Non vi si pensa, quanto sangue costa
Dante, Paradiso, XXIX
Quella sera di novembre del 1926, subito dopo la promulgazione delle “leggi eccezionali”, ci eravamo salvati in parecchi dall’arresto in un villino di un sobborgo milanese, qualche tempo prima affittato da un nostro compagno che si fingeva pittore. Nei quartieri popolari le vie erano deserte, le osterie chiuse, silenziose, le case buie. Ciò dava alla città, in quella stagione umida e fredda, un carattere tetro. La forza pubblica operava nei quartieri popolari incursioni vaste e subitanee, in pieno assetto di guerra, cingendo di assedio i casamenti sospetti, come se si trattasse di fortilizi nemici. Il numero degli arrestati era già assai elevato e si accresceva di giorno in giorno in base ai nomi e agli indirizzi che in quel modo risultavano dalle perquisizioni, dalle denunzie delle spie, dei provocatori e dalle deposizioni degli arrestati più deboli, costretti dalle minacce o dalla tortura.
Nelle altre città e province avveniva press’a poco lo stesso, su vasta scala. I giornali d’informazione che ancora potevano pubblicarsi (quelli di aperta opposizione erano stati soppressi proprio in quei giorni) avevano ricevuto l’intimazione di neppure accennare agli arresti, e di riferire invece gli elogi della dittatura italiana, espressi, a nostro scherno e mortificazione, da eminenti rappresentanti della democrazia e del liberalismo d’altri paesi. Ma il notiziario dei tre o quattro corrieri di partito, i quali raccoglievano nelle principali regioni la corrispondenza dei fiduciari provinciali e la portavano agli uffici centrali clandestini, non ci lasciava più alcun dubbio sul deliberato proposito della dittatura di sterminare una volta per sempre ogni traccia di resistenza avversaria. I comunisti erano i soli che disponessero allora di un’organizzazione clandestina di una qualche efficienza: ma in varie province le razzie poliziesche avevano già distrutto la rete dei nostri collegamenti. E numerosi erano i compagni che, sfuggiti all’arresto, ci chiedevano un rifugio duraturo in una città diversa dalla propria e documenti falsi per poter viaggiare e cercarsi una nuova “sistemazione”.
Quelli di noi che già da tempo vivevano con “generalità” alterate, dissimulando l’attività cospirativa sotto apparenze innocenti e banali, si trovavano allora in una condizione certamente più vantaggiosa; ma neppure troppo sicura, poiché l’eventuale tradimento o debolezza di qualcuno degli arrestati poteva offrire alla polizia indicazioni portanti sulle nostre tracce. Così anch’io quella sera, ero stato avvertito di non tornare a casa, apparendo la mia abitazione sorvegliata dalla polizia. Assieme ad altri che si erano venuti a trovare nelle stesse condizioni, cercammo dunque un rifugio provvisorio nel villino del nostro compagno finto pittore. Dopo aver messo un uomo di guardia nelle vicinanze e presi gli accordi per il caso di allarme, ci rassegnammo a passare la notte sulle sedie, dato che il villino era appena sommariamente mobiliato e non disponeva che di un solo letto.
Assieme al finto pittore e a sua moglie eravamo un finto turista spagnolo, un finto dentista, un finto architetto e una ragazza tedesca finta studentessa. Ci conoscevamo già da un paio d’anni, ma i nostri rapporti, fino a quel giorno, erano stati esclusivamente di collaborazione tecnica per incarico dei rispettivi uffici dell’organizzazione cospirativa; non avevamo ancora avuto tempo e modo di stringere amicizia. Tutt’al più qualcuno di noi conosceva degli altri il luogo d’origine e la situazione familiare, e ciò per gli inevitabili riflessi che questi dati spesso avevano sugli espedienti della complicata vita fuori legge. Perché dunque il fortuito incontro di quella sera m’è rimasto così a lungo impresso nella memoria?
Avvenne che il dentista a un certo momento disse:
«Questo pomeriggio sono passato davanti alla “Scala”. Una gran folla faceva coda per l’acquisto di biglietti per il prossimo spettacolo. Mi sono un po’ fermato a osservarla e ho avuto la netta impressione d’un corteo di pazzi.»
«Perché pazzi?» chiese il turista spagnolo. «Il teatro per te è follia?»
«Non in circostanze normali» ammise il dentista. «Ma, coi tempi che corrono, come ci si può distrarre? Si deve essere veramente maniaci.»
«L’arte non è solo e sempre distrazione» osservò il turista spagnolo.
«Se i musicomani potessero ora vederci e sapere di noi chi siamo e che facciamo» aggiunse il pittore «quasi certamente, a loro volta, ci considererebbero pazzi. Non è mica facile sapere chi siano i veri pazzi; forse è una delle scienze più difficili.»
Il tono che prendeva la conversazione non piaceva al dentista.
«Non si può rischiare la libertà e la vita come noi facciamo» egli replicò severamente «e poi ragionare come chi si trovi al di sopra della mischia.»
«Ci si può gettare nella mischia» rispose il pittore «si può dare calci e pugni all’avversario, ma non obbligatoriamente cornate. Non è meglio riservare la testa per altri usi?»
«La nostra lotta non è anche ideologica?» disse il turista spagnolo. «La tua testa non è impegnata?»
«La mia testa è impegnata, certo, ma non i miei occhi» spiegò allora il pittore sorridendo. «In altre parole» egli aggiunse «vorrei poter continuare a vedere le cose con i miei occhi.»
«Non capisco» dichiarò il dentista. «Il rischio che tu corri restando con noi mi sembra assai sproporzionato al tuo scarso impegno. È venuto il momento di spiegarci chiaramente.»
Vi fu una pausa di silenzio imbarazzante. La conversazione poteva finir male. Attraverso le finestre vedemmo passare sull’autostrada tre camion carichi di militi. La padrona di casa chiuse le persiane delle finestre e ci servì del caffè.
«Nella nostra epoca tutte le vie conducono al comunismo» disse il turista spagnolo per riportare l’armonia tra i compagni. «Non si può mica essere comunisti tutti alla stessa maniera. Quest’è la verità.»
«Sulla rivoluzione proletaria io ho scommesso la vita» rettificò il pittore. «Se non ho scommesso anche gli occhi è solo per riservarmi il diritto di vedere quello che succede della mia vita. Ma la vita è ormai scommessa. Allo stesso modo, tanto per spiegarmi meglio, una mia cara compagna di scuola si è fatta monaca, scommettendo la sua vita sul Paradiso. Sul Paradiso celeste, intendo dire, da non confondere col nostro. Posso assicurarvi che manterrò la scommessa. Perché non dovrei mantenerla? Nessuno ha il diritto di dubitare del mio onore.»
«Ma la rivoluzione proletaria» commentò duramente il dentista «non è un gioco d’azzardo.»
«So bene» spiegò il pittore «che la vincita della mia scommessa non dipende dall’azzardo, ma dall’abilità e forza dei giocatori e da tutto il resto di cui si legge nei manuali delle nostre scuole di partito. Ed è perciò che io vi partecipo non solo come scommettitore, ma anche come giocatore: come un giocatore interamente preso dalla partita e che ha scommesso se stesso. Interamente, ripeto, salvo gli occhi.»
«Non capisco» dichiarò il dentista.
«Insomma mi rifiuto di bendarmi» concluse il pittore. «Farò esattamente tutto quello che pretenderete, ma a occhi aperti.»
«Bene» disse a sua volta il turista spagnolo «ma non ho capito se a te la tua scommessa interessi più del resto. Ecco, scusa la domanda, avresti potuto anche scommettere, trovandoti in altre circostanze, per qualcos’altro del tutto diverso, che so io, la guerra, l’esplorazione del polo sud, l’assistenza ai lebbrosi, la tratta delle bianche, la fabbricazione delle monete false?»
«Perché no?» l’altro rispose ridendo. «Ma è probabile che anche in ognuna di quelle altre mie possibili professioni avrei cercato di mantenere gli occhi aperti, e cercato di capire.»
«Comunisti si nasce» dichiarò la ragazza tedesca.
«Uomo però si diventa» commentò il pittore.
«Insomma» gli chiese il dentista «si può sapere per quali circostanze tu hai finito con lo scommettere sul comunismo?»
«Ah, sarebbe una lunga storia» l’altro rispose gravemente. «E alcune cose, a essere sincero, per voi sarebbero incomprensibili.»
«Raccontaci la tua lunga incomprensibile storia» disse la ragazza tedesca. «Berremo caffè e veglieremo per ascoltarti. Anche se non capiremo, non fa niente. Le storie più belle sono incomprensibili.»
«E racconterete anche voi la vostra storia?» ci chiese il pittore in tono di sfida.
«D’accordo» consentì il dentista. «Berremo caffè e veglieremo.»
«Rifletteteci bene» ammonì il pittore. «Forse per voi è pericoloso volgervi indietro. Forse è pericoloso per ognuno, anche per me, mentre si è nella lotta, esaminare il perché e il come, guardarsi indietro. Ad un certo momento il gioco è fatto, rien ne va plus: chi è nel ballo deve ballare.»
«Ma si può separare la lotta dai motivi che ci han condotti a lottare?» chiese il turista spagnolo. «È pericoloso, secondo te, ricordarci i motivi che ci hanno condotti al comunismo?»
«La notte è lunga» disse la ragazza tedesca. «Raccontiamoci le nostre incomprensibili storie. Berremo caffè e resteremo svegli.»
Così passammo quella notte a cercare di spiegarci reciprocamente come e perché fossimo diventati comunisti. Le spiegazioni furono tutt’altro che esaurienti; ma al mattino eravamo diventati amici. «È proprio vero» ci dicemmo separandoci «che al comunismo si arriva da tutte le parti.»
(L’anno seguente il finto dentista fu arrestato, sottoposto a tortura, egli rifiutò di denunziare i suoi collaboratori e morì in carcere. Il finto pittore continuò a compiere il suo dovere politico fino alla caduta del fascismo; dopo la Liberazione si è ritirato a vita privata. Della ragazza tedesca non ho saputo più nulla.)
Ho ripensato spesso negli anni seguenti, alle confidenze di quell’incontro, poiché il bisogno di capire, di rendermi conto, di confrontare il senso dell’azione, in cui mi trovavo impegnato, con i motivi iniziali dell’adesione al movimento, si è impossessato interamente di me e non m’ha lasciato tregua e pace. E se la mia opera letteraria ha un senso, in ultima analisi, è proprio in ciò: a un certo momento scrivere ha significato per me assoluta necessità di testimoniare, bisogno inderogabile di liberarmi da una ossessione, di affermare il senso e i limiti di una dolorosa ma definitiva rottura, e di una più sincera fedeltà.
Lo scrivere non è stato, e non poteva essere, per me, salvo in qualche raro momento di grazia, un sereno godimento estetico, ma la penosa e solitaria continuazione di una lotta, dopo essermi separato da compagni assai cari. E le difficoltà con cui sono talvolta alle prese nell’esprimermi, non provengono certo dall’inosservanza delle famose regole del bello scrivere, ma da una coscienza che stenta a rimarginare alcune nascoste ferite, forse inguaribili, e che tuttavia, ostinatamente, esige la propria integrità. Poiché per essere veri non basta evidentemente essere sinceri. Non è dunque senza sforzo che, rinunciando alle parabole, mi sono accinto anche a questo racconto.
Al congresso di fondazione del Partito Comunista Italiano (Livorno 1921) io espressi l’adesione di gran parte della gioventù socialista, di cui facevo parte dal 1918. L’orientamento della gioventù socialista italiana, fin dal tempo della guerra, era stato così decisamente critico verso la social-democrazia riformista, che quell’atto non suscitò alcuna sorpresa. Non è però facile descrivere che cosa fosse allora la coscienza politica della maggioranza di noi; lo stesso termine di coscienza politica è eccessivo, per la prevalenza di elementi psicologici primitivi. Eravamo semplicemente in rivolta contro tutto e tutti. Ciò che sublimava le tendenze infantili e nevrotiche della nostra ribellione era l’immensa speranza accesa dalla Rivoluzione russa.
Quella sera del novembre milanese, volendo spiegare ai miei amici perché, all’età di 18 anni, in piena guerra, mentre ero ancora studente liceale, avessi aderito al socialismo zimmerwaldiano, dovetti, di gradino in gradino, risalire con la memoria alla prima adolescenza e menzionare perfino qualche episodio dell’infanzia, per ritrovarvi le più lontane origini della mia rivolta che, più tardi, assumendo forma e portata politica, doveva necessariamente rivelarsi estremista. Non è vanteria. A diciotto anni, e in tempo di guerra, difficilmente si entra in un movimento rivoluzionario perseguitato dal governo, per motivi futili o d’opportunità. Ma, al diavolo la psicologia e le facili suggestioni. È più sicuro cercare di ricostruire l’itinerario di un’esistenza dal di fuori.
Sono nato e cresciuto in un comune rurale nell’Abruzzo, in un’epoca in cui il fenomeno che più m’impressionò, appena arrivato all’uso della ragione, era un contrasto stridente, incomprensibile, quasi assurdo, tra la vita privata e familiare, ch’era, o almeno così appariva, prevalentemente morigerata e onesta, e i rapporti sociali, assai spesso rozzi, odiosi, falsi. Della miseria e disperazione delle province meridionali si conoscono (io stesso ne ho narrati) numerosi episodi desolanti; ma ora non intendo riferirmi ad avvenimenti clamorosi, sibbene ai piccoli fatti della vita quotidiana, monotoni banali usuali, in cui si manifestava quello strano doppio modo di essere della gente in mezzo alla quale io crescevo. E ogni tanto non mancavano fattacci in cui il disprezzo diventava scandalo, per chi non vi era abituato.
Ero ancora ragazzo quando, una domenica, mentre attraversavo la piazza accompagnato da mia madre, assistei allo stupito e crudele spettacolo d’un signorotto locale che aizzò un suo cagnaccio contro una donnetta, una sarta, che usciva di chiesa. La misera fu gettata a terra, gravemente ferita, i suoi abiti ridotti in stracci. Nel paese l’indignazione fu generale, ma sommessa. Nessuno mai capì come la povera donna concepisse poi l’infelice idea di sporgere querela contro l’ignobile signorotto; poiché n’ebbe solo il prevedibile risultato di aggiungere ai danni le beffe della giustizia. Ella fu, devo ripetere, compianta da ognuno e privatamente soccorsa da molti, ma non trovò un solo testimonio disposto a deporre la verità davanti al pretore, né un avvocato per sostenere l’accusa. Furono invece puntuali il difensore del signorotto (un avvocato considerato uomo di sinistra) e alcuni testimoni prezzolati che, sotto falso giuramento, diedero una versione del tutto grottesca del fatto, incolpando la donna di avere provocato il cane. Il pretore, in privato una degna e onesta persona, assolse il signorotto e condannò la povera donna alle spese del processo.
«L’ho fatto con mio grande rammarico» così il pretore, alcuni giorni dopo, si scusava in casa nostra. «Parola d’onore, credetemi, mi è assai dispiaciuto. Ma se, come privato cittadino, avendo io stesso assistito al disgustoso fattaccio, non potevo non riprovarlo, come giudice dovevo attenermi alle risultanze processuali; ed esse purtroppo, come sapete, sono state favorevoli al cane.» «Un vero giudice» quell’onesto pretore amava sentenziare «deve saper far tacere i propri sentimenti egoistici, ed essere imparziale.»
«Certo» commentava mia madre «ma che orribile mestiere. Meglio badare ai fatti nostri in casa nostra.» «Figlio mio», diceva a me «quando sarai grande, fa’ tutto quello che ti pare, ma non il giudice.»
