La parco giochi sul golfo Persico e dormitorio di lusso per expat a caccia di stipendi anabolizzati, Dubai si sta trasformando in una vera metropoli del terzo millennio. È entrata nella sua era post mall. Fioriscono concept store indipendenti, si aprono aree pedonali per lo shopping a cielo aperto come Boxpark e City Walk. Si stratificano nicchie e subculture, si sedimentano tradizioni urbane, ci si ritrova freelance. Dice Qais, giovane architetto palestinese proprietario del co-working Tech Arc, nell’art district di Alserkal Avenue: «Le grandi società non hanno più il monopolio delle ambizioni. I ragazzi cercano di diventare loro stessi dei brand. I freelance si stanno moltiplicando a vista d’occhio. E, con loro, nuovi gusti e nuovi bisogni».
Per il viceambasciatore italiano negli Emirati Umberto Bernardo, tra i ventenni le t-shirt “I ❤︎ Dubai” ormai competono con quelle “I ❤︎ NY”. Il miraggio mediorientale è ancora più febbrile, fluido e fantasmagorico del vecchio American Dream. Pochi immigrati sono certi di vivere in città per il resto della loro vita. Ricercano la gioia dell’istante con piglio professionale, stimolano la secrezione di dopamine con metodo da tecnici di laboratorio. Con l’edonismo, qui, non si scherza. C’è perfino Happiness Street.
Su Kite Beach, i locali hanno nomi come Operation Falafel, Happiness is Home Made, Burger Fuel. Nelle parole di Shawn Stephens, responsabile di public relations per i marchi del lusso occidentale, residente nell’emirato e conoscitore delle perle nascoste in città, «il sogno di Dubai sta vivendo la sua fase Rem». Tanto che, nel Bikers Cafè di Jumeirah, può capitarti di incontrare un tipetto anonimo in abiti tradizionali che ti dice di essere stato il primo emiratino a scalare l’Everest, ma che lo emoziona di più volare con un trabiccolo a elica insieme a Paulo Dybala. Tu rispondi: «Sì, certo». Poi controlli il suo Instagram: Fazzasky3. E dici: «Ah».
BILLIONAIRE
Taj Hotel, Burj Khalifa Blvd, Dubai
+ billionairemansiondubai.com
Uno va a Venezia e si aspetta di vedere gondole e archi trilobati. Va a New York per taxi gialli e grattacieli novecenteschi. Va a Dubai e si aspetta di vedere esattamente quello che c’è al Bilionnaire Mansion di Flavio Briatore: la celebrazione dell’edonismo. Sui tavoli: champagne e barolo, caviale e aragoste. Tra i tavoli: acrobati e ballerini, maghi e mangiafuoco. «Grazie ai grandi spazi che occupiamo nell’hotel Taj possiamo offrire un intrattenimento molto vario. Dalla shisha terrace al club, dalla cucina giapponese a quella italiana. Spettacoli sopra e sotto il palcoscenico del ristorante, perché qui la gente è abituata a passare ore col tovagliolo sulle gambe e intanto va fatta divertire», dice l’imprenditore piemontese. Nelle sale, i blazer occidentali si alternano alle kefiah bianche. A unirli, è il rispetto di un rito che in città vanta una tradizione ormai trentennale, quello del lusso. Che sta a Dubai come la corsa dei tori sta a Pamplona. «Ma questa è anche la metropoli più completa del momento», dice Briatore. «Sicura e piacevole, posizione strategica, ottimi servizi, buoni affari e fiducia nel futuro».
LAST EXIT
+ lastexit.ae
Se David Lynch ambientasse un film in Medioriente, è verosimile che lo farebbe qui. Ventiquattro furgoncini di metallo colorato che servono street food (falafel, pollo fritto, tacos, hamburger ecc.) 24 ore su 24, nel bel mezzo del vuoto desertico, appena al di qua del confine con Abu Dhabi. Lo stile è America anni 50. Ci sono un tirassegno e una pista di auto per i bambini. Nell’area picnic interna, jukebox e flipper. I lavandini sono a forma di copertone e i rubinetti pompe di benzina. Dice Omar, responsabile delle relazioni con il pubblico: «Il nome Last Exit esprime allo stesso tempo la posizione e il concetto». Se il misterioso concetto di Last Exit lascia pensare a un passaggio per la Loggia Nera di Twin Peaks, di certo la posizione è strategica: «Non si fermano solo automobilisti in transito», dice Omar. «C’è chi viene apposta sia da Dubai che da Abu Dhabi, perché la qualità del cibo è eccellente».
