Gli squatter democristiani non ci sono più. Gli squatter scudocrociati che in un’alba molto livida del 1944 occuparono il palazzo Cenci-Bolognetti in Piazza del Gesù se ne sono andati tutti. Per sessant’anni hanno fatto baldoria nei tre piani del palazzo cinquecentesco epicentro di poteri forti e fortissimi romani, davanti alla chiesa del Gesù voluta da Ignazio di Loyola, a cinquanta metri dal palazzo Grazioli e ad altrettanti dal palazzo del Pci di via delle Botteghe Oscure.
I ragazzi terribili che presero palazzo Cenci-Bolognetti come un teatro Valle o un Angelo Mai okkupato erano: Alcide De Gasperi, Mario Scelba, Giulio Pastore, Giorgio Tupini, Pietro Campilli e Giulio Andreotti (che però arrivò qualche giorno dopo, a okkupazione avvenuta, andreottianamente). Il 5 giugno 1944 okkuparono Piazza del Gesù 46, fino all’epoca tranquilla aristo-residenza della famiglia principesca romana-bolognese famosa per la antenata Beatrice Cenci decapitata su pubblica piazza per aver sterminato il padre abusatore, dando adito poi a vasta letteratura, tra cui una Beatrice Cenci di Alberto Moravia e un The Cenci di Shelley.
Non erano però memorie letterarie a ispirare gli squatter: il più illustre di loro, De Gasperi, è ricordato in una lapide posta all’ingresso del palazzo ridisegnato nel Settecento dal Fuga (archistar già autore del palazzo della Consulta e della basilica di Santa Maria Maggiore). Morto esattamente sessant’anni fa, De Gasperi (il 19 agosto 1954) «in questo palazzo con limpida fede e perspicua intuizione ispirò e guidò la Democrazia Cristiana»; in realtà poco perspicuamente il palazzo era stato squattato come seconda scelta. De Gasperi, Scelba e gli altri punkabbestia della Balena Bianca avevano prima provato, infatti, col palazzo Altieri di fronte, ma gli era andata male, perché «lì c’era un nerboruto portiere che li prese a ceffoni; mentre palazzo Cenci invece era indifeso», dice una guida d’eccezione, Gerardo Bianco, gentiluomo democristiano, già capogruppo Dc, ministro della Pubblica Istruzione, poi segretario e poi presidente del Partito Popolare Italiano, uno degli Stati satelliti che si fecero la guerra qui nel palazzo del Gesù dopo il 1993.
«L’ascensore, dov’è l’ascensore», dice subito Bianco; il famoso ascensore ottagonale ligneo che portava su nella House of Cards scudocrociata è sparito. Son sparite anche tante statue, e anche alcune specchiere, mi vien fatto notare, rispetto alle foto d’epoca. Ma qui non si cadrà in retoriche anti-casta (però le nicchie sullo scalone d’onore son vuote, si notano). «Era lentissimo, l’ascensore. Talmente lento che per salire al primo o secondo piano si approfittava per far riunioni». L’ascensore lentissimo Cenci-Bolognetti appare anche nelle ultime inquadrature di Forza Italia, film strampalato e sfortunato del 1977 di Roberto Faenza, una specie di grande blob sul potere italiano del Dopoguerra scritto assieme alla strana coppia Carlo Rossella e Antonio Padellaro; dopo scene di congressi Dc in cui “la base” chiede ossessivamente il rinnovamento della classe dirigente, la Dc annuncia finalmente i volti nuovi: e dall’ascensore saltano fuori ancora loro: Moro, Colombo, Andreotti, tipo zombie (nel cortile, Fiat 125 e 128 e 131 blu, il palazzo annerito, la balconata con lo scudone crociato rosso e la scritta al neon tipo Trattoria Democrazia Cristiana). Il film fu poi ritirato dai cinema perché a pochi mesi dall’uscita ci fu il rapimento Moro (con il corpo nella R4 ritrovato a due passi da qui, via Caetani, notoriamente tra palazzo del Gesù e Botteghe Oscure, con esprit de géométrie terroristico).
Si sale su al primo piano per lo scalone nobile tutto restaurato, non si prende neanche in considerazione l’ascensore moderno tipo Otis che è stato installato durante i restauri. Il palazzo infatti è stato completamente ristrutturato nel 2007 dalla Fondazione Cenci-Bolognetti: dalla morte dell’ultima principessa, nel 1955, un lascito prevede che i proventi degli affitti vadano all’Istituto Pasteur per la ricerca biomedica; filologicamente, perché il palazzo nasce Petroni a metà Cinquecento, e Alessandro Petroni era medico personale e grande amico di Sant’Ignazio, da lui guarito con miracolo certificato (e dunque decisione di costruire il palazzo accanto alla chiesa erigenda del Gesù).
