Due operai comunali, con spazzoloni e secchio d’acqua insaponata, lustrano la statua di Lenin davanti alla stazione Finlandia. Qui, il futuro presidente del consiglio dei commissari del popolo calpestò di nuovo la terra natale, nell’aprile del 1917, dopo gli anni di esilio europeo. Gli addetti alle pulizie sono tra i pochissimi pietroburghesi a perpetuare la memoria della Rivoluzione. Curano in particolare i baffi del bolscevico e la sua mano destra tesa in avanti, di taglio, minacciosa. Gli altoparlanti diffondono Čajkovskij, rivoli di schiuma colano a terra, un carlino lecca e rigurgita. «Quando porti un sogno per terra si trasforma in farsa – dice Marina Jigarkhanyan – o in tragedia». È la direttrice del Misp, museo dell’arte del XX e XI secolo di San Pietroburgo. «Fino al 3 dicembre ospitiamo la mostra Diritto al futuro. Cento artisti internazionali propongono la loro idea di rivoluzione, a un secolo da quella che ha cambiato il mondo», continua, di fianco a un furgone anni 60. Fa parte dell’arredamento del cortile interno. Che prima di essere del Misp era della centrale di polizia. «Qui hanno interrogato Raskol’nikov», sorride Jigarkharyan. Ma se il personaggio di Dostoevskij si pentiva di avere ammazzato la vecchia, la città fa finta che la vecchia Russia non sia stata soppressa proprio qui.
«Chi se ne frega di quella rivoluzione». Maria, architetto di ventotto anni, sta sorseggiando un gin tonic. «Noi abbiamo il re da quasi vent’anni». Coerentemente, il pittore pietroburghese Igor Baskakov ha riprodotto un manifesto di Putin, che recitava: «Il nostro Presidente», togliendogli la P: «Il nostro Residente» (Naš Resident). Baskakov sovrappone agli spot della propaganda comunista i simboli del capitalismo. Stalin che sbraita alla radio diventa la pubblicità del profumo Obsession for Men. Per Gillette non c’è neppure bisogno di cambiare lo slogan che accompagna un lavoratore armato di martello: «Il meglio per un uomo». «È mutata più la forma che la sostanza, comunque ideologica», dice l’artista. In ogni caso, oggi i turisti vengono cooptati per le foto ricordo dalle maschere di Caterina II e di Pietro il Grande, fondatore della città visto nel corso dei secoli come taumaturgo o come anticristo, piuttosto che da quelle di Lenin o di Trockij. Piuttosto che la prima cannonata dell’Aurora e la presa del Palazzo d’Inverno, vengono celebrati i 900 giorni di resistenza all’assedio nazista e Roberto Mancini. Il neoallenatore dello Zenit compare sui cartelloni, in posa da capopopolo, con il motto: «Insieme per la vittoria». Invece l’orgoglio per quella sui tedeschi si manifesta, venendo dall’aeroporto, già sull’arco all’ingresso di San Pietroburgo, definita a caratteri cubitali Città degli eroi. «Fino alla perestrojka quello epico era il solo registro associato all’assedio», dice Ljudmila Belova, curatrice dell’esposizione Voci silenziose nella fortezza di Pietro e Paolo, primo embrione cittadino che risale al 1703 (il che rende “Peter”, come dicono qui, più giovane di New York). «Presentiamo opere basate sui diari e sulle testimonianze della gente comune, che ha sofferto tra le pieghe della grande storia».