Badare ai fatti propri, era la condizione fondamentale del vivere onesto e tranquillo, che ci veniva ribadita in ogni occasione. L’insegnamento della Chiesa lo confermava. Le virtù raccomandate concernevano esclusivamente la vita intima e familiare. Fin dai primi anni, a me invece piaceva molto stare per strada e i miei compagni preferiti erano figli dei contadini poveri. La tendenza a non farmi i fatti miei e la spontanea amicizia con i coetanei più poveri, dovevano avere per me conseguenze disastrose. Ovviamente anche i miei più vivi ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza sono di quella specie.
Di piccoli episodi esemplari, simili a quel processo del cane padronale e della sarta, ne conservo pertanto altri dolorosamente incisi nella memoria. Ma non vorrei, con simili storie, ingenerare il dubbio che da noi i sublimi concetti di giustizia e verità fossero ignorati e vilipesi; ah, tutt’altro. A scuola, in chiesa e nelle manifestazioni pubbliche se ne parlava spesso, con eloquenza e venerazione, come altrove. Ma in termini piuttosto astratti. Per caratterizzare meglio quella strana e veramente curiosa nostra situazione, devo aggiungere che essa riposava su un inganno di cui tutti, perfino i bambini, erano coscienti; e tuttavia essa durava, assisa dunque su qualche cosa d’altro che la stupidità o ignoranza delle persone.
Ricordo in proposito una vivace discussione sorta un giorno, nella classe di catechismo, tra noi ragazzi e il parroco. Ne fu causa una rappresentazione di marionette alla quale noi ragazzi, assieme al parroco, avevamo assistito il giorno prima. Il soggetto, lo ricordo benissimo, esponeva le drammatiche peripezie d’un bambino perseguitato dal diavolo. A un certo punto il bambino-marionetta era apparso sul proscenio tremante di paura e per sfuggire alle ricerche del diavolo si era nascosto sotto un lettino che occupava un angolo della scena. Poco dopo era sopraggiunto il diavolo-marionetta e l’aveva cercato invano.
«Eppure dev’essere qui», diceva il diavolo-marionetta «sento il suo odore. Adesso chiedo a questi bravi spettatori.» E rivolto a noi, aveva chiesto:
«Cari miei ragazzi, avete forse visto nascondersi in qualche posto quel bambinaccio che io cerco?»
«No, no, no» immediatamente gli rispondemmo in coro e con la più grande energia.
«Dove si trova dunque? Perché non lo vedo?» insisté il diavolo.
«È partito è andato via», noi gli rispondemmo «è andato a Lisbona.» (Nel nostro parlare e nei nostri proverbi, Lisbona è ancora oggi il punto più lontano del globo.)
Devo spiegare che nessuno di noi, andando allo spettacolo, prevedeva di essere interpellato da un diavolo-marionetta; e il nostro comportamento era stato pertanto del tutto istintivo e spontaneo. E suppongo che, probabilmente, in qualsiasi altro paese del mondo, davanti all’identico spettacolo, i bambini reagirebbero alla stessa maniera. Ma il nostro curato, una colta e pia persona, con nostra sorpresa, non fu interamente soddisfatto. Ce lo spiegò con rammarico nella piccola cappella di Santa Cecilia, ove di solito egli impartiva le lezioni di catechismo. Quel luogo a noi ragazzi era assai gradito perché la martire romana vi era raffigurata sull’altare nelle bellissime sembianze d’una fanciulla bionda, assorta e melanconica, e con un oggetto tra le braccia somigliante in modo strano all’utensile domestico, chiamato “chitarra”, che nelle nostre case serve a fare gli spaghetti all’uovo. L’immagine ci attirava a tal punto che, per sottrarci a quella seduzione, almeno durante l’ora del catechismo, il curato era stato costretto a disporre i banchi di noi ragazzi in modo da costringerci a voltare le spalle a Santa Cecilia.
«Il vostro comportamento durante la rappresentazione delle marionette» egli ci disse dopo averci imposto di sedere «mi è dispiaciuto.»
Noi avevamo detto una bugia, egli ci avvertì preoccupato. L’avevamo detta a fin di bene, certo, ma era pur sempre una bugia. Non bisogna dir bugie.
«Neppure al diavolo?» domandammo noi interdetti.
«Una bugia è sempre un peccato» ci rispose il curato.
«Anche davanti al pretore?» domandò uno dei ragazzi. Il parroco ci redarguì severamente.
«Io sono qui per insegnarvi la dottrina cristiana e non per fare pettegolezzi» ci disse. «Quello che succede fuori della chiesa non m’interessa.»
E tornò a spiegarci la dottrina sulla verità e sulle bugie, in generale, con bellissime e difficili parole. A noi bambini però non interessava, quel giorno, la questione delle bugie in generale; noi volevamo sapere: «Dovevamo rivelare al diavolo il nascondiglio del bambino, sì o no?».
«Non si tratta di questo» ci ripeteva il povero curato veramente sulle spine. «La bugia è sempre peccato. Può essere un peccato grande, uno medio, uno così così, e uno piccolino; ma è sempre un peccato.»
«La verità è» dicevamo noi «che da una parte c’era il diavolo e dall’altra c’era un bambino. Noi volevamo aiutare il bambino, quest’è la verità.»
«Ma avete detto una bugia» ripeteva il parroco. «A fin di bene, lo riconosco, ma una bugia.»
Per farla finita io gli mossi un’obiezione d’una perfidia inaudita e, tenuto conto dell’età, piuttosto precoce.
«Se invece di un bambino qualsiasi si fosse trattato di un prete» gli chiesi «che dovevamo rispondere al diavolo?»
Il parroco arrossì ed evitò una risposta, imponendomi, come punizione per la mia impertinenza, di restare tutto il resto della lezione in ginocchio accanto a lui.
«Sei pentito?» mi chiese alla fine della lezione.
«Certo» gli risposi. «Se il diavolo mi chiede il vostro indirizzo, glielo darò senz’altro.»
Era senza dubbio eccezionale e fortuito che si discutesse in quei termini in una classe di catechismo; ma nell’ambiente familiare e, in genere, in privato, tra adulti, la spregiudicatezza era assai frequente. La vivacità dell’intelligenza non turbava però minimamente la stagnazione della vita sociale in forme umilianti e primitive. Ma la rendeva più pensosa. Tutto era messo in opera per educare i ragazzi alla sottomissione e a non occuparsi dei fatti degli altri.
Da qualche tempo la democrazia aveva tuttavia introdotto nei rapporti tra lo Stato e i cittadini un particolare tecnico (il voto segreto) che, pur non bastando da solo a cambiare le cose, consentiva ogni tanto risultati sorprendenti e scandalosi. Erano episodi singoli, senza seguito, eppure preoccupanti, perché rivelavano che cosa covava sotto la cenere.
Avevo sette anni quando nella mia contrada si svolse la prima campagna elettorale politica di cui io abbia un ricordo. Partiti politici, in quell’epoca, da noi ancora non esistevano; e perciò l’annunzio dei comizi fu accolto con scarso interesse. Ma grande fu l’emozione popolare non appena venne divulgato che tra i candidati vi sarebbe stato nientemeno che il Principe. Non c’era bisogno di aggiungere nome e cognome per sapere di quale principe si trattasse. Era il proprietario del grande Feudo, costituitosi con l’usurpazione delle terre emerse nel secolo precedente dal prosciugamento del lago di Fucino. Circa ottomila famiglie (cioè la maggioranza della popolazione locale) coltivavano i quattordicimila ettari del Feudo. A queste “sue” famiglie il Principe si degnava dunque di chiedere il voto per diventare deputato al parlamento. Gli agenti del Feudo che propagarono la notizia l’accompagnarono con un discorsetto, in armonia con i nuovi tempi, d’intonazione perfettamente liberale: «Naturalmente, dicevano, naturalmente nessuno sarà obbligato a votare per il Principe, questo si capisce; allo stesso modo che nessuno potrà obbligare il Principe a lasciare lavorare la sua terra a chi gli voterà contro. Quest’è l’epoca della vera libertà per tutti: liberi voi, libero il Principe».
L’enunciazione di questi concetti di libertà produsse tra i contadini una comprensibile costernazione. Poiché, com’è facile immaginare, il Principe era la persona più odiata della nostra regione. Finché egli era rimasto nell’invisibile Olimpo dei grandi latifondisti (nessuno degli ottomila fittavoli, fino allora, lo aveva mai visto, neppure da lontano), l’odio contro di lui era pubblicamente ammesso. Esso somigliava alle bestemmie contro le divinità avverse: le bestemmie non servono a niente, eppure danno un certo sollievo. Ma ecco che le nubi si squarciavano e il Principe stava per scendere a distanza d’uomo. Bisognava perciò, d’ora innanzi, riservare le espressioni di odio contro di lui alla ristretta cerchia della vita privata e prepararsi ad accoglierlo nelle strade del paese con i dovuti onori.
Mio padre era uno dei pochi che sembravano restii a questa logica. Egli era il più giovane di un gruppo di fratelli, contadini-proprietari; il più giovane, il più inquieto e l’unico proclive all’insubordinazione. Una sera vennero da lui i fratelli per raccomandargli, nell’interesse comune, prudenza e accortezza; e fu per me (di cui nessuno si curava, perché gli adulti credono che i ragazzi certe cose non le capiscano) una sera assai istruttiva. Dopo servito da bere, le donne si ritirarono nella stanza accanto. Io rimasi accovacciato in un angolo del grande camino, attorno al quale gli uomini si disposero a semicerchio. Erano uomini alti e forti, quasi solenni, i più anziani avevano grandi barbe, piedi enormi, ginocchia spalle mani poderose. Senza riguardo all’età e all’agiatezza familiare, essi continuavano ad accudire personalmente a fatiche assai dure, conducevano i carri, guidavano l’aratro, dirigevano la trebbiatura. Il bisogno di lavorare sembrava in essi necessità fisica. Erano uomini di chiesa, ma non di sacrestia; uomini d’ordine, non di anticamera; ed erano stati allevati nell’orgoglio del coraggio davanti a qualsiasi pericolo, davanti a una bestia infuriata, a un’alluvione, a un incendio. Quella sera però parevano assai imbarazzati.
«La candidatura del Principe è un’autentica buffonata» ammetteva il fratello più vecchio. «Le candidature politiche dovrebbero essere riservate agli avvocati e a somiglianti chiacchieroni. Ma siccome il Principe è candidato, a noi non resta che appoggiarlo.»
«Se la candidatura del Principe è una buffonata», rispondeva mio padre «non capisco perché dobbiamo sostenerla.»
«Perché, come sai, noi dipendiamo in parte da lui» gli fu risposto.
«Non in politica» diceva mio padre. «In politica siamo liberi.»
«Noi non coltiviamo la politica, ma la terra» gli veniva replicato. «Le nostre terre non sono soltanto sulle colline. Come coltivatori del Fucino dipendiamo dal Principe.»
«Nel contratto del Fucino» diceva mio padre «non si parla di elezioni, ma di patate, di barbabietole. Come elettori siamo liberi.»
«Anche l’amministrazione del Principe sarà poi libera di non rinnovarci il contratto» gli veniva risposto. «Ecco perché siamo costretti a dichiararci per lui.»
«Non posso votare il nome di qualcuno solo perché costretto» diceva mio padre. «Mi vergogno.»
«Nessuno saprà come tu voterai» gli veniva risposto. «Nel segreto della cabina elettorale tu voterai come ti pare, liberamente. Ma durante la campagna elettorale, tutti assieme dobbiamo dichiararci per il Principe.»
«Lo farei con piacere se non mi vergognassi» diceva mio padre. «Ma, credetemi pure, mi vergognerei troppo.»
Per finire, i miei zii e mio padre arrivarono a questo compromesso: egli non si sarebbe dichiarato né per il Principe né contro.
Il giro elettorale del Principe fu preparato accuratamente dalle autorità civili, dalla polizia, dai carabinieri e dall’amministrazione del Feudo. E finalmente, una domenica, il Principe si degnò di attraversare, senza fermarsi e senza pronunziare discorsi, i principali comuni del collegio. Quel suo viaggio è rimasto memorabile dalle nostre parti soprattutto perché egli lo compì in automobile, ed era la prima volta che quel nuovo veicolo appariva nella nostra contrada. La stessa parola automobile non era ancora entrata nel nostro linguaggio corrente: in vece sua i contadini dicevano la “carrozza senza cavalli”. Strane leggende correvano sulla invisibile forza motrice che sostituiva i cavalli, sulla diabolica velocità del nuovo veicolo, e sugli effetti rovinosi, specialmente per le vigne, del puzzo ch’esso lasciava dietro di sé. Quella domenica tutta la popolazione del nostro comune andò incontro al Principe lungo la strada da cui era annunziato il suo arrivo. Numerosi erano i segni visibili dell’ammirazione e dell’affetto collettivo. Erano stati eretti archi di trionfo, e la folla, vestita a festa, mostrava un’eccitazione ben comprensibile. La “carrozza senza cavalli” arrivò con ritardo, e rombando attraversò la folla e l’abitato, senza fermarsi e senza neppure rallentare, lasciando dietro di sé un fitto polverone bianco. Gli agenti del Principe poi spiegarono, a chi voleva ascoltarli, che la “carrozza senza cavalli” corre “a vapore di benzina” e non può fermarsi che quando la benzina termina. «Non è come con i cavalli», essi spiegavano «con i cavalli basta tirare le redini. Lì non vi sono redini. Avete visto forse le redini?» Due giorni dopo arrivò in piazza un curioso vecchietto da Roma; portava gli occhiali, un bastoncino nero e una valigetta. Nessuno lo conosceva; si chiamava Scellingo. Egli disse di essere un medico oculista e di aver presentato, a nome del Partito del Popolo, la propria candidatura contro quella del Principe. Pochi curiosi l’attorniarono, per lo più bambini e donnette senza diritto di voto. Tra i ragazzi ero anch’io, con i calzoni corti e i quaderni di scuola sotto il braccio. Supplicammo il vecchietto di tenerci un discorso. Egli non era un oratore e perciò si limitò a dirci: «Ricordate ai vostri genitori che il voto è segreto. Nient’altro». Poi aggiunse: «Sono povero; vivo facendo il medico; ma se qualcuno ha gli occhi malati, volentieri lo curo gratis». Gli portammo una vecchia fruttivendola che da molti anni aveva gli occhi malati, ed egli le pulì gli occhi, le regalò una boccettina con le gocce e le spiegò come si usavano. Poi disse ai presenti (eravamo solo un gruppo di ragazzi): «Ricordate ai vostri genitori che il voto è segreto». E se ne ripartì. Ma l’elezione del Principe era talmente sicura, a giudicare dalle folle festanti che l’avevano salutato nel suo fulmineo giro elettorale, che le autorità e l’amministrazione del Feudo annunziarono in anticipo tutto un programma per la celebrazione dell’immancabile vittoria. Mio padre, secondo gli accordi presi con i fratelli, si astenne dal parteggiare per l’uno o per l’altro candidato, fu insolitamente taciturno, ma riuscì a farsi includere tra gli scrutatori dei risultati. Grande fu la sorpresa di tutti allorché fu reso noto che nel segreto delle urne l’enorme maggioranza degli elettori aveva votato per lo sconosciuto medico oculista. Grande fu lo scandalo. Le autorità lo definirono addirittura un abietto tradimento. E, quel ch’è peggio, esso era in proporzioni tali da interdire all’amministrazione del Feudo ogni possibilità di rappresaglia contro singoli contadini. (A mo’ di risarcimento il Principe fu dal re nominato senatore.)