Tre piani, di cui due ostaggio della Dc; ma soprattutto il primo; al secondo, con scelta eccentrica, stavano infatti solo De Gasperi e poi Rocco Buttiglione: entrambi avevano la scrivania nel “gabinetto della contessa”, boudoir di una Giulia Massimo andata in sposa a un Petroni nel 1737, e siccome lei era una Massimo di palazzo Massimo, il Petroni non volendo farsi guardar dietro da nessuno le aveva offerto questa stanza tutta per sé di metri 3,5×5,40 decorata da «ornamenti di legno color di perla e filettato d’oro» secondo le cronache d’epoca. Qui però, come tutto il secondo piano, non si può entrare, perché ci sta l’Associazione delle Banche Popolari. In realtà il compound del potere (Asor Rosa con una famosa teoria sosteneva che l’unica classe dirigente dello sventurato Paese fosse quella gesuitica) è diventato distretto dell’Iban: anche qui, alla scala B, quella sfigata, ci sta il Consorzio Bancomat; sopra, appunto, le banche popolari; di fronte, a palazzo Altieri, l’Abi e la banca d’affari Finnat; a Botteghe Oscure ci stava Merrill Lynch, adesso anche lì l’Abi.
Nella scala B c’è però soprattutto la storia citofonica del post-1993; ecco cassette delle lettere intestate a, nell’ordine; 1) Democrazia cristiana per le Autonomie – Associazione piazza del Gesù; 2) Concretezza e dialogo srl – Redazione Il Popolo (un tempo qui c’era anche la redazione del giornale di partito democristiano; 3) Partito democratico-cristiano – Cronache nuove – a responsabilità limitata (e poi scritto a penna, quasi illeggibile, maiuscolo: PRANDINI, per i più piccoli: ministro democristiano bresciano un tempo potente); 4) Democrazia Cristiana piazza del Gesù 46 – con vetro e serratura rotta, e dentro volantini di agenzie immobiliari impolverati.
«Ma non ci sta più nessuno in realtà», dice Gerardo Bianco. «Non ci sta più nessuno», conferma anche il portiere; infatti stanno rifacendo i citofoni, li toglieranno tutti, questi nomi; sopravvive solo lo studio di “sen. Mauro Cutrufo”, che però senatore non è più, non è più democristiano, è passato dal Ppi all’Ulivo poi al Ccd di Rocco Buttiglione poi a una lista Biancofiore apparentata con la Casa delle Libertà poi all’Udc poi alla nuova Democrazia Cristiana di Gianfranco Rotondi, poi al Popolo della Libertà, poi vicesindaco di Roma con Alemanno, poi più niente. Questa biografia valga per i più piccini come storia della diaspora democristiana (alla scala B affacciano anche le cucine di un ristorante turistico – pasta o pizza euro 5,90, bistecca e patate 9,90 – oggi però dagli afrori si mangia qualcosa sicuramente con l’aglio).
Nello scalone nobile, invece, al primo piano, ci sta l’Authority per il diritto allo Sciopero, che valuta quali scioperi autorizzare e quali no. Mentre si va su, la via d’Aracoeli che costeggia il palazzo è bloccata da un corteo. «Ma che l’abbiamo autorizzato, questo?», dice un funzionario a un altro. Non si sa. Di sicuro qui l’eredità Dc è molto rispettata, il nostro accompagnatore molto omaggiato; lui con alta scuola democristiana va a salutare tutti, fino all’ultimo usciere, e i più accorti lo riconoscono e parte subito tutto un valzer di «onorevole, sono di Avellino, le porto i saluti di mio cugino X, se lo ricorda?» e Bianco, certamente fingendo con stile inarrivabile moro e doroteo, risponde affabile: «Ma certo, un’ottima famiglia», e poi veniamo ricevuti dal presidente dell’Authority, gentilissimo, nel suo studio tutto mobili d’acciaio e pelle nera Le Corbusier, con tulipani freschi in un vaso. Grande schermo piatto sul canale del Senato, e c’è tale senatrice Serenella Fucksia dei Cinquestelle che parla.
Forse facendo apposta, per ampliare il gap spazio-temporale, mentre le immagini di Fucksia scorrono, seduto sulla pelle nera, Bianco dà invece una piccola lezione di architettura istituzionale e costituzionale, en passant, ricordando una sua proposta di riforma del bicameralismo che prevedeva sedute comuni – come per l’elezione del Presidente della Repubblica – per l’approvazione delle leggi. Poi spiega che l’ufficio in cui ci troviamo – la sala Blu – era quello dei segretari particolari dei leader; c’è il balcone che dà su piazza del Gesù; ci stanno le bandiere, italiana e europea; ci stava Mariano Rumor quando era ancora assistente di Fanfani. Sul soffitto, affreschi settecenteschi riproducono il ciclo del giudizio di Paride, mentre decorazioni dei quattro continenti – Africa Asia Europa America – sono ottocentesche, volute dal principe Virginio Cenci, dandy e musicologo. «I telefoni funzionavano male – conclude Bianco – così per chiamare Rumor, Fanfani usava un campanellino».