Il trauma di quegli anni influenza ancora il carattere locale. «In città buttare il pane è un vero crimine», dice Anton Abrezov, ventiseienne chef del ristorante Gräs, che si è formato tra Manhattan, Oslo e Stoccolma. Il gusto scandinavo, minimale corre sulle pareti di legno con inserti in muschio. «Il 90 per cento delle materie prime sono russe, e stagionali», dice il cuoco. Grano saraceno, cavolo nero, pesce di Murmansk, barbabietole: «trasformiamo le nostre radici culinarie in piatti moderni. A differenza di Mosca, San Pietroburgo è rilassata, forse un po’ pigra. Eppure continua, almeno in cucina, a essere rivoluzionaria». Un’analoga reinterpretazione va in scena al Cococo, dentro al W Hotel. Il nome è onomatopeico. Così si chiama anche l’uovo servito dentro la confezione di cartone, tra la paglia. Va bevuto dal guscio dopo essersi messi sulla lingua una pasticca alle bacche di bosco. Si può cenare al tavolo dello chef, Igor Grishechkin. Agli otto commensali vengono servite dodici portate fuori menù, poi gli si mostrano le cucine dove lavorano quindici cuochi, tutti russi.
Se il «gran finestrone per cui la Russia guarda in Europa», nella definizione dell’illuminista Francesco Algarotti, è stato per secoli il futuro della Russia, l’Occidente, la borghesia, la pietra, là dove Mosca era il passato, l’Asia, il clero, il legno, oggi il rapporto pare ribaltato. «Quanto Mosca è frenetica, sradicata, incentrata sul business, tanto Pietroburgo è calma e affezionata a se stessa», dice Corrado Manaresi, consulente della moda italiana per il mercato russo fin dagli anni 90. «Io stesso ci divento abitudinario. Vengo ancora al Grand Hotel Europe, il primo a essere frequentato dagli uomini d’affari occidentali dopo la caduta dell’Urss. Le colazioni nei suoi saloni liberty restano le migliori della città».
«Più che calma – dice Marina Gisich, proprietaria di una quotata galleria d’arte che rappresenta solo pietroburghesi – la definirei delicata. Una specie di reazione al suo passato crudele». La galleria è in osmosi con l’appartamento di Marina. Nella sala da pranzo c’è un suo ritratto in tenuta da ballerina e un quadro, di Kerim Raginov, di un corso di aquafitness. Lampadari a forma di piante tropicali pendono sul tavolo. Una parete della cucina è un trittico di nudi fotografici sui toni del bronzo, in pendant col pavimento.
«Avevo già abitato a San Pietroburgo vent’anni fa. È cambiata», dice Paola Cioni, nuovo direttore dell’istituto italiano di cultura. «Oggi si fa arte ovunque, con niente. In estate i marciapiedi della prospettiva Nevskij pullulano di performer». Gli abitanti sono inventivi anche nel guadagnarsi la pagnotta. Davanti alle facciate neoclassiche a tinte pastello, i volantini appiccicati ai pali della luce reclamizzano «mogli a ore» e «passeggiate sui tetti». Uber e app simili hanno sostituito i taxi tradizionali. I cittadini sconsigliano di fermare le auto per strada. Dicono che in pratica gli unici tassisti non convertiti a Uber, per divieto aziendale, sono quelli con precedenti penali.
Dalla Nevskij, con le app, si raggiunge per tre o quattro euro l’isola Novaja Gollandija, la cosiddetta “isola degli hipster”. Il proprietario Roman Abramovič ci ha investito 400 milioni di dollari. Ragazzi in cerchio ruotano le braccia e tirano i quadricipiti femorali sui prati all’inglese. I festoni colorati di Firebird Decent, installazione dei Poetic Kinetics, sventolano sopra le loro teste. Al di qua di fabbriche di mattoni rossi ristrutturate ci sono campi da ping pong e da bocce – «moda degli hipster francesi», assicurano. Sciami di bambini biondi formicolano sullo scheletro di un vascello. Sulla piattaforma che ricopre parte del bacino interno si fa yoga. La Butylka, ex carcere per i marinai, è un edificio circolare che oggi contiene ristoranti, bar, boxing club, barbieri d’ispirazione americana anni 50 e la libreria Garage, dal nome della rivista e del museo di arte contemporanea fondati da Daria Žukova, moglie di Abramovič fino allo scorso agosto. C’è sempre qualcuno che passa lo straccio. Gli uomini della sicurezza si aggirano per i vialetti. Si entra sull’isola attraverso un metal detector presidiato da energumeni in nero. Chissà se per divisa o per moda. Nei locali più in voga l’abbigliamento medio non è troppo diverso. Il bar Chroniki è frequentato da giovani creativi androgini, in anfibi, maglie larghe e berretti neri attillati. Così come vari indirizzi di Rubinsteina Ulitsa, via dello svago serale. Al contrario di Mosca, le birre artigianali vanno per la maggiore. Per esempio da Punk Beer, con catene di biciclette agli sgabelli, o nel minuscolo Beergeek. Sul lungofiume della Fontanka, Golitsyn Hall è un complesso di edifici fatiscenti affacciati su un cortile con pavimentazione di assi. Un labirinto di scale e corridoi, di bar e angoli oscuri. Capita di aprire un armadio e di ritrovarsi di fronte un dj.