Dopodiché la vita della contrada riprese le sue forme consuete. Nessuno si chiese: perché la libera volontà dei cittadini non può manifestarsi che in casi sporadici? A tanto nessuno arrivava. Ad ogni modo, non sarebbe giusto credere che l’impedimento maggiore fosse la paura. Non era gente vile o fiacca. La rigidità del clima, la pesantezza del lavoro, la sobrietà del tenore di vita l’avevano resa assai tenace e dura. Ma pesavano su di essa secoli di rassegnazione, fondati sulla violenza e gl’inganni. L’esperienza giustificava il più nero pessimismo. Gli animi umiliati e offesi erano capaci di subire senza lamentarsi i peggiori soprusi, finché non esplodevano in rivolte improvvise. Non per nulla, nel mio comune nativo, che allora contava circa cinquemila abitanti, l’ordine pubblico era custodito da una ventina di carabinieri comandati da un tenente…
Tra soldati e carabinieri, durante la prima guerra mondiale, non correva un’eccessiva simpatia, essendo questi ultimi addetti ai servizi di retrovia, e ve n’erano anche che, come a torto o a ragione si raccontava, nell’interno del paese si occupavano un po’ troppo assiduamente delle mogli e delle fidanzate dei militari lontani. Nei piccoli centri queste dicerie sottintendono quasi sempre indicazioni personali assai precise. Così una sera avvenne che tre soldati, tornati in breve licenza dal fronte, ebbero un diverbio per motivi di gelosia con alcuni carabinieri, e da questi furono messi in arresto. Il provvedimento, di per sé ridicolo e poco cavalleresco, divenne addirittura mostruoso con la decisione del comandante dei carabinieri di sospendere la licenza dei tre soldati e rinviarli senz’altro al fronte. Essendo io particolarmente amico di uno di essi (poi morto in guerra), sua madre venne piangendo a riferirmi l’ingiustizia di cui egli stava per essere vittima. Il sindaco, il pretore, il parroco, da me sollecitati a intervenire, si dichiararono incompetenti.
Da quando ero rimasto solo, mi ero trasferito nel quartiere più povero e disprezzato del comune, costituito da baracche a un solo piano prive di servizi igienici essenziali. Per accedervi bisognava passare un fosso che le autorità locali avevano chiamato il Tagliamento, dal fiume che in quell’epoca costituiva la linea del fronte di guerra tra l’esercito italiano e quello austriaco. Terra nemica dunque. In modo strano l’appellativo fu assai gradito agli interessati, i quali adottarono ben presto alcuni provvedimenti propri di ogni zona di guerra. Per prima cosa, si procedé all’oscuramento notturno, mediante la distruzione a sassate delle lampade d’illuminazione pubblica. Così divenne pericoloso, anche per i carabinieri, avvicinarsi al Tagliamento durante la notte. I malcapitati erano accolti a sassate d’invisibile provenienza.
La sera dell’arresto dei tre soldati, quando tra le baracche si sparse la notizia che l’indomani essi sarebbero stati rispediti al fronte, l’opinione dei giovani considerò il fatto un sopruso da impedire. In parole chiare, ci incombeva il rischio di tentare un’altra “rivoluzione”.
Nel nostro dialetto, assai povero di termini politici, ci si serviva di questa fatale parola, anche per designare una semplice dimostrazione non consentita dalle autorità. In quel periodo di guerra, ad esempio, nel nostro comune avevano già avuto luogo due “rivoluzioni”: la prima contro il municipio per il tesseramento del pane, la seconda contro la Chiesa per il trasferimento in altro comune della sede vescovile. La terza dimostrazione violenta, di cui ora sto narrando, passò poi alle cronache come la “rivoluzione dei tre soldati”. Poiché i tre soldati dovevano essere scortati al treno delle ore diciassette, la “rivoluzione” fu fissata per mezz’ora prima, davanti alla caserma. E disgraziatamente essa ebbe uno svolgimento più grave di quello che fosse nei nostri intenti. Cominciò come uno scherzo, poiché bastammo, per scatenarla, pochi ragazzi: uno che, al momento giusto, salì sul campanile e cominciò a suonare a martello la campana grande, come si usa in caso di grave incendio o d’altro pericolo pubblico; un secondo, che prese a suonare la tromba della lega dei contadini; e altri che, per spiegare di che si trattasse e incamminarli verso la caserma, andammo incontro ai contadini accorrenti dai campi.
In pochi minuti una folla minacciosa e tumultuante, composta da donne ragazzi e uomini anziani, poiché i giovani erano in guerra, si radunò davanti alla caserma dei carabinieri. Dalle grida si passò presto alle sassate, a cui i carabinieri, raccolti nel cortile della caserma, risposero con salve in aria. Le detonazioni eccitarono vieppiù la folla. L’assedio della caserma durò fino a tardi. Il furore aveva reso i paesani irriconoscibili. Per finire, le finestre e le porte della caserma furono infrante; i carabinieri, protetti dall’oscurità, si salvarono con la fuga attraverso gli orti e i campi; e i tre soldati, ai quali più nessuno pensava, se ne tornarono inosservati a casa loro. Per un’intera notte noi ragazzi rimanemmo così padroni assoluti del luogo. Fu una notte memorabile. Ci radunammo sulla sommità della collina che sovrastava la caserma. Era una radura sassosa, con grandi buche e cespugli di cardi, di ginestre, di rose selvatiche, territorio ben noto ai nostri giochi e sfide. La notte era chiara e solenne; e si levò una brezza che ci portava dalla montagna odori d’erbe selvatiche. Nel contarci scoprimmo che uno dei “nostri” era stato ferito al braccio da un colpo di fucile; e noi, invece di pensare subito al medico, lo guardavamo con invidia. «Come hai fatto?» gli chiedevamo. Egli sorrideva lusingato e non ci rispondeva, come se fosse un segreto. Ai piedi della collina, intanto, ogni agitazione pareva assopita, le vie erano deserte; ma due o tre madri ogni tanto si sporgevano dalla finestra di casa e chiamavano i figli non ancora rincasati, li chiamavano con grida prolungate, perché la voce arrivasse fin sulla collina, e li invocavano, li supplicavano coi diminutivi affettuosi dell’uso familiare.
«Le mamme sono veramente assurde» si scusò con noi uno dei chiamati.
«Ci rendono ridicoli» aggiunse un altro.
A me la brezza della montagna stava facendo però un altro effetto, riportandomi a una visione meno romantica della situazione e delle mie responsabilità; gli altri s’accorsero del mio imbarazzo.
«Adesso che facciamo?» gli altri ragazzi volevano sapere da me. (La mia autorità, più che altro, veniva dal fatto che avevo studiato il latino.)
«Domani mattina» dissi «certamente il paese sarà occupato da centinaia e centinaia di armati, carabinieri e poliziotti, che arriveranno da Avezzano, da Sulmona, da Aquila, forse anche da Roma.»
«Ma prima che essi arrivino, questa notte, noi che facciamo?» questo gli altri ragazzi volevano sapere.
«Una sola notte evidentemente non basta» dissi credendo d’indovinare il loro desiderio «per creare un vero ordine nuovo.»
«Non si potrebbe approfittare del fatto che tutto il paese dorme, per fare il socialismo?» proposero alcuni. Essi avevano udito quella parola da poco, senza afferrarne il significato; e forse essi pensavano che ormai tutto fosse possibile.
«Non credo», dovetti rispondere «veramente non credo, anche se tutto il paese dorme, che una sola notte possa bastare per fare il socialismo.»
«Una sola notte potrebbe bastare per dormire nel proprio letto prima di andare in carcere» suggerì infine uno dei presenti.
E siccome eravamo stanchi, quel consiglio fu trovato giudizioso e tempestivo.
Simili episodi di violenza, con l’inevitabile seguito di arresti in massa, di processi, di esorbitanti prese giudiziarie, di condanne penali rafforzavano negli animi dei contadini, come è facile immaginare, la sfiducia la diffidenza la rassegnazione. Lo Stato riacquistava i suoi connotati d’irrimediabile creazione del diavolo. Un buon cristiano, se vuol salvarsi l’anima, eviti pertanto il più che sia possibile ogni contatto con esso. Lo Stato è sempre ruberia, camorra, privilegio, e non può essere altro. Né la legge né la forza possono cambiarlo. Se il castigo talvolta lo colpisce, è per disposizione di Dio.
Nel 1915 un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso circa trentamila persone. Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C’era anzi da stupirsi che i terremoti non capitassero più spesso. Nel terremoto morivano infatti ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza. Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie.
Non è dunque da stupire se quello che avvenne dopo il terremoto, e cioè la ricostruzione edilizia per opera dello Stato, a causa del modo come fu effettuata, dei numerosi brogli frodi furti camorre truffe malversazioni d’ogni specie cui diede luogo, apparve alla povera gente una calamità assai più penosa del cataclisma naturale. A quel tempo risale l’origine della convinzione popolare che, se l’umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle, non sarà in un terremoto o in una guerra, ma in un dopo-terremoto o in un dopo-guerra.
Un mio conoscente, licenziato da uno di quegli uffici statali incaricati della ricostruzione, mi rivelò un giorno un certo numero di dati precisi che costituivano altrettanti reati degli ingegneri suoi ex colleghi. Assai impressionato, mi affrettai a parlarne con alcune persone autorevoli, che conoscevo come probe e oneste, perché denunziassero i crimini. Non solo quei galantuomini da me consultati non ne contestavano l’autenticità, ma essi stessi erano in grado di confermarla; tuttavia mi sconsigliarono di “impicciarmi di quei fatti”, e aggiungevano affettuosamente:
«Devi terminare gli studi, devi crearti una posizione, non devi comprometterti in affari che non ti riguardano.»
«Volentieri» rispondevo. «Certo è preferibile che la denunzia non parta da un ragazzo di diciassette anni, ma da persone adulte e autorevoli.»
«Noi non siamo mica pazzi» mi rispondevano indignati. «Noi intendiamo occuparci unicamente dei fatti nostri e di nient’altro.»
Ne parlai allora con alcuni reverendi sacerdoti, e anche con qualche parente più coraggioso, e tutti, rivelandomi di essere più o meno al corrente di quelle turpitudini, mi scongiuravano di non intromettermi in quel vespaio, di pensare agli studi, alla carriera, all’avvenire.
«Con piacere», rispondevo «ma qualcuno di voi è disposto a denunziare i ladri?»
«Non siamo matti» essi mi rispondevano scandalizzati. «Sono affari che non ci riguardano.»
Cominciai allora a riflettere seriamente sull’opportunità di promuovere, con qualche ragazzo, una nuova “rivoluzione” che si concludesse in un bell’incendio degli uffici; ma il conoscente che mi aveva fornito la documentazione sulle malefatte degli ingegneri mi dissuase dal farlo, per non distruggere la prova stessa dei reati. Egli aveva più anni e più esperienza di me; e mi suggerì di formulare la denuncia su qualche giornale. Ma quale giornale? «Ve n’è uno» il mio conoscente mi spiegò «che può avere interesse a ospitare una simile denuncia, è il giornale dei socialisti.» Fu così che io scrissi tre articoli (i primi articoli della mia vita) per esporre e documentare minuziosamente i loschi affari degli ingegneri statali nella mia contrada, e li spedii all’«Avanti!». I primi due articoli furono subito stampati e suscitarono grande scalpore presso il pubblico dei lettori, ma nessuno presso le autorità. Il terzo articolo non apparve, come seppi più tardi, per l’intervento presso la redazione di un autorevole avvocato socialista. In tal guisa appresi che il sistema d’inganno e di frode che ci opprimeva era assai più vasto di quello che appariva, e aveva invisibili ramificazioni anche tra i notabili del socialismo. La parziale denuncia, avvenuta di sorpresa, conteneva però materia per vari processi, o almeno per un’inchiesta ministeriale; invece non accadde nulla. Da parte degli ingegneri, da me denunziati come ladri e accusati di fatti esplicitamente indicati, non vi fu neppure il tentativo di una rettifica o di una generica smentita. Dopo una breve attesa, ognuno tornò a pensare ai fatti propri.
Lo studente che aveva osato lanciare la sfida fu considerato, dai più benevoli, ragazzo impulsivo e strambo. Bisogna tener conto che la povertà economica delle province meridionali offriva scarse possibilità di sviluppo ai giovani che ogni anno a migliaia uscivano dalle scuole. La sola nostra grande industria era allora l’impiego di Stato. Ciò non richiedeva eccezionali qualità d’intelligenza, ma docilità di carattere e conformismo politico. I giovani meridionali, cresciuti in un ambiente come quello, se avevano un minimo di fierezza e una qualche umana sensibilità, tendevano naturalmente all’anarchia e alla rivolta. L’accesso all’impiego di Stato comportava dunque per essi, ancora sulla soglia della gioventù, una rinunzia, una capitolazione, e la mortificazione dell’anima. Perciò si usava dire, ed era il vero fondamento della società meridionale: anarchici a vent’anni, conservatori a trenta.
L’educazione che si riceveva nelle scuole, sia pubbliche che private, non era concepita d’altronde per irrobustire il carattere. Dalla mia adolescenza ad oggi la situazione è in parte mutata, ma non so se migliorata. Una buona parte delle classi ginnasiali e liceali io le ho frequentate presso istituti privati cattolici. L’istruzione umanistica che vi veniva impartita era discreta; l’educazione del costume privato o intimo, ingenua e pulita; ma l’educazione civile addirittura pessima, in parte per il conflitto ancora aperto tra Stato e Chiesa. Così, ad esempio, l’insegnamento della storia era allora esplicitamente ostile a quello ufficiale; la mitologia risorgimentale e i suoi eroi (Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Cavour) erano oggetti di dileggio e denigrazione; la letteratura allora prevalente (Carducci, Pascoli, D’Annunzio) disprezzata. E in un certo senso, sviluppando lo spirito critico degli allievi, quell’insegnamento comportava anche alcuni vantaggi. Ma gli stessi professori ecclesiastici, poiché dovevano prepararci agli esami delle scuole pubbliche, e dai nostri risultati dipendevano la fama e la prosperità del loro istituto, ci insegnavano anche, e ci raccomandavano per gli esami, le tesi contrarie al proprio convincimento. D’altra parte, gli esaminatori delle scuole di Stato, conoscendo la nostra provenienza da scuole confessionali, si dilettavano a interrogarci sui temi più polemici, e ironicamente poi ci lodavano per la liberale spregiudicatezza dell’insegnamento ricevuto. La falsità, l’ipocrisia, la doppiezza dell’espediente erano troppo sfacciate per non suscitare un comprensibile turbamento in chiunque portasse in sé un po’ d’amore per la cultura. Ma era anche inevitabile che la media dei malcapitati allievi finissero col concepire i diplomi, e il futuro impiego, come le realtà supreme della vita. Tutte le mie preghiere di collegiale concludevano allora in una sola domanda di grazia: «Mio Dio, aiutami a vivere senza tradire».
«Quelli che nascono in quella contrada sono veramente disgraziati» mi ripeteva il Dr. F.J., un medico di un villaggio vicino. «Qui non c’è via di mezzo: o ribellarsi o essere complici.» Egli si ribellò. Si dichiarò anarchico. Tenne discorsi tolstoiani alla povera gente. Divenne lo scandalo dell’intera contrada. Odiato dai ricchi, deriso dai poveri, compatito in segreto solo da pochi, gli fu infine tolto il posto di medico condotto e morì letteralmente di fame. Il suo destino serviva di esempio nelle buone famiglie. «Se non mettete giudizio», dicevano le madri ai figli «finirete come quel pazzo.»
L’itinerario da me qui ricostruito è troppo lineare per non apparire forzato. Posso soltanto garantirne la sincerità, non l’obiettività. Rievocando con i miei coetanei quell’epoca, sono talvolta stupito ch’essi non abbiano alcun ricordo, o assai pallido, degli episodi che su me esercitarono influenza decisiva; e viceversa conservino lucida memoria d’altre circostanze, per me futili e insignificanti. Sono essi, quei miei coetanei, tutti “complici incoscienti”? Certamente no. E per quale destino o virtù o nevrosi, a una certa età si compie la grave scelta, si diventa “ribelli”? Scegliamo o siamo scelti? Donde viene ad alcuni quell’irresistibile intolleranza della rassegnazione, quell’insofferenza dell’ingiustizia, anche se colpisce altri? E quell’improvviso rimorso d’assidersi a una tavola imbandita, mentre i vicini di casa non hanno di che sfamarsi? E quella fierezza che rende le persecuzioni preferibili al disprezzo?
