Ricordati che devi soffrire. È il dazio che chiede la vita per concederti un angolo di gloria. A esasperarsi la sensibilità si deve cominciare presto: l’infanzia infelice è la prima tassa che paghi nella vita, l’esattore bussa a casa quando a malapena tu arrivi alla maniglia per aprirgli la porta. Così l’inizio di ogni storia è banale: c’era una volta e c’è sempre un bambino triste.
Marina Abramović (Belgrado, 1946)
I guai cominciarono il giorno del battesimo: il padre la chiamò Marina in ricordo della ragazza di cui s’era innamorato. Non la moglie, un’altra. Marina era bellissima, l’aveva conosciuta in trincea. La signora Abramović non gradì la commemorazione di un’eroina che non era lei, col prevedibile risultato che prese in odio la bambina. L’alta tensione matrimoniale finisce su quello che è più vicino: i figli sono buoni incassatori. Docili, minuscoli, disponibili alle sevizie. L’amore vuole bersagli complicati, l’odio preferisce quelli facili. Marina cresce poco e a stento, si vendica anche lei come può: inizia a non mangiare.
La minestra calda
Gli Abramović si detestano ma decidono di passarci sopra. Esistono coppie che sopravvivono così: disprezzarsi senza tregua fa diventare indivisibili. Racconta Marina che in uno dei rari giorni di pace, la madre chiese dolcemente al marito: «Vuoi la minestra?». Lo sventurato rispose sì, lei arrivò alle sue spalle rovesciandogli la pentola bollente in testa. Moltiplicare il trauma per altri dieci anni. A Marina viene un disturbo psicosomatico: inizia a sanguinare (all’inizio solo dai denti) senza motivi. Ma non era una malattia, era autodifesa. Cominciò (dice lei) il migliore periodo della sua vita: un anno in ospedale. Pareva una vacanza.
Ti piacerebbe essere consegnato vivo ai posteri? Ecco il modo. Servono immense gioie o nerissime disperazioni.
L’incontro con Ulay
Agli afflitti piacerebbe il mondo fermo, e invece si va avanti: Marina cresce, diventa un’artista, poi diventa un’artista notata dalla critica. E iniziano a piacerle anche gli altri, le persone. Insomma, gli uomini. Forse. Date certe premesse, non è che non ti fidi di chi ti dice «ti amo», non ti fidi della parola “amore”.
A 29 anni incontrò Ulay. «Non somigliava a nessuno che avessi mai conosciuto», dice. È la premonizione classica con cui l’inconscio t’avverte che stai per farti mettere sotto da qualcuno. Si conobbero ad Amsterdam «quella sera tornammo a casa sua, restammo a letto per dieci giorni«. Se si allontanavano, passavano ore al telefono: «Lui registrava ogni chiamata, con il mio consenso. Credo che entrambi avessimo percepito che c’era qualcosa di storico nella nostra relazione».
Tre sono i modi dell’arte: per furto, per imitazione e per mutuo soccorso
Inizia il sodalizio Ulay-Abramović, ma a lei va meglio che a lui. Marina diventa più che famosa, diventa un caso discutibile. Le performance consistono nel farsi del male sul palco, a volte chiede al pubblico di colpirla. E dopo un po’ di esitazione, il pubblico l’accontenta: lanciare una pietra piace a tutti, basta non essere i primi. Col tempo sceglie spettacoli più quieti: sta seduta in un museo a fissare lo spettatore finché lo spettatore non piange. Una superba dimostrazione della banalità del dolore. Si sapeva: siamo cattiveria e lacrima facile. La S.p.a. del male Marina Abramović per un po’ è una macchina perfetta, poi Marina e Ulay si lasciano. Lui rivendica la sua parte di genio (in soldi), lei nega e rilancia: era tutta luce riflessa. Ulay però vince la causa, il giudice stima il valore delle perdite economiche in 250mila euro. Ogni cosa ha un prezzo, i grandi amori più di tutto.
La dedica
Il peggio era sempre già scritto prima, in questo caso nella dedica dell’autobiografia: «Agli amici e ai nemici». Marina diffida i cattivi già a pagina 1.
A contraddirsi malamente ci vuole un attimo: passi la vita a dimostrare che il male si compie a caso e finisci a sognare d’avere nemici. I nemici sono i soliti due, gli stessi per tutti, mamma e papà. O forse tre, contiamo anche quel bambino triste: tu.