
50 ANNI DA “PACHA” Il nome fu un’idea della prima moglie di Urgell: «Chiamalo Pacha e vivrai da tale». Così è stato: in queste pagine, fotografie dell’Hotel Pacha e dell’ufficio di Urgell all’interno della “casa payesa” che occupa club e ristorante. In un dettaglio, il formidabile volume “El Baile”, edizione celebrativa dei 25 anni del gruppo, proprio 25 anni fa
Attraversando l’isola da capo a capo – comprese le sue due propaggini “ultra-marine”: da un lato i 382 metri di altitudine di Es Vedrà, il dente roccioso avvolto dalla mistica di terzo polo più magnetico del pianeta; dall’altro il Tagomago, l’isolotto privato prediletto da rockstar e calciatori (Cristiano Ronaldo lo affitta abitualmente; Gareth Bale l’ha scelto per dichiararsi alla futura moglie) – si percepiscono le motivazioni estetiche che hanno portato l’isola a essere contesa per centinaia di anni. Ibiza nasce fenicia, come Ibusim, nel VII secolo avanti Cristo, per poi diventare romana, vandala, bizantina, saracena (Yebisah) e infine catalana sotto il nome di Eivissa, prima che con la messa al bando del catalano da parte del caudillo Francisco Franco si passasse all’attuale dicitura. La natura primigenia dell’isola è ben visibile fin dalle prime raffigurazioni del dio Bes, una divinità mascolina di origine egizia rappresentata come allegra e panciuta, talvolta ostentante i propri organi genitali, sempre e comunque danzante.
È un’isola di una bellezza singolare anche nel contesto mediterraneo, con cale e calette che si aprono improvvisamente dopo boschi e pinete fittissime, con un campo profondo che si alterna a masie antichissime e villaggi cristallizzati nel tempo. È anche un’isola che ha conosciuto la miseria più nera: nemmeno mezzo secolo fa gli ibizenchi erano considerati poco più di muertos de hambre non soltanto nel continente iberico ma anche nella vicina Maiorca, allora regina incontrastata delle Baleari.
Le cose sono cambiate, se è vero che Ibiza è ora semplicemente il posto più di moda al mondo nonché uno dei più costosi: e alla stagione turistica da record dell’anno scorso è seguita quella ancora più ricca di quest’anno. Eppure i successi commerciali di oggi si fondano su uno strano spirito migratorio di ieri, quando un manipolo di “disadattati” senza quattrini la scelse come porto franco di vita alternativa, aggiungendo il suo nome al grand tour hippie che già annoverava San Francisco, Katmandu, Amsterdam e Goa.
Quella fu la base della ricchezza dell’isola: la gente, le persone che la scelsero quando nessuno la sceglieva. Los pioneros li chiamano qui, e se l’estate 2017 ha visto la scomparsa di un pilastro del gruppo dei “primi”, Angel Nieto, il grande campione di motociclismo, nessuno più di Ricardo Urgell incarna la isla degli inizi, di quando oltre i confini della città vecchia era tutto campo.
Urgell, barcellonese di famiglia e di nascita, è arrivato a Ibiza nel 1968, dopo aver aperto la prima discoteca Pacha a Sitges nel 1967. Nell’anno dei festeggiamenti per i 50 anni della marca Pacha, Urgell ha deciso di vendere il 90 per cento del gruppo per una cifra intorno ai 350 milioni di euro. Lo incontriamo nel suo ufficio storico, all’interno della stessa masia che occupa anche il club e il ristorante. Dietro la scrivania campeggia un immenso bianco e nero del Pacha Ibiza al momento della sua apertura: un punto bianco sperduto nei prati, davanti il mare.
«C’è un’Ibiza che non ha nulla a che vedere con l’Ibiza comune e popolare la cui immagine è venduta nel mondo. La volgarità dei milionari di oggi sommata alla crescita sovrumana cui l’isola è stata sottoposta e a una certa mediocrità generale della cultura spagnola, ha fatto sì che lo spettacolo ora non sia dei migliori. Questo era un mondo sperduto, una meraviglia. Quando sono arrivato senza un soldo nel 1968 il Pacha non aveva telefono, l’acqua la portavano con le cisterne e tutti avevano vaticinato il fallimento perché per venire da me si sarebbe dovuto prendere la macchina, un’assurdità per quei tempi».
Però anche il Pacha è cresciuto a dismisura: dai 450 metri quadrati originari agli oltre 2.500 di oggi: «Sì è vero, abbiamo dovuto seguire la moda dei super-club, anche se ho voluto che il Pacha mantenesse la sua identità di casa payesa ibizenca. Ma non è l’unico aspetto che abbiamo dovuto accettare. Quel che più mi è dispiaciuto negli anni è aver visto stravolto il senso della discoteca, che io chiamo el baile, perché si suppone che ci si venga a ballare. Il ballo è alla base della storia dell’umanità. Da che si combattono guerre, si lotta per la sopravvivenza, ci si sposa e si procrea, la gente ha sempre ballato. Oggi mi domando che cosa abbiamo contribuito a creare: la notte ibizenca ha perso la propria anima. Oggi è una notte di bobos (tonti), è come andare alla partita di pallone: la gente non balla, si limita ad alzare le braccia al cielo e a fissare il dj, cosa peraltro incomprensibile dal momento che i dj sono tutti orribili».
Non li ama, i dj: «E ci mancherebbe, i dj hanno rovinato la notte, sono i responsabili del fatto che la discoteca abbia perso identità. Qui si veniva per condividere, per stare insieme, per ridere e anche per rimorchiare, perché no, ma mai e poi mai per mettersi a fissare dalla pista un tipo che mette i dischi». A 80 anni compiuti Urgell non pensa a ritirarsi. «Ora rimarrò per un periodo qui al Pacha a gestire la transizione e poi proverò a cambiare il concetto di divertimento perché già abbiamo passato 20 anni con la cosa dei dj ed è ora di voltare pagina». Di certo non gli mancano le risorse: «No anzi, ora ho così tanto denaro che non so che farmene. Avere molti più soldi di quelli che si necessitano è immorale».
Come Urgell, anche tutti gli altri “pionieri” mantengono quest’atteggiamento bifronte nei confronti della Ibiza di oggi, di infinito amore ed estrema delusione da un lato e di fiducia incondizionata sulle capacità taumaturgiche della isla dall’altro. Un qualcosa di intangibile e superiore che per esempio porta Carlos Martorell, il giornalista/pr/viveur più rappresentativo degli ultimi 50 anni di vita ibizenca a sostenere due cose apparentemente antitetiche: «All’isola rimane quel nonsoché che ti fa dire in un aeroporto: “Questo qui sta andando a Ibiza”, un segno distintivo tanto evidente quanto inspiegabile», e poi: «Negli anni 70 c’eravamo noi, le pecore nere; oggi è arrivato tutto il gregge».