Forse nessuno lo sa. Anche la confessione più approfondita diventa, a un certo punto, semplice constatazione o descrizione, non risposta. Ognuno, che abbia seriamente riflettuto su se stesso e sugli altri, sa quanto certe deliberazioni siano segrete, e certe vocazioni misteriose e incontrollabili. Vi era nella mia ribellione un punto in cui il rifiuto e l’amore coincidevano: sia i fatti che giustificavano l’indignazione, sia i motivi morali che l’esigevano, mi erano dati dalla contrada nativa. Il passo dalla rassegnazione alla rivolta era brevissimo: bastava applicare alla società i principii ritenuti validi per la vita privata. Così mi spiego anche perché tutto quello che finora m’è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia anche viaggiato e vissuto a lungo all’estero, si riferisca unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui, e che non misura più di trenta o quaranta chilometri in un senso e nell’altro.
È una contrada, come il resto d’Abruzzo, povera di storia civile, e di formazione quasi interamente cristiana e medievale. Non ha altri monumenti degni di nota che chiese e conventi. Per molti secoli non ha avuto altri figli illustri che santi e scalpellini. La condizione dell’esistenza umana vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi è sempre stato considerato come la prima delle fatalità naturali; e la Croce, in tal senso, accolta e onorata. Agli spiriti vivi le forme più accessibili di ribellione al destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo e l’anarchia. Presso i più sofferenti, sotto la cenere dello scetticismo, non s’è mai spenta l’antica speranza del Regno, l’antica attesa della carità che sostituisca la legge, l’antico sogno di Gioacchino da Fiore, degli Spirituali, dei Celestini. E questo è un fatto d’importanza enorme, fondamentale, sul quale nessuno ancora ha riflettuto abbastanza. In un paese deluso esaurito stanco come il nostro, questa mi è sempre apparsa una ricchezza autentica, una miracolosa riserva. I politici l’ignorano, i chierici la temono, e forse solo i santi potranno mettervi mano. Invece assai più ardua, se non inaccessibile, è sempre stata tra noi la percezione delle vie e dei mezzi per una rivoluzione politica, hic et nunc, creatrice di società libere e sane.
A questa scoperta credetti di arrivare, dopo il mio trasferimento in città, al primo contatto col movimento operaio. Fu una specie di fuga, di uscita di sicurezza da una solitudine insopportabile, un “terra! terra!”, la scoperta di un nuovo continente. Ma la conciliazione d’uno stato d’animo di ammutinamento contro una vecchia realtà sociale inaccettabile, con le esigenze “scientifiche” di una dottrina politica minutamente codificata, non fu agevole. Poiché mi rendevo conto che l’adesione al partito della rivoluzione proletaria non era da confondere con la semplice iscrizione a un qualsiasi partito politico. Per me, come per molti altri, era una conversione, un impegno integrale, che implicava un certo modo di pensare e un certo modo di vivere. Erano ancora i tempi in cui il dichiararsi socialista o comunista equivaleva a gettarsi allo sbaraglio, rompere con i propri parenti e amici, non trovare impiego. Le conseguenze materiali furono dunque deleterie, e le difficoltà dell’adattamento spirituale non meno dolorose. Il proprio mondo interno, il “medioevo” ereditato e radicato nell’anima, e da cui, in ultima analisi, derivava lo stesso iniziale impulso della rivolta, ne fu scosso fin nelle fondamenta, come da un terremoto. Nell’intimo della coscienza tutto venne messo in discussione, tutto diventò un problema. Fu nel momento della rottura che sentii quanto fossi legato a Cristo in tutte le fibre dell’essere. Non ammettevo però restrizioni mentali. La piccola lampada tenuta accesa davanti al tabernacolo delle intuizioni più care fu spenta da una gelida ventata. La vita, la morte, l’amore, il bene, il male, il vero cambiarono senso, o lo perdettero interamente. Tuttavia sembrava facile sfidare i pericoli non essendo più solo nell’azione. Ma chi racconterà l’intimo sgomento, per un ragazzo di provincia, mal nutrito, in una squallida cameretta di città, della definitiva rinunzia alla fede nell’immortalità dell’anima? Era troppo grave per poterne discorrere con chicchessia; i compagni di partito vi avrebbero forse trovato motivo di derisione, e gli altri amici non v’erano più. Così, all’insaputa di tutti, il mondo cambiò aspetto.
Le condizioni di vita imposte dalla conquista fascista dello Stato furono assai dure per i comunisti, ma costituivano anche la pietra di paragone di alcune loro tesi politiche e l’occasione di attuare un tipo d’organizzazione assai adatta alla loro mentalità. Così, anch’io, durante alcuni anni, m’adattai a vivere come straniero in Patria. Fu necessario cambiar nome, abbandonare ogni precedente relazione di famiglia e consuetudine, fissare la residenza in province prima mai frequentate, e condurre una vita apparente che allontanasse ogni sospetto d’azione cospirativa. Il partito diventò famiglia scuola chiesa e caserma; all’infuori d’esso il mondo restante era tutto da distruggere. Il meccanismo psicologico della progressiva identificazione del singolo militante comunista con l’organismo collettivo è ormai noto; è quello stesso che dà risultati press’a poco identici in alcuni ordini religiosi e in certe scuole militari. Ogni sacrificio era ben accetto, come un doveroso contributo personale al “prezzo del comune riscatto”. E sia ben chiaro che i vincoli che ci legavano al partito erano sempre più saldi, non malgrado i pericoli e i sacrifici ch’essi comportavano, ma grazie a essi. Ciò spiega anche l’attrazione del comunismo su alcune categorie di giovani e di donne, sugli intellettuali, sulle persone più sensibili e più inclini alla generosità e che più soffrono della “dissipazione” della società borghese. Anche oggi, chi pensa di poter distogliere dal comunismo i migliori e più seri tra i giovani attirandoli a giocare al biliardo in locali ben riscaldati, parte da un’idea assai limitata e alquanto sprezzante dell’uomo (benché la qualità dei soci di un partito di massa sia ovviamente diversa da quella di un piccolo partito clandestino).
Non è da stupire pertanto se le prime crisi politiche che colpirono l’Internazionale Comunista mi lasciarono piuttosto indifferente. La loro origine era nel fatto che i principali partiti membri della nuova Internazionale, anche dopo la formale accettazione delle famose ventuno condizioni dettate da Lenin per la loro ammissione, erano tutt’altro che omogenei. Essi avevano in comune l’avversione alla guerra imperialistica e ai suoi risultati, come pure la critica delle concezioni riformiste della seconda Internazionale; ma, per il resto, bene o male, rispecchiavano l’ineguale grado di sviluppo dei singoli paesi. Notevoli erano perciò le divergenze tra il bolscevismo russo, formatosi in un ambiente senza libertà politica e di vita sociale scarsamente differenziata, e i gruppi della sinistra socialista dei paesi occidentali. La storia dell’Internazionale Comunista fu perciò una storia d’intrighi e prepotenze del gruppo dirigente russo contro ogni espressione indipendente degli altri Partiti affiliati. Gli uni dopo gli altri, furono costretti a rompere con l’Internazionale Comunista i gruppi più legati alle tradizioni parlamentari (Frossard), i gruppi più ossequienti alla legalità e indignati per qualche avventura “putchista” (Paul Levi), gli elementi libertari che avevano perduto le loro illusioni sulla democrazia sovietica (Roland-Holst), i sindacalisti rivoluzionari contrari alla sottomissione burocratica dei sindacati al Partito comunista (Pierre Monatte, Andrés Nin), i gruppi più restii a rompere ogni collaborazione con le masse socialdemocratiche (Brandler, Bringolf, Tasca), e l’estrema sinistra insofferente delle svolte opportunistiche (Bordiga, Ruth Fischer, Boris Souvarine). Queste crisi interne nascevano e si svolgevano in una sfera lontana da quella in cui molti di noi ci trovavamo impegnati, e perciò non vi fummo coinvolti. Di ciò ora non mi vanto affatto, al contrario; ma cerco di spiegarmelo. La crescente degenerazione tirannica e burocratica dell’Internazionale Comunista ispirava anche in me repulsione e disgusto, ma v’erano alcuni forti motivi che m’inducevano a rinviare una rottura: la solidarietà con i compagni di lotta morti o imprigionati, l’inesistenza d’altre forze antifasciste organizzate in Italia, la rapida decadenza politica, e in alcuni casi anche morale, di alcuni di quelli che si erano già allontanati dal comunismo, infine l’illusione di un risanamento dell’Internazionale con l’aiuto del proletariato occidentale nell’eventualità di una crisi interna del regime sovietico.
Tra il 1921 e il 1927 ebbi varie occasioni di recarmi a Mosca per partecipare, quale membro di delegazioni comuniste italiane, a congressi e riunioni. Ciò che mi colpì nei comunisti russi, anche in personalità veramente eccezionali come Lenin e Trotzky, era l’assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz’altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava per i comunisti russi inconcepibile. Quale incosciente aberrazione, da parte di polemisti sedicenti materialisti e razionalisti, di affermare in termini tanto assoluti il primato della moralità sull’intelligenza. È stato giustamente già osservato che per ritrovare un’infatuazione analoga bisogna risalire agli antichi processi inquisitoriali contro gli eretici. Nel momento di lasciare Mosca, nel 1922, Alexandra Kollontaj mi disse scherzosamente: «Se ti accadrà di leggere sui giornali che Lenin mi ha fatto arrestare perché io ho rubato le posate d’argento del Cremlino, vorrà dire semplicemente che su qualche problema della politica agricola o industriale non sono pienamente d’accordo con lui». La Kollontaj aveva acquistato in Occidente il suo senso dell’ironia e ne faceva uso solo in conversazioni con gli occidentali. Ma già allora, negli anni febbrili della creazione del nuovo regime, quando la nuova ortodossia non si era ancora impadronita di tutta la vita culturale, com’era difficile, anche per noi comunisti occidentali, intenderci con un comunista russo sulle questioni più semplici e ovvie. Quant’era difficile, non dico trovarsi d’accordo ma almeno capirsi, dialogare su ciò che la libertà significasse per un uomo dell’Occidente, anche operaio. Ricordo di aver cercato un giorno, durante varie ore, di spiegarlo ad una dirigente della casa editrice dello Stato, perché almeno si vergognasse dell’atmosfera d’intimidazione e di avvilimento cui erano sottoposti gli scrittori sovietici. Ella non riusciva a capire quello che io volessi dire.
«La libertà» dovetti esemplificare «è la possibilità di dubitare, la possibilità di sbagliare, la possibilità di cercare, di esperimentare, di dire di no a una qualsiasi autorità, letteraria artistica filosofica religiosa sociale, e anche politica.»
«Ma questa» mormorò inorridita l’eminente funzionaria della vita culturale sovietica «questa è la controrivoluzione.» Poi aggiunse, per prendersi una piccola rivincita: «Noi siamo felici di non avere la vostra libertà, ma in cambio abbiamo i sanatori».
Quando le feci osservare che l’espressione “in cambio” era priva di senso, “la libertà non essendo merce di scambio”, e che di sanatori ne avevo già visti in altri paesi, mi rise in faccia.
«Voi oggi siete in vena di prendervi gioco di me» disse. Ed io fui talmente commosso dal suo candore, che non osai più contraddirla. Non vi è peggior schiavitù di quella che s’ignora.
Lo spettacolo dell’entusiasmo della gioventù russa in quei primi anni di creazione di un nuovo mondo, che tutti speravano più umano dell’antico, era veramente avvincente. E che amara delusione quando, col passare degli anni, a mano a mano che il nuovo regime si rafforzava, che la sua economia progrediva e gli attacchi armati dall’esterno cessarono, venne a mancare la democratizzazione politica promessa agli inizi e, al contrario, la dittatura accentuò il suo carattere repressivo.
Uno dei miei migliori amici, il capo della gioventù comunista russa, Lazar Sciatzkin, una sera mi confidava tutta la sua tristezza per essere nato troppo tardi e non aver partecipato né alla rivoluzione del 1905 né a quella del 1917.
«Ma di rivoluzioni ve ne saranno ancora», gli risposi «di rivoluzioni ve ne sarà sempre bisogno, anche in Russia.» Eravamo sulla Piazza Rossa, non lontano dal mausoleo di Lenin.
«Di che specie?» egli voleva sapere. «E quanto bisogna ancora aspettare?»
Allora gli accennai al mausoleo, che in quell’epoca era ancora di legno, e davanti al quale vedevamo ogni giorno sfilare lente interminabili processioni di poveri contadini straccioni.
«Suppongo che tu rispetti Lenin» gli dissi. «Anch’io l’ho conosciuto e conservo di lui un forte ricordo. Devi dunque ammettere che questo superstizioso culto di lui ridotto a mummia è un’offesa alla sua memoria, una vergogna per una città rivoluzionaria come Mosca.»
Gli proposi, in breve, di procurare qualche bidone di benzina e di celebrare, per nostro conto, una “piccola rivoluzione”, incendiando la superstiziosa baracca del totem. A essere sincero, non m’aspettavo ch’egli accettasse senz’altro la mia proposta, ma che almeno ne ridesse e capisse quello che intendevo dire, affermando “di rivoluzioni ve ne sarà sempre bisogno”. Invece il mio povero amico fu colpito da un estremo sgomento e prese fortemente a tremare. Poi mi pregò di non dire più parolacce simili, né a lui e ancor meno ad altri. (Dieci anni dopo, ricercato come complice di Zinoviev, egli si uccise gettandosi dal quinto piano della sua abitazione.) Stranezze della memoria: ho assistito alla sfilata di immense parate di popolo e di armati sulla Piazza Rossa, ma nella mia mente il ricordo dell’emozione e della voce intimorita di quel giovane amico, così tragicamente finito, è rimasto più forte d’ogni altra immagine. Potrebbe anche darsi che quel ricordo sia “storicamente” più significativo.
Una delle poche persone con le quali osavo parlare a cuore aperto era Anatol Lunaciarskij che, com’è noto, fin dalla costituzione del nuovo Stato, ricopriva a Mosca le funzioni di commissario all’istruzione e alle opere culturali. Io ero rimasto in una certa dimestichezza con lui dopo il nostro primo incontro, avvenuto in modo piuttosto bizzarro, essendo egli incaricato, per la buona conoscenza che aveva dell’italiano, di tradurre in russo un mio discorsetto in un teatro moscovita. Era sempre di grande giovamento parlare con lui, non solo per il motivo già accennato della sua eccellente conoscenza della nostra lingua e cultura, ma anche per essersi egli formato nell’emigrazione all’infuori del ristretto e rigoroso cerchio leninista, manifestandosi ciò, tra l’altro, in un tono di conversazione cordiale e tollerante, di stile quasi occidentale.
«Non fate di noi i capri espiatori di tutta la nostra storia» egli mi disse un giorno che mi lamentavo con lui dell’ottusità di spirito dei suoi funzionari. «Noi non siamo arretrati rispetto a voi soltanto in materia tecnica. Noi non dobbiamo, con le forze della rivoluzione proletaria, compiere qui soltanto la rivoluzione industriale che in Occidente è stata fatta dai borghesi; ma dobbiamo far compiere ai russi anche tutti gli altri progressi spirituali che qui sono mancati. Noi non abbiamo avuto Machiavelli, non abbiamo avuto Galilei, non abbiamo avuto Giordano Bruno, non abbiamo avuto Beccaria, per limitarmi solo ai vostri. E per averli, non basta evidentemente tradurre in russo i loro testi.»
«Non capisco allora» mi permisi di replicare «perché il Comintern mandi in Italia, a farci lezione, certi personaggi che avrebbero ancora molto da imparare.»
«Ciò riguarda Gregorio Zinoviev» m’interruppe Lunaciarskij, e cambiò discorso.
