi, lo è diventata per orde di espatriati che vedono inaridirsi le rispettive economie di provenienza. La popolazione è di 2,8 milioni di persone, all’80 per cento stranieri. Il subcontinente indiano la fa da padrone e distanziandosi dal centro non è raro imbattersi in quartieri dormitorio e in operai, impiegati nelle miriadi di cantieri, che si appostano in corrispondenza dei dossi di rallentamento per chiedere un passaggio più facilmente. Non mancano nemmeno gli occidentali. «Ho avuto per 16 anni un ristorante stellato a Salice Terme. Con la crisi del 2008 ho smesso di lottare con prezzi e burocrazia», dice Ivan Musoni, executive chef del Park Hyatt di Saadiyat Island, a capo di 75 cuochi. «Dopo una lunga esperienza a Dubai mi sono trasferito qui, perché c’è qualcosa di vero. Vedete là?», indica i cespugli che puntellano la spiaggia dell’hotel. «Là ci depositano le uova le tartarughe». La battigia dell’isola rincorre il mare per nove chilometri. Non è un lenzuolo bianco come quelle della vicina Dubai: ha un che di imperfetto, di vivo, e gli esemplari umani sono in numero accettabile. Certo, i cantieri, giù giù fino al distretto culturale, si susseguono come altrettante promesse di resort. Ma Arabella Willing, biologa marina del Park Hyatt, spiega: «Noi ci assicuriamo che la natura selvaggia non venga compromessa. Salvaguardiamo soprattutto il delfino indopacifico e la tartaruga embricata. Lo scorso inverno ne abbiamo ricoverate 50 nel centro di riabilitazione. Le sere d’estate teniamo le luci rosse del roof top bar, a due passi dal mare, molto basse, perché le femmine che depositano non le scambino per la luna, loro bussola».
La città, a differenza di Dubai, si sviluppa più in largo che in alto, ed è attraversata da corsi d’acqua tra foreste di mangrovie. Il tentativo di armonizzare i ritmi del progresso con quelli della natura si concretizza pure nelle torri gemelle ecologiche Al Bahar, i cui pannelli a nido d’ape in vetro e ceramica schermano le facciate quando batte il sole per dischiudersi al tramonto. Però la cultura resta l’asso di briscola che Abu Dhabi intende giocarsi nella silenziosa competizione turistica con i più rutilanti vicini. Oltre ai celebri marchi dell’arte occidentale, ci sono centri multifunzionali come Warehouse421. «Abbiamo aperto nel 2015, all’interno di due ex magazzini industriali dello storico quartiere Mina Zayed», dice il programming manager Faisal Al Hassan. «Esponiamo, supportiamo e incoraggiamo l’interazione tra artisti, designer, musicisti e performer, locali e internazionali. Coinvolgiamo cittadini e visitatori nei nostri “Wednesday at Warehouse”, con proiezioni di film, dibattiti, work-shop e concerti».
Chi vuole immergersi in un più classico lusso arabo, potrà bere un drink all’aperto in uno dei bar nella zona franca di Yas Marina, dove si corre il Gran Premio di Formula 1, con vista sul rosseggiante parco tematico Ferrari World.
Questa è la città più sicura del mondo per il terzo anno consecutivo. Sembra sonnacchiosa, in realtà è a misura d’uomo», spiega Umberto Bernardo, viceambasciatore italiano ad Abu Dhabi. «Come i milanesi hanno la seconda casa a Santa Margherita, qui i locali ce l’hanno nell’oasi, ad Al Ain, a 160 chilometri da qui».
Se un tempo per fuggire alla calura della costa in cerca di acqua fresca si impiegavano sette giorni di cammello, ora bastano due ore di strada asfaltata per raggiungere quella che è diventata una città da mezzo milione di abitanti, al confine con i monti brulli dell’Oman, dove gli europei scarseggiano e spesso le donne indossano l’abaya nera o il burka, in origine riparo dalla sabbia per gli occhi, in pelle di dromedario dorata. L’animale non è solo materia da burka. Era latte, carne, nave del deserto, ombra. Nel mercato di camelidi di Al Ain, tra l’odore di caprone e i versi gutturali dei prodotti in vendita, le bestie all’asta vengono mostrate su una piattaforma di pietra, poi fatte passeggiare in cerchio. Puoi portarti a casa un adulto per 4mila dirham e un cucciolo per la metà. Come si sceglie un buon dromedario? «Gli guardi la faccia, e poi le gambe. Come a una donna», dice Ahmed, settantenne autoctono, in abiti tradizionali e occhiali scuri, che di dromedari a casa assicura di averne venti. Il centro città è tutto occupato da un’enorme oasi di palme da dattero, irrigate con l’antico sistema aflaj e su cui i coltivatori si arrampicano con una corda. Ci sono suk autentici, siti neolitici patrimonio Unesco e Al Jahili Fort, il palazzo di paglia e fango eretto nel 1891 dove nacque lo sceicco Zayed.
Ma il deserto, il ventoso demiurgo che ha modellato la nazione, lo si conosce nel resort Qasr al Sarab, a due passi dal confine saudita. Collegato ad Abu Dhabi City soltanto da un rettilineo di duecento chilometri come un frutto appeso all’albero della civiltà con un sottile picciolo, riproduce l’architettura tradizionale ed è immerso in una sconfinata distesa di dune giallorosse, da visitare in fuoristrada o in dromedario.
HOTEL E LOCALI
Dune, shisha e contaminazioni
1 — PARK HYATT
Saadiyat Island, Abu Dhabi
+ park.hyatt.com
Un marchio che difficilmente delude. Di certo in questo caso: servizio perfetto, spiaggia intatta, ottimi ristoranti.
2 — CIPRIANI
Yas Marina 1 St, Yas Island, Abu Dhabi
+ cipriani.com
Classici interni di Cipriani, con legno e oblò. Cucina italiana e giapponese. Molto tranquillo tranne durante il Gran Premio, che si corre lì vicino.
3 — QASR AL SARAB
1 Qasr Al Sarab Road, Abu Dhabi
+ qasralsarab.anantara.com
Un gioiello di comfort in pieno deserto. Struttura in stile tradizionale, escursioni, belle camere, tre ristoranti.
4 — ASIA DE CUBA
Corniche Road, St. Regis Hotel
+ asiadecuba.com
Locale sulla Corniche frequentato quasi solo da residenti. Lampade colorate, tavoli sulla sabbia, buoni drink, musica latino americana – come da aspettative – in sottofondo.
5 — DAWRINA
Vicino al KM Hypermarket, Al Hili, Al Ain
Bar tradizionalissimo nel quartiere di Al Hili: tavoli all’aperto per fumare shisha davanti alla Champions. Solo autoctoni. Non una donna, non una birra.
6 — ROTANA
Zayed Bin Sultan St, Al Ain
+ rotana.com + tradervics.com
Buon hotel nel cuore di Al Ain con un folle ristorante tutto hawaiano, il Trader Vic’s.
TRASPORTI AEREI
Ospitalità come nel tradizionale majlis