L’impressione è che “Peter”, dopo aver resistito all’assedio militare di Berlino, abbia ceduto a quello estetico. «Vero. Ma qua abbiamo preso pezzi anche da Parigi e da Brooklyn», dice Dima, manager del locale underground Co-op Garage, con biliardo e targa di ottone all’ingresso: Welcome Motherfuckers. Ha i capelli lunghi, la giacca di velluto e teschi alle dita. «E da Napoli: facciamo pizze con forno a legna». Indica il bar. «Vedi quel vecchio bancone stalinista? È l’unica cosa che mi interessa del periodo rosso».
La settecentesca chiesa protestante di Annenkirche è un simbolo della complessa relazione che San Pietroburgo vive con le proprie fasi storiche. Il guardiano accorda il permesso di fotografarla solo per un gruzzoletto di rubli e a patto che nell’inquadratura compaia il suo gatto, che dice provenire dall’Ermitage ed avere ripulito dai topi le rovine di quest’edificio. Prima era una chiesa, poi un cinema sovietico, poi una discoteca, poi è bruciato ed è stato riconsacrato. Le pareti sono scrostate, la croce centrale è illuminata d’azzurro. Sembra il luogo di un culto ancestrale sopravvissuto all’Apocalisse. Del resto Vasilij Rozanov, in piena rivoluzione, scriveva: «Due o tre pugni di farina, due o tre pugni di polenta, cinque uova sode possono salvare la mia giornata. Vedo spuntare […] una specie di “svolta apocalittica” nelle concezioni storiche non solo della Russia, ma anche dell’Europa».
Sulle rive della Neva
Dove si trovano alcuni dei locali più interessanti di San Pietroburgo
1 — Loft Project Etagi
Ex fabbrica di prodotti da forno, è ora un articolato sistema a quattro piani di progetti creativi: dai concept store alle mostre ai vintage caffè.
Ligovskij Prospekt, 74
+ loftprojectetagi.ru
2 — Tchaikovsky House
Mini hotel confortevole in posizione perfetta, tra la Nevskij e l’Ermitage. Personale giovane e cortese che parla italiano.
Malaja Morskaja, 13
3 — ArtMuza
Gallerie e agenzie creative con un grande terrazzo che nel weekend ospita le performance di dj ibizenchi e berlinesi.
Vasilyeskogo ostrova, 70-72
4 — Gräs
Prodotti locali e stagionali, gusto scandinavo, cucina giovane e fresca.
Ulitsa Inženernaja, 7
5 — Cococo
Ristorante dentro al W Hotel con cucina creativa e ottimo servizio.
Voznesenskij Prospekt, 6
+ kokoko.spb.ru
6 — Chroniki
Bar minimal dove osservare la fauna creativa pietroburghese nel proprio habitat naturale.
Nekrasova ulitsa, 26
7 — Co-op garage
In un vecchio garage: bar e hamburger, pizza e biliardo dall’ispirazione underground.
Gorochovaja ulitsa, 47
+ cooperativegarage.com
8 — Mari Vanna
Ristorante del gruppo Ginza che riproduce interni e atmosfera di un tipico appartamento sovietico. Però la cucina, pur tradizionale, è di certo molto migliore.