La storiografia dell’Internazionale Comunista non è facile, e senza dubbio è ancora prematura. Come discernere il fatuo e l’essenziale nelle interminabili discussioni dei suoi congressi e convegni? Quali pagine abbandonare negli archivi alla critica dei topi e quali raccomandare alle persone intelligenti desiderose di capire? Non saprei dire. Quello che la mia memoria con insistenza mi offre, forse a taluni può apparire soltanto bizzarro, e non ho difficoltà ad ammettere che non sempre la sensibilità coincide col giudizio storico. In una commissione speciale dell’Esecutivo si discuteva un giorno l’ultimatum posto dalla giunta centrale delle Trade Unions inglesi alle sue sezioni locali di non aderire, pena l’esclusione, al movimento minoritario diretto dai comunisti. Dopo che il rappresentante del Partito comunista inglese ebbe esposto i gravi inconvenienti del dilemma, perché, accettando, si andava verso lo scioglimento del movimento minoritario e, rifiutando, verso l’uscita dei minoritari dalle Trade Unions, il delegato russo Piatinskij propose una soluzione che a lui pareva ovvia come l’uovo di Colombo.
«Le sezioni» egli propose «dichiarino di sottomettersi alla disciplina richiesta e poi, in pratica, facciano perfettamente il contrario.»
Il comunista inglese lo interruppe:
«Ma sarebbe una bugia.»
Una risata clamorosa accolse l’ingenua obiezione, una risata franca, cordiale, interminabile, di cui i tetri uffici dell’Internazionale Comunista non avevano certo mai udito l’eguale, una risata che si propagò rapidamente a tutta Mosca, perché la spassosa incredibile risposta dell’inglese fu subito telefonata a Stalin e agli uffici più importanti dello Stato, provocando, ovunque arrivava, come più tardi apprendemmo, nuove ondate di stupore e ilarità. È molto importante per giudicare un regime, dissi a Togliatti che si trovava con me, sapere di che cosa ride.
I miei soggiorni a Mosca, come ho già detto, furono pochi e limitati alla funzione temporanea di membro di delegazioni comuniste italiane. Non ho mai fatto parte dell’apparato dell’Internazionale Comunista, ma potei seguirne la rapida corruzione osservando l’evoluzione di qualche mio conoscente che vi apparteneva. Uno di questi, veramente esemplare, era il francese Jacques Doriot. L’avevo incontrato la prima volta a Mosca nel 1921, quando egli era ancora un giovane operaio modesto volenteroso sentimentale; e fu per la sua evidente docilità e bonomia che venne scelto per l’apparato internazionale, a preferenza d’altri giovani comunisti francesi, più intelligenti e istruiti di lui, ma anche più singolari. Egli corrispose pienamente all’attesa. D’anno in anno egli divenne un’autorità tra i funzionari del comunismo internazionale e d’anno in anno, ogni volta che avevo l’occasione di rivederlo, lo trovavo cambiato in peggio, sempre più scettico cinico privo di scrupoli e, per riguardo al modo politico di considerare gli uomini e lo Stato, in un processo di rapida “fascistizzazione”. Se potessi vincere una ripugnanza, suppongo ben comprensibile, a scrivere una vera biografia di Jacques Doriot, svolgerei questo tema: «Come si possa, militando nel movimento comunista, diventare fascista». Nel 1927 incontrai Doriot a Mosca, il giorno stesso del suo ritorno da una missione politica in Cina. Ad alcuni amici e a me egli fece una relazione preoccupante degli errori dell’Internazionale Comunista e dello Stato russo nell’Estremo Oriente; ma il giorno dopo, davanti all’Esecutivo riunito in seduta plenaria, egli affermò con grande enfasi il contrario. L’ascoltammo allibiti. «È stato un atto di saggezza politica» egli ci confidò dopo la seduta con un sorrisetto di uomo superiore. Il suo caso merita menzione perché tutt’altro che isolato. Le vicende interne del comunismo francese condussero più tardi Jacques Doriot fuori dell’Internazionale Comunista e gli diedero modo di rivelarsi per quell’avventuriero che nel frattempo era diventato; ma numerosi altri, intimamente per nulla diversi da lui, sono rimasti alla direzione dei Partiti comunisti. A questi fenomeni di doppiezza e demoralizzazione dei quadri dell’Internazionale Comunista e all’atmosfera sempre più pesante d’intrighi e imbrogli negli uffici centrali alludeva Togliatti nella conclusione del suo discorso davanti al VI Congresso dell’Internazionale, chiedendo licenza di ripetere le parole di Goethe morente: «Luce, più luce».
Oltre che i contrasti interni derivanti dalla propria eterogeneità, l’Internazionale Comunista soffriva per l’immediata ripercussione nel suo seno d’ogni difficoltà dello Stato sovietico. Dopo la morte di Lenin apparve chiaro che lo Stato sovietico non sfuggiva a quella che sembra la fatalità di ogni dittatura: la graduale restrizione della sfera di quelli che partecipano alla direzione e al controllo del potere politico. Il Partito comunista russo, che aveva soppresso tutti i Partiti concorrenti e abolito ogni possibilità di discussione di politica generale nelle assemblee sovietiche, cadde esso stesso sotto un regime di eccezione: la volontà politica dei suoi iscritti venne rapidamente sostituita da quella dell’apparato. Da quel momento ogni divergenza di opinione nel gruppo dirigente era destinata a concludersi con l’annientamento fisico della minoranza da parte dello Stato. La rivoluzione che aveva annientato i suoi nemici cominciò a divorare i suoi figli prediletti. Gli dèi assetati non diedero più tregua. La frase ottimistica di Marx sul deperimento naturale dello Stato socialista si rivelava una pia illusione.
Nel maggio 1927, in rappresentanza del Partito comunista italiano, partecipai assieme a Togliatti a una sessione straordinaria dell’Esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista. Togliatti partì da Parigi dove dirigeva la segreteria politica del Partito, io dall’Italia dove ne dirigevo l’organizzazione interna. C’incontrammo a Berlino e proseguimmo assieme per Mosca. La riunione era stata indetta, in apparenza, per deliberare d’urgenza sulle direttive da impartire ai Partiti comunisti nella lotta “contro l’imminente guerra imperialistica”; ma in realtà, come subito apparve, per iniziare la “liquidazione” di Trotzky e Zinoviev ancora membri dell’Esecutivo internazionale. Come al solito, al fine d’evitare sorprese, le sedute plenarie erano precedute e in ogni particolare preparate dal cosiddetto “Senior convent” (o commissione degli anziani) formato dai capi delle più importanti delegazioni. Togliatti insistette perché io l’accompagnassi in quelle sedute ristrette, alle quali, di regola, per la delegazione italiana, egli solo aveva diritto; ma, in vista delle complicazioni che stavano per sorgere, egli preferiva avere il sostegno del rappresentante dell’organizzazione clandestina. Alla prima seduta alla quale intervenimmo, avemmo l’impressione di essere arrivati troppo tardi. Si era in un piccolo ufficio della sede dell’Internazionale Comunista e presiedeva il tedesco Ernst Thälmann, che diede subito lettura d’un progetto di risoluzione contro Trotzky da presentare in seduta plenaria. Il progetto di risoluzione condannava in termini violentissimi un certo documento di Trotzky indirizzato all’Ufficio politico del Partito comunista russo. Caso veramente eccezionale, in quella seduta del Senior convent la delegazione russa era costituita da Stalin, Rykov, Bukarin e Manuilskij. Al termine della lettura, Thälmann ci chiese se fossimo d’accordo col progetto di risoluzione. Il finlandese Ottomar Kuusinen, il futuro “Quisling” del 1941, lo trovò non abbastanza violento.
«Bisogna dire apertamente» egli suggerì «che il documento indirizzato da Trotzky all’Ufficio politico del Partito comunista russo ha un carattere nettamente controrivoluzionario ed è la prova palese che chi l’ha scritto non ha più nulla in comune con la classe operaia.»
Poiché nessun altro chiese la parola, dopo essermi consultato con Togliatti, io mi scusai con i presenti di essere arrivato in ritardo e di non aver avuto la possibilità di prendere visione del documento da giudicare.
«Veramente» dichiarò candidamente Thälmann «neppure noi conosciamo quel documento.»
A quella risposta fin troppo chiara, io preferii diffidare delle mie orecchie e ripetei con altre parole la mia obiezione.
«Può darsi benissimo» dissi «che il documento di Trotzky, di cui è questione, sia condannabile, ma evidentemente noi non lo possiamo condannare prima di averlo letto.»
«Neppure noi» ripeté Thälmann «abbiamo letto il documento, neppure la maggioranza dei delegati qui presenti, eccetto i delegati russi.»
Thälmann parlava in tedesco e le sue parole venivano tradotte in russo a Stalin e in francese a due o tre di noi. La risposta tradottami era per me così incredibile che finii col prendermela col traduttore.
«È impossibile» dissi «che Thälmann si sia espresso in codesti termini. Ti prego di ripetermi parola per parola la sua risposta.»
A quel punto intervenne Stalin. Egli era in piedi, a un lato della sala, e appariva il solo dei presenti calmo e sereno.
«L’Ufficio politico del Partito» disse Stalin «ha ritenuto che non fosse conveniente tradurre e distribuire il documento di Trotzky ai delegati dell’Esecutivo internazionale perché in esso vi sono varie allusioni alla politica dello Stato sovietico in Cina.»
(Stalin mentiva. Il misterioso documento fu più tardi pubblicato all’estero a cura dello stesso Trotzky, in un opuscolo col titolo Problemi della rivoluzione cinese e, come ognuno può ancora oggi constatare, esso non contiene alcun segreto di Stato, ma è una serrata requisitoria alla politica praticata verso la Cina da Stalin e dall’Internazionale Comunista. In un discorso del 5 aprile 1927 davanti al Soviet di Mosca, Stalin aveva infatti esaltato Chiang Kai-scek e confermato la propria fiducia nel Kuomintang, e ciò appena una settimana prima della famosa svolta anti-comunista del capo nazionalista cinese e del suo Partito, per cui i comunisti furono improvvisamente cacciati dal Kuomintang e alcune decine di migliaia di loro seguaci furono uccisi a Sciangai e a Wuhan. Si capisce dunque che Stalin non gradisse un dibattito sul suo errore e cercasse di proteggersi dietro la ragione di Stato.)
Ernst Thälmann mi chiese se quella spiegazione di Stalin mi sembrasse esauriente.
«Non contesto il diritto dell’Ufficio politico del Partito comunista russo di tener segreto un qualsiasi documento» dissi. «Ma non capisco che altri possano essere invitati a condannare un documento sconosciuto.»
L’indignazione contro di me e Togliatti, che appariva consenziente con le mie parole, non conobbe allora più freni, specialmente da parte del finlandese già nominato e di qualche bulgaro e ungherese.
«È inaudito» strillava Kuusinen tutto rosso in viso «che qui, nella cittadella della rivoluzione mondiale, si debbano ancora ospitare simili piccolo-borghesi.»
Egli pronunziava la parola piccolo-borghese con una espressione comicissima di disprezzo e ripugnanza. La sola persona rimasta calma e imperturbabile era Stalin. Egli disse:
«Se un solo delegato è contrario al progetto di risoluzione, esso non dev’essere presentato.» Poi aggiunse: «Forse i compagni italiani non sono bene al corrente della nostra situazione interna. Propongo di rinviare la seduta a domani e di incaricare qualcuno dei presenti di passare la serata con i compagni italiani per spiegare a essi la nostra situazione interna».
Il bulgaro Vasil Kolarov ricevette l’ingrato compito. Ed egli lo assolse con garbo e bonomia. Ci invitò per quella sera a bere un bicchiere di tè nella sua camera, nell’albergo “Lux”, e senza tanti preamboli affrontò il tema spinoso.
«Parliamoci chiaro» egli ci disse sorridendo. «Voi credete magari che io l’abbia letto quel documento? No, il documento non l’ho letto. Devo dirvi l’intera verità? Quel documento neppure m’interessa. Devo dirvi di più? Anche se Trotzky me ne mandasse qui, segretamente, una copia, mi rifiuterei di leggerlo. Cari amici italiani, qui non si tratta di documenti. So bene che l’Italia è il paese classico delle accademie, ma qui non siamo in un’accademia. Qui siamo in piena lotta per il potere tra due gruppi rivali del centro dirigente russo. Con quale dei due gruppi rivali vogliamo schierarci? Questa è la questione. I documenti non c’entrano. Non si tratta della ricerca della verità storica sulla fallita rivoluzione cinese. Si tratta di lotta per il potere tra due gruppi avversi e inconciliabili. Bisogna scegliere. Io, per conto mio, ho già scelto. Sono per il gruppo di maggioranza. Qualunque cosa la minoranza dica o faccia, io vi ripeto che sono per la maggioranza. I documenti non m’interessano. Qui non siamo in un’accademia.»
Egli ci riempì i bicchieri di tè e ci osservò come un maestro di scuola osserva due ragazzi discoli.
«Mi sono spiegato chiaramente?» egli chiese rivolgendosi direttamente a me.
«Certo», risposi «assai chiaramente.»
«Ti ho persuaso?» egli mi chiese.
«No» gli risposi.
«Perché no?» egli volle sapere.
«Dovrei spiegarti» gli dissi «perché sono contro il fascismo.»
Kolarov finse d’indignarsi, mentre Togliatti espresse il suo parere in termini più misurati, ma non meno recisi.
«Non ci si può dichiarare per la maggioranza o minoranza pregiudizialmente» egli disse. «Non si può ignorare il fondo della questione politica.»
Kolarov l’ascoltava con un benevolo sorriso di compassione.
«Voi siete ancora troppo giovani» egli ci disse riaccompagnandoci alla porta. «Voi non avete ancora capito cosa sia la politica.»
Il mattino seguente nel Senior convent si ripeté la scena del giorno prima. Nel piccolo ufficio in cui eravamo, gomito a gomito, una dozzina di persone, regnava un insolito nervosismo. La delegazione russa era di nuovo al completo.
«Hai spiegato ai compagni italiani di che si tratta?» chiese Stalin a Kolarov.
«Ampiamente» assicurò il bulgaro.
«Se un solo delegato» ripeté Stalin «è contrario al progetto di risoluzione, esso non potrà essere presentato in seduta plenaria. Una risoluzione contro Trotzky si può prendere solo all’unanimità. I compagni italiani» egli aggiunse rivolgendosi verso di noi «sono favorevoli al progetto di risoluzione?»
Dopo essermi consultato con Togliatti, io dichiarai:
«Prima di prendere in esame un progetto di risoluzione dovremmo conoscere il documento che nella risoluzione viene condannato.»
Il francese Albert Treint e lo svizzero Jules Humbert-Droz fecero una dichiarazione identica. (Entrambi, alcuni anni dopo, finirono anch’essi fuori dell’Internazionale Comunista.)
«Il progetto di risoluzione viene ritirato» dichiarò Stalin.
Dopodiché riassistemmo allo spettacolo isterico del giorno prima, con le proteste indignate e rabbiose dei vari Kuusinen, Rakosi e
Pepper.* Dal nostro atteggiamento scandaloso, Thälmann arguì che tutto l’indirizzo della nostra attività antifascista in Italia fosse falso e che se il fascismo deteneva ancora saldamente il potere fosse colpa nostra, e perciò chiese che la politica del Partito comunista italiano fosse sottoposta a un vaglio rigoroso.
L’esame inquisitorio fu rinviato a più tardi, e intanto cominciarono le sedute plenarie dell’Esecutivo, che non furono prive d’altri episodi istruttivi. Nella prima seduta plenaria dell’Esecutivo accadde un incidente che confermò la gravità dei contrasti nell’interno del gruppo dirigente russo e la brutale disinvoltura con la quale stavano per essere risolti. La seduta era appena iniziata quando arrivò Gregorio Zinoviev, membro regolare dell’Esecutivo; ma sull’uscio gli fu impedito d’entrare da due agenti di polizia in uniforme. Leone Trotzky, che era seduto accanto a me e a Togliatti, assisté alla scena, balzò in piedi e denunziò all’assemblea l’inaudito sopruso.