Passiamo alla sala accanto, la Sala avorio angolare, con gran leoni di gesso ottocenteschi come quelli dei Florio nella chiesa madre di Favignana, quasi filologici a loro insaputa: al terzo piano del palazzo, l’unico Dc free, ci stava infatti Domenico Modugno, che qui nel 1963 ha composto U Pisci Spada, ballata verghiana sulla caccia al maschio del pesce spada (la femmina è stata catturata durante la mattanza, e incita il maschio a fuggire, ma il pesce si lascia catturare per morire insieme a lei). Sopra U pisci spada, sotto la Balena bianca, vabbè.
Dalla finestra si vede palazzo Altieri, di fronte, e la casa all’ultimo piano d’Anna Magnani, forse antico flirt di Andreotti, che come ricorda Gerardo Bianco «qui a palazzo non aveva uffici, perché nella Dc non ha mai voluto incarichi ufficiali». In questa stanza poi «ci stava Martinazzoli, era sempre piena di fumo di sigaretta, non si vedeva niente». Viene confermato che i lavori per riportare l’avorio originario dei decori siano stati assai faticosi, forse proprio a causa del tabagismo del manzoniano rottamatore Dc.
Si passa velocemente da una sala rossa, altri affreschi settecenteschi col ciclo di Paride; anche qui «particolarmente impegnativa è stata la pulitura dei residui della combustione di vecchi cavi elettrici a cordoncino», scrive l’architetto capo Fabrizio Mercorelli nel volume edito da Campisano che racconta i restauri di palazzo. In pratica, gli squatter Dc avevano piantato neon e lampadari e prese negli affreschi. Sventrata e smandrappata anche la Sala delle Cariatidi, o meglio il Salone delle Feste o Camerone; «qui stava il famoso parlamentino Dc», annuncia Bianco, mentre altri funzionari arrivano a omaggiarlo, citando amici o parenti in Consiglio di Stato, Corte dei Conti, e altre antiche e gloriose magistrature (qualcuno gli rappresenta anche delle doléances. Il primo ministro vuole accorpare le authority, qua si teme di finire in qualche casermone col vetrocemento, sono abituati bene sotto le volte settecentesche. Bianco rassicura. Poi va a salutare una segretaria: si vede che tutti lo vorrebbero votare, ma non si può più). Il pavimento originale in seminato veneziano del Settecento è stato ripristinato, tolto il palchettone e via la tappezzeria che arrivava su fino alle decorazioni con i dodici torsi palestrati tipo Abercrombie sotto lo stemmone Cenci con le sei lune crescenti in campo rosso e argento e la corona principesca. Qui si teneva la direzione nazionale del partito, qui si son fatti e disfatti governi. Qui il parlamentino ligneo è stato buttato in discarica dopo i lavori di restauro; parlamentino imitato da quello berlusconiano a pochi metri, a palazzo Grazioli. Accanto, una sala ovale vezzosa con porte segrete. Bianco rovina subito la poesia; «ci stava il bivacco dei questuanti, con poltrone sfondate». Corridoi; poi lo studio di Virginio Cenci, con il soffitto a volta decorato dal Vasella, artista in voga nella roma umbertina, e tre porte di noce anch’esse ottocentesche. Oggi è lo studio del capo di gabinetto dell’Authority, era quello di Giuseppe Dossetti; poi ancora di Franco Marini. Tra i corridoi, però, maestranze raccontano i ritrovamenti più misterici nel palazzo durante i restauri: decine di tessere Dc tra i controsoffitti; venticinque casseforti murate risalenti all’epoca forse delle correnti o forse della guerra successiva al 1993. E soprattutto, un cavo segreto, un cavo telefonico che collegava un «centralone» nascosto in una loggia, ai vicini di Botteghe Oscure. Una specie di linea rossa tra Dc e Pci in epoche di guerre fredde e telefonia fissa. Anche quella finita in discarica. Ma dove sarà invece l’ascensore storico? È giù, in cantina, scendiamo, è accatastato, con le sue antine, la sua panchetta, in un angolo, sotto affreschi rustici di bottiglie e grappoli d’uva (durante la guerra qui c’era una taverna). Nel cortile c’è anche un albero gigante. «Era il fico più alto del mondo», sospira Bianco. Però da qualche anno non è più al primo posto del Guinness. E poi, definitivo, congedandosi: «Ma era un fico sterile: non ha mai fatto frutti, lo sapevano tutti».