JUMEIRAH BEACH
Il fotografo scatta un palloncino sulla battigia. Forse i piedi di una trentenne araba entrano nell’inquadratura. «Cancella quella foto o ti pianto un casino. Non hai la minima idea di chi sia mia madre». Jumeirah è anche questo. La spiaggia è bianca e senza una sola sterpaglia, l’acqua è calma e a temperatura corporea. I locali affacciati sulla sabbia curati e sfarzosi. Dietro, si alzano i grattacieli residenziali da decine di piani. Sul lungomare c’è un piccolo luna park con rane e gorilla di peluche. Alla fine ti chiedi se i dromedari legati sulla spiaggia non siano androidi. Jumeirah è un miraggio post moderno. Una perfetta post beach per l’era della post truth.
KITE BEACH
Umm Suqeim, vicino a Jumeirah Beach, Dubai
+ kitebeach.ae
È incorniciata da una pista da jogging di gomma. Ci sono oasi digitali con palme di plastica, wi-fi e prese per la ricarica; nonché gabbiotti che distribuiscono libri (quasi tutti in arabo), le Dubai Beach Library. Ci sono i campi da beach volley e, ovviamente, gente che fa kite surf. «Il vento soffia soprattutto da Nord», dice l’istruttore Sam, siriano, in settimana impiegato all’Abu Dhabi Islamic Bank. «La spiaggia il venerdì si riempie di persone. Vanno a pregare nelle moschee qui a due passi e poi si buttano sulla tavola. Il pasto migliore è là». Indica il Salt: muri di vetro e ottimi hamburger.
ALSERKAL AVENUE
Street 8, Al Quoz 1, Dubai
+ alserkalavenue.ae
Una fabbrica per la lavorazione del marmo diventata distretto creativo. I ragazzi si spostano in monopattino tra warehouse e Ferrari parcheggiate. «La riconversione è iniziata nel 2007», dice l’indiana Ambika Rajgopal, responsabile della comunicazione. La prima galleria ad aprire fu Ayyam, di proprietà di svizzeri siriani, ma ci sono anche gallerie francesi come Custot. «Le opere non figurative sono più vendibili – spiega Ambika – e quelle politiche scarseggiano quanto i nudi». Il polo ospita pure Gulf Photo Plus, principale centro fotografico cittadino, rivenditori di Porsche usate; lo spazio multifunzionale Concrete; concept store per feticisti delle sneaker come The Good Life Space e co-working come A4 o Nadi al Quoz.
INTERSECT BY LEXUS
Difc, Gate Village 7, Dubai
+ lexus.ae
VIDA DOWNTOWN
Mohammed Bin Rashid Blvd, Dubai
+ vida-hotels.com
MISS LILY’S
Sheraton Grand Hotel, Sheikh Zayed Rd, Dubai
+ misslilys.com
A Dubai lo svago si è convertito al politeismo, l’opulenza non è più il suo unico dio. Oltre ai mastodonti in vetrocemento, ci sono boutique hotel come il Vida Downtown, con dimensioni e sorrisi a misura d’uomo, qua e là tocchi quasi nordeuropei. Poi, il Dubai International Financial Centre (Difc): un crocicchio di vie pedonali in cui si alternano ristoranti, bar e gallerie d’arte. Qui, l’affinamento del gusto locale si esprime in realtà come Intersect by Lexus (format replicato anche a Tokyo e New York), progettato dal designer giapponese Masamichi Katayama. Interni in bambù, musica funky soft dal vivo, librerie, mostre di arte contemporanea, cibo e drink sofisticati. In città c’è perfino un coloratissimo chiringuito giamaicano: è il club Miss Lily’s, originario dell’East Village, con molto hip hop e molto rum e nessun turista.
THE WORKSHOP
45 23 B St, Dubai
+ theworkshopdubai.com
COMPTOIR102
102 Beach Rd Jumeirah 1, Dubai
+ comptoir102.com
Al piano terra di The Workshop, aperto a dicembre, ci sono mostre d’arte, laboratori di gioielleria, gruppi di lettura e un healthy caffè. Di sopra, pianoforti art nouveau, divise da guardie circasse, carabine e giradischi, foto autografate di Micheal Jackson abbracciato a una scimmia. Dice Ghada Kunash (in alto a destra), la creatrice del concept store, già archeologa in Giordania e proprietaria di una galleria nel Kempinski di Dubai. «Riciclo la bellezza. Voglio che questo posto sembri sempre incompleto, perché la clientela cittadina non si annoi. L’unica limitazione è dover servire champagne analcolico nei vernissage, perché non siamo dentro a un hotel».
«Lavoriamo per trasformare l’immagine della città. Che è anche ricerca, cultura, cibo biologico», dice Carolina, di Ginevra, giornalista e co-proprietaria di Comptoir12. Il ristorante serve prodotti coltivati da un’imprenditrice tedesca nel deserto, le sale espongono capi e chicche di design scandinavi, il gusto complessivo è molto francese, bohémien.