«Zinoviev, membro in pieno diritto di questo Esecutivo», egli gridò «Zinoviev che fu nominato presidente dell’Internazionale Comunista su proposta di Lenin e ha ricoperto questa carica fino a pochi mesi fa, è impedito a entrare in questa sala dalla polizia.»
Per gli altri membri della delegazione russa presenti nella riunione l’incidente, in tutta evidenza, era atteso e già scontato.
«Zinoviev» dichiarò Piatinskij «si è dimesso da presidente e da membro dell’Esecutivo nel corso dell’ultima sessione.»
Tra la sorpresa generale Togliatti chiese di parlare.
«Io ero il presidente di quella seduta» egli dichiarò. «Io venni incaricato, proprio dalla delegazione russa, di comunicare all’assemblea che Zinoviev abbandonava bensì la carica di nostro presidente, ma, così fui incaricato di specificare, egli restava membro dell’Esecutivo, essendovi stato nominato da un congresso.»
Nel frattempo Zinoviev era rimasto sulla soglia dell’uscio sempre trattenuto dai due poliziotti.
«L’incidente è chiuso» dichiarò seccamente Thälmann che presiedeva. «S’intende che Zinoviev non è più membro dell’Esecutivo.» Eravamo, puramente e semplicemente, nel regno dell’arbitrio.
Le mie reazioni a quegli episodi inverosimili erano, lo confesso, piuttosto avventate. Esse esprimevano, non certo una morale superiore, ma l’ingenua spontaneità del sovversivo provinciale, non ancora contaminato dal freddo calcolo politico. Chiedevo a Togliatti: «Credi che simili procedure siano correnti nel Sacro Collegio? Oppure, nel Gran Consiglio fascista?». Se fino a quel momento verso Trotzky, che nella sala delle riunioni continuava a prendere posto accanto a noi, m’ero comportato con una certa riservatezza, non nutrendo alcuna speciale preferenza per lui più che per Stalin, un impulso ben naturale, davanti all’odio insolente che gli ostentavano le addomesticate creature dell’apparato, finì con l’indurmi a un atteggiamento del tutto opposto. Egli non era più quale m’era apparso la prima volta che l’incontrai, nel 1921, il popolare capo dell’esercito russo, coronato dall’aureola della salvezza di Pietrogrado, ma un vecchio leone attratto in una fossa e sul punto d’essere ucciso o catturato. Agli occhi di quelli che lo sorvegliavano senza perderlo di vista, ogni suo gesto, ogni sua parola, acquistavano un’importanza sproporzionata. Ricordo che durante una di quelle sedute regalai a Trotzky alcuni numeri d’un giornaletto clandestino torinese, ed egli se ne mostrò assai toccato e mi raccontò d’un giornaletto simile, contro lo zarismo, da lui redatto a Nikolajev, quando era ancora studente. Egli conosceva poco l’Italia, perché vi era stato solo di passaggio, ma se ne ricordava con piacere, come mi raccontò, avendovi conosciuto “una bella amicizia”: le poche parole della nostra lingua a lui note erano infatti graziose e tradivano un’origine femminile. La nostra amichevole conversazione si svolgeva nelle pause del dibattito politico e durante la traduzione dei discorsi, e non sfuggiva, come ho detto, agli sguardi sospettosi dei membri dell’apparato. Ma la complicità mia e di Togliatti con Trotzky apparve ancora più evidente quando egli, nel chiudere un suo lungo e veemente discorso, poiché tra l’altro rintuzzò alcune insolenze a lui dirette dall’ungherese Béla Kun, lì presente, si scusò di terminare, com’egli disse, “con un motto nella lingua di Dante e di Togliatti”, e il motto fu: “la maniera di Béla veramente non è una bella maniera”. Benché quella espressione scherzosa fosse stata improvvisata in italiano dallo stesso Trotzky (fin lì arrivava anche il suo vocabolario) e fosse stata ascoltata da noi con non minore sorpresa degli altri presenti, ne fu attribuita a noi la paternità, senza neppure chiedercene conferma, e fu aggiunta agli altri nostri gravi demeriti politici. Insomma attorno a noi, come si dice, “cominciò a far caldo”. Eravamo in permanenza pedinati, né mancarono altri fastidi polizieschi, e gesti d’insofferenza da parte mia; ma l’apparente calma di Togliatti finì con l’agire anche su di me come un tonico.
Per precisare il senso del nostro atteggiamento in quella sessione dell’Esecutivo, Togliatti ritenne opportuno che noi due, prima di lasciare Mosca, indirizzassimo una lettera all’Ufficio politico del Partito comunista russo. Nessun comunista, diceva sostanzialmente la lettera, si perita di mettere in discussione la preminenza storica dei compagni russi nella direzione dell’Internazionale; ma ciò impone ai russi doveri speciali; essi non possono applicare il loro diritto in modo meccanico e autoritario. La lettera fu ricevuta da Bukarin, il quale ci fece subito chiamare e amichevolmente ci consigliò di ritirarla per non peggiorare la nostra situazione personale già pericolante.
Seguirono per me giornate di cupo scoraggiamento. Era quella la vera faccia del comunismo? I lavoratori che rischiavano la loro vita, quelli che agonizzavano nelle carceri, erano al servizio di un simile ideale? La nostra vita randagia solitaria pericolosa di stranieri in patria, era per questo?
Dietro il simulacro delle istituzioni create dalla rivoluzione, la realtà russa era profondamente mutata, obbedendo a una legge di decadenza che la dottrina ufficiale non prevedeva. Quella rapida degenerazione tirannica di una delle grandi rivoluzioni della storia umana era forse implicita nel principio stesso del socialismo e della proprietà statale? Oppure era il risultato dell’ideologia leninista e della sua particolare forma d’organizzazione? O soltanto dell’arretrato ambiente russo?
Prima di lasciare Mosca venne a trovarmi, nella speranza di ricevere da me conforto e incoraggiamento, un operaio comunista italiano, da vari anni profugo in Russia per sfuggire a una condanna di molti anni d’un tribunale fascista. (Egli è, credo, ancora oggi comunista.) Venne da me per lamentarsi delle condizioni umilianti della maestranza operaia nella fabbrica di Mosca in cui egli lavorava. Egli era disposto a sopportare le restrizioni materiali di ogni specie, perché, evidentemente, non dipendeva dalla sola buona volontà dei capi migliorarle; ma non riusciva a capire, mi disse, perché l’operaio fosse interamente alla mercé della direzione della fabbrica e non disponesse, effettivamente, d’alcun organo di difesa, trovandosi, anche a questo riguardo, assai peggio che nei paesi capitalistici. La maggior parte dei vantati diritti della classe operaia russa erano puramente astratti. Il fallimento, dunque, era più vasto di quello che sospettassi.
Durante il viaggio di ritorno, a Berlino, lessi sui giornali che l’Esecutivo dell’Internazionale Comunista aveva inflitto un aspro biasimo a Trotzky per un suo documento sugli avvenimenti in Cina. Mi recai nella sede del Partito comunista tedesco e chiesi spiegazioni a Thälmann. «Questo è falso» gli dissi aspramente. «Tu sai che il biasimo non è stato votato.» Ma egli mi spiegò che, in caso d’urgenza, lo statuto dell’Internazionale autorizzava la presidenza ad adottare qualsiasi deliberazione a nome dell’Esecutivo. Si era dunque aspettata la nostra partenza da Mosca per votare, a nostro nome, un testo da noi non approvato. Così anche si spiegava l’apparente impassibilità di Stalin di fronte al Senior convent. (E anche la postuma approvazione di Togliatti per il comportamento “liberale” di Stalin assume un tono di sguaiato sarcasmo.)
Nei pochi giorni di sosta forzata a Berlino, in attesa che fossero messi in ordine i miei documenti falsi per tornare in Italia, lessi sui giornali che i Partiti comunisti americano, ungherese, cecoslovacco biasimavano energicamente la lettera di Trotzky all’Ufficio politico del Partito comunista russo.
«Il misterioso documento» chiesi a Thälmann «è stato dunque finalmente fatto conoscere?»
«No» egli mi rispose. «Ma dovresti imparare dai comunisti americani, ungheresi e cecoslovacchi cosa significa disciplina comunista.»
Queste cose erano dette senza il più lontano tono d’ironia, anzi con lugubre serietà, in tutto adeguata alla realtà d’incubo cui si riferivano.
* La sostanziale veridicità di questo resoconto è stata confermata, e a modo suo giustificata, da Palmiro Togliatti nei seguenti termini (dall’articolo dell’«Unità», 6 gennaio 1950):
«… Vengo quindi senz’altro al fatto che Silone pone al centro del suo racconto e di cui fa scandalo: la riunione dell’Esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista del maggio 1927. Le cose sono veramente accadute come Silone racconta (salvo qualche inesattezza su cui non insisterò e che non ha valore): non riesco però veramente a capire come si possa addurre quello che avvenne in quella riunione come una prova che “il gruppo dirigente russo” fosse reo di “intrighi e prepotenze… contro ogni espressione indipendente degli altri partiti affiliati”. A quella riunione venne presentato dalla delegazione del partito russo (bolscevico) un progetto di risoluzione contro Trotzky e i trotzkisti. La risoluzione era tale che, approvata, avrebbe significato l’esclusione dal movimento comunista del gruppo condannato. I delegati francesi, italiani, svizzeri, spagnoli (e se ben ricordo anche i belgi), dichiararono di non essere ancora convinti della necessità di quel voto. Si trattava di partiti che, per ragioni diverse, erano allora meno direttamente al corrente del modo come si svolgeva nel partito russo la lotta contro il trotzkismo. Per noi comunisti italiani, si trattava, a ragione o a torto, di tener conto della necessità di orientare i quadri nel paese e in carcere; si poteva temere, a ragione o a torto, ripeto, che una decisione presa in quella riunione non venisse ancora compresa da tutti. Ma che fecero allora i compagni russi? Lo dice lo stesso Silone: “Se un solo delegato, disse Stalin, è contrario al progetto di risoluzione, esso non potrà essere presentato in seduta plenaria”. Le delegazioni indicate non modificarono la loro opinione; il progetto venne quindi ritirato. Si può tacciare di “sleale”, “prepotente”, soffocatrice di ogni espressione indipendente questa condotta? Al contrario, mi pare. Sapendoci tutti “in buona fede”, ed essendo “in buona fede” essi stessi, i compagni russi rispettarono la nostra “libertà” di non essere ancora del tutto convinti, ci consentirono di attendere, di “sperimentare”, ecc. ecc.: cioè fecero proprio quello che, secondo Silone e gli altri rinnegati, essi sarebbero del tutto incapaci di fare. Di rado ho trovato l’esempio di un calunniatore che in questo modo, con le sue parole stesse, con l’esempio da lui portato, distrugge la sua stessa calunnia!
Giudicando le cose ora, riconosco che le nostre riserve alla proposta dei bolscevichi erano fuori luogo. Aveva ragione Stalin, il quale conosceva meglio di noi quale stoffa di traditore fosse Trotzky. E l’Esecutivo che, poco tempo dopo, condannò Trotzky duramente, era composto di compagni che avevano già acquistato quella stessa convinzione. Aveva il diritto di farlo; ma noi, se avessimo voluto, avremmo potuto benissimo, senz’altro rischio che quello di aprire una discussione, dichiarare il nostro disaccordo. Non solo non lo facemmo, perché comprendemmo come le cose si stavano sviluppando, ma lo stesso Silone non accennò neppure lontanamente a proporlo. Circa il merito, la storia ha deciso: la linea difesa nella rivoluzione cinese da Stalin ha portato Mao Tse-tung alle vittorie che tutti sanno. Trotzky è affogato nel tradimento…»
Eravamo nell’estate del 1927. Io rimasi ancora al centro del partito, in piena attività e con mansioni importanti, fino alla primavera del 1929, quando chiesi e ottenni un congedo indeterminato per motivi di salute; e fu solo nell’estate del 1931, trovandomi ancora assente da ogni attività politica, e dopo varie vicende di cui subito parlerò, che ruppi definitivamente col partito e venni di conseguenza “espulso”. Come fu moralmente possibile, dopo l’ultimo soggiorno a Mosca, rimanere nel partito ancora così a lungo? È una domanda che mi sono posta seriamente altre volte. I veri motivi non furono ignobili; ed essendovi costretto dalla polemica di Togliatti, voglio esporli, anche se il parlarne m’è tuttora penoso. Ma in fin dei conti, se ora la libertà m’è cara, è perché so quel che ho sofferto per ricuperarla.
Sul giornale del suo Partito (e sinceramente gli auguro che non debba mai ripeterlo davanti a un tribunale russo) Togliatti è stato costretto in occasione della prima pubblicazione di questo scritto, a recitare il mea culpa per le sue gravi esitazioni e incertezze nel passare dal bukarinismo allo stalinismo, il che voleva dire da una frazione in disgrazia a una nuova e più stabile maggioranza. Per mio conto, riferendomi a quello stesso periodo, non ho alcuna difficoltà ad ammettere che si trattò, anche per me, di grave crisi, e per un motivo, si capisce, del tutto opposto a quello di Togliatti, e con una giustificazione, a me sembra, assai maggiore, essendo ben più difficile abbandonare al loro destino tutte le frazioni del leninismo russo e tornare ad essere semplicemente un uomo libero. Vi sono le confessioni burocratiche, disciplinari, imposte dall’ortodossia, e quelle libere di chi ha vinto in sé la “paura”. Nel determinare l’origine e lo sviluppo dei fatti della coscienza, d’altra parte, più sicura e fidata della cronologia degli archivi è la cronologia della memoria. Questa conosce i legami interni dei fatti in apparenza isolati e lontani, li ravvicina, stabilisce l’effettiva continuità dell’esistenza.
Nel turbamento in me prodotto dai grotteschi episodi moscoviti del 1927 non agivano in primo piano valori astratti, ma motivi psicologici e politici più immediati e urgenti. Si trattava, in sostanza, di una delle tante conferme della difficoltà di sincronizzare il socialismo europeo col comunismo russo caduto in piena involuzione; e tra le difficoltà vi era certamente, oltre alle divergenze nell’apprezzamento delle situazioni locali, anche quella del diverso costume. Ma soltanto nella sua fase conclusiva quel conflitto assunse per me l’aspetto perentorio d’una scelta morale. Può essere anche interessante osservare che tutti i membri dell’Esecutivo, i quali nell’episodio da me ricordato si rifiutarono di condannare a occhi chiusi un documento di cui veniva a essi negata la lettura, tutti, dal francese Albert Treint allo svizzero Jules Humbert-Droz, con la sola eccezione di Togliatti, hanno poi abbandonato il movimento comunista, ma in epoche diverse, tra il 1928 e il 1940, per vicende personali e di gruppo assai complicate.
Quell’ultimo viaggio a Mosca m’aveva svelato l’estrema complessità e contraddittorietà del comunismo, di cui, in realtà, per esperienza personale conoscevo solo un settore, quello della lotta clandestina contro il fascismo. Il soggiorno a Mosca mi aveva mostrato il rovescio della medaglia. Ecco dunque che il comunismo, sorto dalle più profonde contraddizioni della società moderna, le riproduceva tutte nel suo seno, e con esacerbata virulenza, seppure in un quadro istituzionale e sociale diverso: militavano, sotto le sue bandiere, ribelli e persecutori, eroi e sicari, sfruttati e sfruttatori; giornalisti i quali rischiavano la vita per rivendicare un’illimitata libertà di stampa e altri che scrivevano l’apologia della censura e della soppressione d’ogni stampa avversaria; imputati che invocavano le garanzie giuridiche elementari di fronte ai tribunali speciali del fascismo e giudici che rifiutavano agli imputati ogni possibilità di provare la propria innocenza; organizzatori sindacali che promuovevano scioperi in difesa delle condizioni di vita dei lavoratori e altri che giustificavano la soppressione legale del diritto di sciopero e l’adozione del lavoro forzato in massa come parte integrante del nuovo sistema economico; deputati che si battevano per il più esteso e pubblico controllo su tutta l’azione di governo e governanti assolutisti, praticamente incontrollabili e inamovibili, salvo i casi, purtroppo frequenti, in cui venivano fatti fucilare dai propri colleghi sotto l’invariabile accusa di tradimento. Questa mostruosa ambiguità del comunismo rispecchiava allora in larga misura, come risulta da quello che ho detto finora, la diversità della posizione dei comunisti rispetto al potere; senza tuttavia legittimare la conclusione ch’esso fosse tutto in un senso in Russia e interamente l’opposto altrove. Era comunque innegabile che, ripartendo dalla Russia, attraversavo contrade in cui i comunisti erano sempre più dei semplici socialisti di sinistra; finché nell’operaio di fabbrica e nel contadino francese, svizzero, italiano, ritrovavo quelle doti di generosità franchezza solidarietà spregiudicatezza, che erano la genuina e tradizionale risorsa del socialismo in lotta contro la decadenza e la dissipazione borghese. Quale incubo irreale m’appariva, nella ritrovata compagnia di questi comunisti, il ricordo degli episodi di Mosca.
Quando ne parlai in un ristretto incontro clandestino a Milano, vi fu anzitutto un momento di incredulità, e poi l’ingenua proposta di stampare e affiggere senz’altro, sui muri delle fabbriche milanesi, scritte di “Viva Trotzky”. Ma considerazioni più gravi, a ragion veduta, finirono col prevalere, e fu proprio uno di quelli che, due anni dopo, dovevano aderire ai gruppi trotzkisti, a darne per iscritto la formulazione più recisa. “L’ambiente della nostra responsabilità” mi scrisse Pietro Tresso, uno dei migliori capi della nostra organizzazione clandestina “è l’Italia e non la Russia. Noi non possiamo mettere in crisi la nostra lotta contro il fascismo, solo perché i russi litigano tra loro. Le condizioni di lotta in Italia e in Russia possono, a prima vista, sembrare un punto di partenza e un punto di arrivo; ma nessuno può stabilire tra questi due poli un nesso di assoluta fedeltà. Perciò andiamo avanti e speriamo che la futura rivoluzione comunista in Italia finisca un po’ meglio.” Gli risposi che condividevo in pieno lo spirito della sua risposta. “La fatalità storica non m’ispira alcuna riverenza” gli scrissi. “E nella fattispecie” aggiunsi “vale la massima di Lenin: il vero rivoluzionario si riconosce dal suo comportamento nel proprio paese.”
Con Togliatti, prima di separarci, ero rimasto d’accordo esattamente negli stessi termini. Pendeva su noi, è vero, la spada di Damocle di un’inchiesta dell’Esecutivo su tutto il nostro orientamento politico e organizzativo, come rappresaglia alle complicità bukariniste di Togliatti e al nostro scandaloso contegno nelle riunioni di Mosca; ma, come quando e a chi la revisione sarebbe stata affidata, non era possibile prevedere, dato che a Mosca le lotte frazionistiche erano ancora in fiamme. Non era nostra missione, né tra le nostre possibilità, influire sui contrasti moscoviti; però era nostro dovere, ed era anche, se fossimo rimasti tutti uniti, in nostro potere, difendere la nostra organizzazione e la nostra politica da critiche false e opporci con fermezza a svolte e mutamenti ingiustificati. Togliatti mi sembrava sinceramente a ciò deciso, benché negli incontri privati egli insistesse un po’ troppo sulla clausola dell’unanimità, giustificandosi con l’esempio, allora recente, del Partito comunista spagnolo, in cui, essendosi solo una maggioranza opposta ad arbitrarie richieste di Mosca, il Partito era stato sciolto e alcuni giovani della minoranza incaricati di ricostruirlo. Una minoranza potenziale, capace di accettare un’investitura di Mosca per mettere al passo il proprio Partito, esisteva anche nel comunismo italiano, ed era rappresentata, già allora, da Longo e Secchia. Alla solidarietà di questi compagni, in parole chiare, Togliatti subordinava l’eventualità di difendere il nostro buon diritto contro i soprusi di Mosca. È importante ricordare come, malgrado le notevoli diversità ambientali, anche i Partiti comunisti degli altri paesi, in quel torno di tempo, fossero dominati dalle stesse difficoltà.
La posizione da noi scelta in quella congiuntura, pur essendoci consigliata dalla necessità, era evidentemente ambigua e reticente, e a lungo andare insostenibile. I soli a non soffrirne complicazioni erano i comunisti di “base” impegnati nell’attività clandestina in Italia, i quali, anzi, rifiutavano di prestare fede alle notizie di stampa sui contrasti fra i dirigenti russi, a tal punto che uno dei loro fogli clandestini chiamò menzognera la notizia, riportata dalla stampa fascista, della deportazione di Trotzky ad Alma Ata, nell’Asia Centrale. Ma la condizione dei dirigenti del Partito all’estero, e specialmente di quelli incaricati di funzioni internazionali, non era agevole. Togliatti ebbe l’accortezza di rifiutare un posto nella direzione di una progettata filiale dell’Internazionale Comunista per i paesi europei, con sede a Berlino, benché venisse a invitarlo personalmente Manuilskij, alla presenza degli altri membri della direzione del Partito; ed ebbe invece l’accortezza di indurre Angelo Tasca, un uomo ch’egli detestava e di cui era geloso, ad accettare la carica di nuovo delegato permanente a Mosca, ad accettare cioè d’esporsi a un immancabile sbaraglio. Eravamo entrati in una fase di relazioni assai rozze e primitive, in cui la furberia serviva più dell’intelligenza e i problemi di tattica sostituivano le questioni di principio. A un certo momento apparve chiaro che, per i noti legami politici tra Bukarin e Togliatti, la spedizione punitiva dell’Esecutivo dell’Internazionale Comunista contro di noi era rinviata al momento in cui, in Russia, dallo sterminio dell’opposizione di sinistra si sarebbe passati alla lotta contro le tendenze più moderate, secondo l’antica tattica di battere gli avversari uno alla volta. E ciò comportò per noi un’imprevista moratoria di due anni.
Gli ulteriori atti della tragedia sono noti. Dopo ancora un anno di polemiche e urti violenti, Stalin ascese i gradini decisivi del potere assoluto con la deportazione di Trotzky ad Alma Ata, e la destituzione dalle cariche, o il trasloco lontano da Mosca di altri capi del blocco di sinistra formatosi attorno alle persone di Trotzky Zinoviev Kamenev. E affinché il vertice della piramide rimanesse sotto il dominio incontrastato di Stalin e del suo gruppo, venne immediatamente ingaggiata la lotta per sottomettere o distruggere anche le superstiti correnti di destra, e in primo luogo quella di Bukarin, sfidandole dove esse erano ancora forti, tra i contadini. Così da Stalin fu bandita la collettivizzazione forzata della piccola e media proprietà agricola, faticosamente costituitasi dopo il 1923 grazie alla nuova politica economica promossa da Lenin; e sei o sette milioni di contadini furono scacciati dai loro poderi, uccisi oppure deportati in Siberia per essere asserviti ai lavori forzati.
Sulla portata veramente babilonica e sugli aspetti più crudeli di quell’autentica guerra contro i contadini, mancavano anche a noi, mentre essa era in pieno svolgimento, le informazioni precise, più tardi diventate di dominio pubblico. Ma anche quel tanto che subito ne appurammo, sarebbe stato bastante a suscitare il risentimento e l’opposizione di molti di noi, se il nostro giudizio e la nostra volontà non si fossero trovati irretiti dal proposito aprioristico di non provocare una crisi nell’organizzazione clandestina su una questione estranea alla diretta esperienza dei lavoratori che vi erano raccolti. E così, per cominciare, quando Angelo Tasca, reduce da Mosca, ci riferì come, in nostra rappresentanza, egli fosse stato indotto ad assumere un’aperta posizione critica verso la nuova politica agraria di Stalin, noi rimanemmo fortemente impacciati e ci rifiutammo, per la nostra responsabilità di comunisti italiani, di entrare in conflitto con il Partito comunista russo e con l’Internazionale, rischiando così di dividerci tra noi, su una questione ch’era di tale natura da non poter essere sottoposta, in ultima istanza, alle sezioni e alle cellule del nostro Partito, perché giudicassero. Dietro il paravento, pur non fittizio, della nostra responsabilità nazionale che ci stava mille volte più a cuore, noi sfuggivamo così a un difficile eppure inevitabile dovere internazionale, vittime, a nostra volta, del grossolano sofisma del bulgaro Vasil Kolarov, che due anni prima avevamo deriso. Per tale via, anche quelli di noi che in sostanza eravamo d’accordo con Angelo Tasca e gli eravamo amici, commettemmo l’errore e la viltà di lasciarlo solo e di condannarlo. La nostra condotta avrebbe potuto anche trovare una giustificazione successiva se, l’anno dopo, quando finalmente l’Esecutivo di Mosca pose sotto accusa e condannò tutta la nostra politica dal 1924 in poi, cioè tutta la politica ispirata principalmente da Antonio Gramsci, ci fossimo, come era stato nei propositi, trovati uniti e solidali nel difenderla. Invece, la demoralizzazione sofferta in quella lunga fase di ambiguità e reticenze, la diffidenza verso taluni dei nostri ritenuti più proclivi a capitolare di fronte a ogni pretesa di Mosca, come pure l’esempio di quello che stava accadendo in altri Partiti, finirono col produrre l’effetto opposto; e anche quei pochi che, presi alla sprovvista, protestarono e furono espulsi dal Partito, si trovarono ad agire in condizioni impreviste, estremamente confuse e penose, senza alcuna possibilità di esprimersi sul vero fondo del problema e, quel ch’era più grave, senza rendersi conto dell’intero significato dei propri atti e delle loro conseguenze. Come avevamo potuto illuderci che in una organizzazione totalitaria fosse possibile un esame serio e in buona fede dei temi controversi? Quella nostra sorpresa provava fino a qual punto noi fossimo ancora all’oscuro della reale natura dell’evoluzione subita dal comunismo russo e internazionale negli ultimi anni e quanto fosse insufficiente la nostra percezione del groviglio di contraddizioni nel quale ci trovavamo impigliati.
La verità è che non ci si libera dal Partito comunista come ci si dimette dal Partito liberale, poiché oltretutto il legame col partito è in proporzione dei sacrifici che esso costa. E in più, come è stato già affermato e analizzato, il Partito comunista, per i suoi militanti, non è solo, né principalmente, un organismo politico, ma scuola chiesa caserma famiglia: è un’istituzione totalitaria nel senso più completo e genuino della parola, e impegna interamente chi vi si sottomette. Ogni organismo totalitario, ogni regime di umanità coatta, implica una buona dose di menzogne, di doppiezza, d’insincerità. Il comunista sincero, pertanto, il quale conservi per miracolo il nativo spirito critico e persista ad applicarlo in buona fede ai fatti del Partito, credendo così di essergli di maggior utilità, si espone alle penose e contraddittorie traversie del non-conformista, e prima di consumare la definitiva sottomissione o l’abiura liberatrice deve soffrire nella sua anima ogni specie di triboli. La stessa lentezza ch’egli impiega a rendersi conto della portata della sua eresia è rivelatrice. Finché egli si muove nella medesima sfera psicologica dell’autorità con la quale entra in conflitto, può illudersi che il proprio dissenso sia limitato a questo o quel singolo tema, e su di esso vuole polemizzare in nome dei comuni principii, richiamandosi anzi alla purezza delle origini; ma più tardi, dopo la scomunica o l’espulsione, quando egli sarà liberato da ogni vincolo disciplinare e si troverà al di fuori della comunità dei fedeli, se l’assisterà il coraggio di risalire dagli effetti alle cause e vorrà spiegare a se stesso che cosa, in ultima analisi, gl’impedì di capitolare, egli si renderà conto che la sua insofferenza obbediva in realtà a motivi ben più oscuri, e i dogmi, precedentemente anche da lui venerati, gli appariranno bruscamente in tutt’altra luce. Per finire, ci si libera dal comunismo come si guarisce da una nevrosi.
L’azione repressiva contro le correnti moderate del comunismo russo fu simultaneamente estesa a tutte le sezioni dell’Internazionale mediante l’ingiunzione di un completo mutamento a sinistra della loro politica, motivato da una pretesa crisi mondiale rivoluzionaria, già in atto. La nuova tattica, secondo i suoi fautori, mirava anzitutto a liberare lo spirito degli operai dalle debilitanti illusioni democratiche. La democrazia parlamentare venne perciò denunziata come il peggiore ostacolo per l’affermarsi della rivoluzione proletaria, e la sua sparizione era comunque preconizzata come un progresso; il socialismo democratico tradizionale fu ribattezzato social-fascismo, in altre parole semplice frazione o varietà di fascismo, e ogni accordo con esso fu per l’avvenire severamente condannato. Conseguentemente, anche l’unità sindacale con i riformisti doveva essere subito spezzata nei pochi paesi dove ancora sopravviveva e in sua vece erano da promuovere sindacati rossi a direzione comunista. Il risultato storico più importante di quella pazzesca nuova tattica (risultato che riassume tutti gli altri) fu qualche anno dopo, com’è noto, un decisivo aiuto all’ascesa al potere di Hitler. In tutta coerenza, infatti, da una pubblicazione ufficiale dell’Internazionale Comunista, «La Corrispondenza Internazionale», l’avvento del nazismo venne commentato come un passo innanzi della rivoluzione proletaria perché eliminava dall’orizzonte politico tedesco ogni illusione democratica. Tradotta in linguaggio politico italiano, quella svolta imperiosamente richiesta da Mosca anche a noi, era la negazione più radicale di tutto l’orientamento dai comunisti seguito in Italia negli ultimi anni, e ciò d’altronde venne esplicitamente confermato e preteso dagli emissari dell’Internazionale appositamente incaricati. La maggioranza della direzione del pci soggiacque al sopruso e accettò la condanna delle tesi di Gramsci sulla situazione italiana e sul Mezzogiorno. Ora ci si potrebbe chiedere se fosse proprio possibile, nel senso precedentemente progettato, una resistenza collettiva del comunismo italiano a quelle ingiustificate richieste. Ma è una questione del tutto astratta: la mancata unanimità dei dirigenti, ch’era stata posta dai più responsabili come conditio sine qua non per quel tentativo, dispensò il gruppo dirigente dall’onere di provarlo.
Da più di un anno, per ragioni di salute, io mi trovavo assente dal lavoro di partito. Ero informato sull’andamento della crisi interna da qualche lettera privata, da qualche visita; ma anche quelli che partecipavano a tutte le riunioni non furono meno di me sorpresi dalla sua soluzione. Tre dei migliori compagni della nostra organizzazione in Italia, Alfonso Leonetti dirigente della stampa illegale, Paolo Ravazzoli capo del movimento sindacale, e Pietro Tresso capo dell’ufficio d’organizzazione, criticarono le pretese dell’Internazionale, dimostrandone l’assurdità nei confronti delle condizioni italiane. Per la loro audacia essi furono esclusi, seduta stante, dal comitato centrale, e più tardi dalle file del Partito. Con motivazioni grottesche, prive d’ogni fondamento, essi furono offerti come capri espiatori ai rancori di Mosca contro il passato bukariniano di Togliatti. Purtroppo, spinti da un vivo risentimento contro l’ingiusto e imprevisto trattamento sofferto e dalla stessa logica della lotta di frazione, i tre espulsi passarono ben presto a gesti e a parole che sembravano dare una giustificazione postuma del provvedimento che li aveva colpiti.
Un giorno, in un villaggio non lontano dalla località svizzera in cui mi trovavo, ricevetti una visita di Togliatti. Egli mi espose a lungo, con chiarezza e lealtà, le ragioni della linea di condotta da lui scelta dopo matura riflessione. Lo stato attuale dell’Internazionale, sostanzialmente egli mi disse, non è certo né soddisfacente né piacevole. Non dipende dalla nostra buona volontà di modificarlo. Si tratta di condizioni storiche obiettive di cui bisogna prendere atto. Le forme della rivoluzione proletaria non sono arbitrarie. Se esse non corrispondono alle nostre preferenze, peggio per noi. E, d’altra parte, qual è l’alternativa? Come sono finiti i comunisti che finora hanno rotto col proprio Partito? In quali disastrose condizioni è ridotta la social-democrazia? Le mie obiezioni a quegli argomenti, devo riconoscere, non erano molto pertinenti, soprattutto perché i ragionamenti di Togliatti erano esclusivamente politici, ma il turbamento prodotto in me dalle ultime esperienze andava al di là della politica. Che cos’erano le «inesorabili forme storiche» cui dovevamo inchinarci, se non una nuova immagine dell’inumana realtà contro la quale ci eravamo ribellati dichiarandoci socialisti? Si può, per il successo della lotta, dimenticare i motivi per cui siamo scesi in lotta? Io ero allora come chi ha ricevuto una formidabile mazzata in testa e continua a reggersi in piedi, a camminare, a parlare e gesticolare, senza rendersi pienamente conto di quello che gli succede.
Manifestai a Togliatti l’intenzione di rimanere nel Partito, esonerato da ogni attività politica; appena la salute me lo consentisse, avrei potuto, tutt’al più, accettare qualche mansione secondaria, assistenziale o editoriale. Togliatti si dichiarò d’accordo. I motivi della mia perplessità erano assai complessi, politici e personali. Sulla stampa dell’emigrazione la polemica tra il Partito e i tre espulsi aveva assunto un’asprezza e una volgarità rivoltanti. Uomini fino a poco tempo prima amici, solidali nel comune pericolo, si chiamavano reciprocamente traditori vigliacchi bugiardi opportunisti ipocriti, e anche ladri spie venduti. Io inorridivo alla sola idea di compiere un atto, forse necessario, forse inevitabile, che avrebbe costretto persone, alle quali volevo bene, a ingiuriarmi, calunniarmi, attaccarmi; e me, a rispondere per le rime. Se fosse stato possibile sparire in silenzio. E c’era un motivo ancora più grave. Non è con facilità che ne parlo. Da più di due anni (dall’aprile del 1928) un mio fratello più giovane, l’ultimo che mi restava, era in carcere, in Italia, imputato di appartenenza al Partito comunista illegale. Al momento dell’arresto egli era stato così duramente torturato da riceverne permanenti e atroci lesioni interne; e dovette attendere fin al 1932, nel penitenziario di Procida, la morte che ponesse fine al suo martirio. Ma un particolare che dà gravità di tragedia a quel destino, era che, almeno fino al momento dell’arresto, egli non era mai stato membro del Partito comunista, non aveva mai chiesto di farne parte, non vi era mai stato ammesso, non aveva mai partecipato ad alcuna sua adunanza o attività, non ne conosceva neppure lo statuto e il programma. Egli era un giovane vagamente antifascista, di educazione e sentimenti cattolici. Lo sport l’interessava assai più della politica; e lo sport aveva aggiunto, alla sua naturale fierezza, un particolare senso dell’onore. Perché confessò di essere comunista? Perché confermò la sua confessione in giudizio, davanti al Tribunale speciale che se ne servì per condannarlo a dodici anni di reclusione? «Ho cercato di comportarmi» egli mi scrisse «come ho immaginato che ti saresti comportato tu, al mio posto.» Non era dunque facile, per me, uscire dal Partito, se la mia presenza serviva di giustificazione al volontario sacrificio di mio fratello.
Ma una permanenza passiva, senza ritrattazioni e condanna dei “traditori” espulsi, non era nel costume dell’Internazionale Comunista. Un delegato russo infatti ne mosse addebito al Partito italiano, in una riunione tenuta a Mosca, di cui Togliatti mi trasmise il verbale. Egli venne dunque nuovamente a trovarmi in Svizzera, accompagnato da un’altra persona. L’incontro avvenne questa volta nella sede del Soccorso Rosso a Zurigo. Sono costretto a precisare alcuni particolari poiché di essi, sulla stampa comunista, è stata data una versione grottesca.
«È indispensabile» mi disse Togliatti «che tu rilasci una dichiarazione di condanna dei tre espulsi e di assoluta disciplina verso l’Internazionale.»
«Tu sai bene» gli risposi «che questo è contrario alle mie convinzioni.»
«Lo so» egli mi disse, «ma accettare di subire una coercizione è anche un omaggio al Partito.»
Per dispensarmi, se non altro, dal disgusto dell’atto materiale, egli si sedette davanti a una macchina da scrivere, batté in cinque o sei linee le formulette di prammatica e lui stesso vi appose, a macchina, il mio nome di Partito. Poteva sembrare, a me come a Togliatti, che con quella cerimonia io avessi trangugiato il calice della disgustosa purga fino in fondo. Ma non fu così.
Con uno degli espulsi, Pietro Tresso, ero rimasto in rapporti epistolari assai affettuosi. Non nascondevo a lui le mie apprensioni per la strada sulla quale si era avviato, assieme agli altri due suoi compagni, aderendo alla frazione internazionale del trotzkismo; e gli manifestavo anche, in tutta sincerità, i motivi personali per cui io preferivo rimanere in silenzio ai margini del Partito, non approvando né la politica di Trotzky, né le nuove direttive imposte da Mosca. Quelle mie lettere personali furono passate da Tresso ai suoi amici trotzkisti perché ne fossero informati: ma questi, all’insaputa del mittente e del destinatario delle lettere, e omettendo tutto ciò che dava alle stesse un carattere strettamente personale e familiare, come pure sopprimendo ogni accenno di condanna del trotzkismo, disinvoltamente ne pubblicarono dei brani su un bollettino trotzkista di Parigi. Essi ottennero l’effetto che scontavano. Le lettere, agli occhi del Partito, “provavano” il mio doppio gioco, la mia appartenenza segreta all’organizzazione trotzkista e il carattere insincero della dichiarazione da me “rilasciata” a Togliatti. Fui subito avvertito che una nuova delegazione, presieduta questa volta da Ruggero Grieco, sarebbe venuta in Svizzera per interrogarmi. «Ti sarà chiesta» mi fu scritto «una nuova, più dura e più impegnativa dichiarazione. Ti sarà chiesto di prendere una parte attiva nella campagna contro i trotzkisti. Ti sarà anche chiesto di tornare nell’apparato del Partito con un incarico di responsabilità.» Eravamo arrivati all’estate del 1931. La mia assenza dal lavoro di Partito durava già da due anni.
Avrei potuto difendermi. Avrei potuto provare la mia buona fede. Avrei potuto dimostrare la mia non appartenenza alla frazione trotzkista. Avrei potuto precisare che il mio disaccordo con le nuove direttive di Mosca era condiviso da quelli stessi ch’erano incaricati d’interrogarmi. Avrei potuto raccontare come si era svolta la scena della pretesa dichiarazione da me “rilasciata” a Togliatti. Avrei potuto persuaderli della mia assoluta indifferenza per i posti e le gerarchie. Avrei potuto; ma non volli. In un attimo ebbi la chiarissima percezione dell’inanità d’ogni furberia, tattica, attesa, compromesso. Dopo un mese, dopo due anni, mi sarei trovato da capo. Era meglio finirla una volta per sempre. Non dovevo lasciarmi sfuggire quella nuova, provvidenziale occasione, quell’“uscita di sicurezza”. Non aveva più senso star lì a litigare. Era finito. Grazie a Dio.
Lo statuto dei Partiti comunisti, com’è noto, non tollera le dimissioni; esso non conosce che l’espulsione. Come le sentenze dei tribunali russi nei processi politici, le parole dei comunicati d’espulsione del Partito comunista hanno un valore puramente polemico. I termini di traditore, rinnegato, venduto sono semplici sinonimi di oppositore. La diffamazione è graduata secondo la pericolosità della vittima.
In confronto alla tragedia delle motivazioni invariabilmente infamanti addotte, in Russia e altrove, per “liquidare”, con la fucilazione, la deportazione o la semplice espulsione, centinaia di migliaia di comunisti oppositori o eretici (il costume di Partito non consentendo in nessun caso la dissidenza politica) può sembrare una delle più benigne la formula escogitata per il mio caso. Essa, in un certo senso, fu suggerita da me stesso. Nella delegazione ufficiale davanti alla quale mi presentai, era, tra gli altri, Giuseppe Di Vittorio, il quale assai benevolmente e in tono quasi amichevole a un certo punto prese a enumerarmi le difficoltà d’ogni specie in cui mi sarei trovato fuori dal Partito.
«In Italia, finché governa il fascismo, non puoi tornare» egli mi disse. «All’estero, senza carte, non puoi fermarti. Non hai mezzi di sussistenza. Non hai buona salute. Tuo fratello è in carcere per il Partito. Tutti i tuoi amici sono nel Partito e romperebbero con te appena tu ne uscissi. Contro il fascismo non v’è altra forza fuori della nostra. Se dunque ti resta un minimo di buon senso, se sei ancora capace di riflettere e di regolarti come una persona normale…»
A questo punto l’interruppi.
«Senti», dissi «non so se tu puoi capirmi, ma in quel senso che tu dici, non sono mai stato e forse non sarò mai una persona politicamente normale.»
Abbandonai la riunione, dichiarando che veramente non avevamo più nulla da dirci. Nella sentenza di espulsione che ne seguì, dopo una ricapitolazione ad usum delphini dei precedenti episodi da me ricordati, si poteva leggere: «avendo egli stesso ammesso di essere un anormale politico, un caso clinico, ecc.».
Era un documento ingiurioso e diffamatorio, al quale, questo va da sé, gli stessi autori non prestavano fede, altrimenti non avrebbero intrapreso quell’estremo tentativo perché rimanessi nel Partito. Era un’arma polemica per neutralizzare un’eventuale mia azione disgregatrice nell’interno del Partito. Quando infatti questa mancò, e da taluni si considerò la possibilità di un mio ritorno nel Partito, o almeno di una mia collaborazione con esso, quegli stessi uomini che avevano redatto la sentenza diffamatrice, autorizzavano un’altra versione più benevola, ufficiosa e orale, della mia separazione: questa sarebbe stata lo spiacevole effetto di un mio momento di sconforto e di pessimismo nella lotta contro il fascismo. Le due versioni (quella ufficiale del rinnegato politico e quella ufficiosa del pessimista) sono state in seguito alternativamente adoperate secondo che i miei scritti o i miei discorsi sono piaciuti o hanno irritato i comunisti. Nessuna di quelle due versioni è vera. Nessuna serve minimamente a far capire il segreto della crisi che mi portò fuori del Partito. Io stesso me ne resi conto lentamente, a fatica, negli anni successivi. E non ho difficoltà ad ammettere che continuo ancora a rifletterci sopra, per capire meglio. Se ho scritto dei libri, l’ho già detto, è per cercare di capire e di far capire. Non sono affatto sicuro di essere arrivato alla fine delle mie riflessioni.
La verità è questa: l’uscita dal Partito comunista fu per me una data assai triste, un grave lutto, il lutto della mia gioventù. E io vengo da una contrada in cui il lutto si porta più a lungo che altrove. Non ci si libera facilmente, l’ho già detto, da un’esperienza così intensa come quella dell’organizzazione comunista. Di essa resta sempre qualche cosa che marca il carattere per il resto della vita. Guardate, infatti, come sono riconoscibili gli ex comunisti. Essi costituiscono una categoria a parte, come gli ex preti e gli ex ufficiali di carriera. Il numero degli ex comunisti è ormai legione. «La lotta finale» ho detto un giorno a Togliatti «sarà tra i comunisti e gli ex comunisti.»
Questa affermazione è stata in seguito variamente discussa. Eppure il senso che vi attribuivo era semplice. Sarà l’esperienza del comunismo, intendevo dire, a uccidere il comunismo. Pertanto non escludo che il colpo di grazia esso lo riceva proprio dai russi. Che avverrà quando i milioni di reduci dai campi di lavoro forzato della Siberia potranno liberamente parlare?
Dopo essere uscito dal Partito, ho evitato accuratamente di finire in qualcuno dei numerosi gruppi di ex comunisti, e ne sono tutt’altro che pentito, ben conoscendo la fatalità che li domina e ne fa piccole sètte, con tutti i difetti del comunismo ufficiale, il fanatismo il centralismo l’astrattismo, senza le qualità e i vantaggi che al comunismo derivano almeno dalla presenza d’un gran numero di proletari. La logica dell’opposizione a ogni costo ha condotto molti ex comunisti assai lontano dalle posizioni di partenza, e taluni addirittura al fascismo. Una spassionata critica dell’esperienza sofferta ha invece condotto me a un approfondimento dei motivi del distacco e alla constatazione ch’essi vanno assai al di là di quelli occasionali sui quali si produsse.
Che mi rimane della lunga e triste avventura? Una segreta affezione per alcuni uomini che vi ho conosciuti, e il gusto di cenere di una gioventù sciupata. La colpa iniziale fu certamente mia, nel pretendere dall’azione politica qualcosa che essa non può dare. Anche la rivolta per impulso di libertà può dunque essere una trappola, mai peggiore però della rassegnazione. Ogni volta che ripenso a queste disgrazie a mente serena sento risalire dal fondo dell’anima l’amarezza di un’infelicità a cui forse mi era impossibile sfuggire.
La mia fiducia nel socialismo (di ciò, oso dire, testimonia la mia condotta successiva) mi è rimasta più viva che mai. Nel suo nucleo essenziale essa è tornata a essere quella ch’era quando dapprima mi rivoltai contro il vecchio ordine sociale: un’estensione dell’esigenza etica dalla ristretta sfera individuale e familiare a tutto il dominio dell’attività umana; un bisogno di effettiva fraternità; un’affermazione della superiorità della persona umana su tutti i meccanismi economici e sociali che l’opprimono. Col passare degli anni vi si è aggiunto un reverente sentimento verso ciò che nell’uomo incessantemente tende a sorpassarsi ed è alla radice della sua inappagabile inquietudine. Ma non credo di professare in questo modo un socialismo mio particolare. Le “verità pazze” ora accennate sono più antiche del marxismo. Verso la seconda metà del secolo scorso esse si rifugiarono nel movimento operaio partorito dal capitalismo industriale, e continuano a restarvi una delle sue più tenaci fonti d’ispirazione. Ogni sincero socialista, magari senza rendersene conto, le porta in sé. Ho già ripetute volte espresso il mio parere sui rapporti, nient’affatto rigidi e immutabili, tra il movimento socialista e le teorie del socialismo. Sono gli stessi rapporti che corrono tra le scuole filosofiche e i grandi movimenti storici. Col progredire degli studi le teorie possono deperire ed essere ripudiate, ma il movimento continua. Sono convinto che il socialismo sopravviverà al marxismo. Sarebbe tuttavia errato, con riguardo al vecchio contrasto fra dottrinari ed empirici dell’organizzazione operaia, annoverarmi tra questi ultimi. Non concepisco la politica socialista indissolubilmente legata a una determinata teoria, però a una fede sì. Quanto più le “teorie” socialiste pretendono di essere “scientifiche”, tanto più esse sono transitorie; ma i “valori” socialisti sono permanenti. La distinzione fra teorie e valori non è ancora abbastanza chiara nelle menti di quelli che riflettono a questi problemi, eppure mi sembra fondamentale. Sopra un insieme di teorie si può costituire una scuola e una propaganda; ma soltanto sopra un insieme di valori si può fondare una cultura, una civiltà, un nuovo tipo di convivenza tra gli uomini.
Da USCITA DI SICUREZZA di Ignazio Silone:
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