Abbiamo tutti grandi attese da questa storia. Joe Gebbia, trentasei anni, uno dei fondatori di Airbnb, arriva da San Francisco preceduto dal suo 740: 4 miliardi di dollari di patrimonio personale. È uno dei nuovi titani mondiali, però diverso dalla classica genealogia siliconvallica, è laureato, è un architetto, non è un dropout, è belloccio, ha animo sensibile, non si sa se sia etero o gay. Io spero tanto sia gay e vorrei sposarlo e tornare a San Francisco dove sono stato un anno, e tornare lì tipo zio d’America, con l’aereo privato. Lui invece arriva all’aeroporto di Palermo con un volo Alitalia, e anche lui la voglia di farsi una famiglia. Però siciliana.
Arriva all’aeroporto di Palermo e parte subito il clash culturale: le altissime palme sembrano Palm Springs (quanti ricordi! Torniamo in California insieme!), però qui urla gutturali si sentono fuori: «Taxi shaaaring» con molte erre arrotate, è l’Uber versione Falcone&Borsellino: i tassisti immaginifici inzeppano le auto finché son piene, tipo pane e panelle. Gebbia, che si muove con una tiger assistente asiatica di nome Esther, viene preso in ostaggio per un convegno con Leoluca Orlando che gli parrà uno dei Sopranos; e Francesco Rutelli. Poi partiamo con questa motorcade che andrà su fino a Mezzojuso, paesazzo a metà montagna a mezz’ora da Palermo, di cui discendono tutti i Gebbia, ha scoperto. Lui sono anni, decenni, che vuole andare a Mezzojuso, è il suo sogno (è interessante capire cosa si sogna a questi livelli di ricchezza).
Gebbia si è messo elegante, con un vestito nero, quant’è bello. Il suo patrimonio è passato da 3,2 a 3,8 miliardi di dollari dall’ultima volta che l’ho intervistato. Anche i capelli paiono ricresciuti in proporzione, forse per la nota mutazione genetica che i grandi capitali operano sui tessuti cellulari. Solo in faccia è sempre lucido, come poi Tim Cook che ho incontrato qualche tempo fa. Non si capisce perché a questi livelli di reddito non abbiano dei truccatori o non fondino startup di ciprie (invece di andare sulla luna).

Il paese di Mezzojuso visitato da Joe Gebbia lo scorso ottobre: è il luogo di origine della famiglia del co-fondatore di Airbnb. Nell’entroterra palermitano è un centro di quasi 3mila abitanti nato nel XV secolo come colonia albanese. Fa parte dell’Eparchia di Piana degli Albanesi, la chiesa cattolica italo-albanese di rito orientale
Oggi saremo insieme io e lui. Sentiamo dei colpetti ai vetri oscurati del pullmino, una milfona palermitana che già gli aveva fatto delle domande su al convegno, andando poi al punto (quanto si ferma in cittàààà?), lo costringe a un selfie, maledetta. Lui è gentile di gentilezza californiana, io la guardo con odio, ma tanto lui in macchina con me deve venire.
Non è mai stato in Sicilia, mai a Palermo, soprattutto mai a Mezzojuso, culla della civiltà gebbiana, vicino di Corleone e di Gangi: ha fatto fare ricerche approfonditissime che avrà pagato milioni, non quelle banali del Dna. Roba approfondita. Traffica nervosamente sul suo iPhone per tutto il tempo, rimesta file con pdf di archivi parrocchiali, comunali, che gli hanno scansionato. È seduto accanto a me, serissimo. Chiede per gentilezza: che pezzo pensavi di fare? Io vorrei confessare che è solo una scusa per stare qui con lui e tornare per sempre in California, poi chiede: «Hai mai tracciato le origini della tua famiglia?», sempre molto serio, io dico per gentilezza: «Sì certo» (pare brutto dire che in Italia non c’è bisogno, qui chi le sa le sa, chi non le sa è inutile che cerchi). «Fino a che età vai indietro?», si ingarella invece lui. Per essere gentili diciamo fino al Settecento, lui dice «ah», molto impressionato (stiamo andando bene). «Io solo fino al 1849», controllando sull’iPhone dei pdf. «Ecco, c’è questo Santo Gebbia nato nel 1849 che aveva una fattoria», è il primo della stirpe. Più indietro di così non è mai andato, e adesso smania per ritrovare la terra dei suoi avi. «Cinque generazioni, oh my god, c’è Santo, poi Nicolò Gebbia, poi mio nonno, mio padre e io». Avrà la mania nobiliare, come tanti. Allora gli raccontiamo subito del Gattopardo, di cui non sa nulla, anche se poi è stato a dormire in un Airbnb nel palazzo Lampedusa appena ristrutturato orribilmente, ma lui è felice, tutto gli appare bellissimo in questo viaggio alla ricerca delle radici.
«Mezzojuso, Mezzojuso», sussurra come tra di sé, come Ulisse con la sua Itaca. «Avevo provato a venire un anno fa, era tutto pronto, ma poi alla fine ho avuto un problema». Il suo sogno è venire a Mezzojuso e portare i genitori a sorpresa («non sanno niente di queste mie ricerche») e fare una grande carrambata, «che so, portarli in una chiesa e fargli trovare un libro che racconta tutta la storia dei Gebbia», dice con gli occhioni sognanti di ingenuità siliconvallica. L’anno scorso poi non ce l’ha fatta, «ma avevo trovato l’unico Airbnb di Mezzojuso» (ma quando saremo sposati solo hotel a cinque stelle, basta con questi Airbnb, basta con Mezzojuso). Adesso finalmente è venuto a fare questi sopralluoghi, e i suoi genitori non devono saperlo assolutamente fino all’estate prossima. Gli diciamo, guarda che i tuoi in realtà TI ASPETTANO A MEZZOJUSO! E lui per la prima volta ride, si lascia andare e stacca gli occhi dall’iPhone, e ridiamo tutti nel pullmino che sale su, e intanto (com’è bello) cominciamo ad avere un’ansia da prestazione: sarà questo Mezzojuso all’altezza delle sue aspettative?
La strada continua a salire, passiamo davanti a tanti campi di melanzane; un cavallo solitario, pare morto. Tanti scheletri di abusi edilizi di seconde case mai finite col loro tondino di ferro. Lui guarda rapito. Ha dei sussulti: «Ma Santino Gebbia forse era cugino…», come parlando tra sé.
Arriviamo in paese, sulla piazza principale, il cielo è nuvoloso, non c’è la banda ad attenderci (avevamo scherzato sulla possibilità che vi fosse una banda, un po’ siamo delusi, non è Donnafugata). Lui salta giù, eccitatissimo, sulla piazza deserta nella controra sicula ad attenderci c’è Salvatore Giardina, il sindaco, con un maglione blu. «Che novità ci sono, mayor?», chiede Gebbia rispettosissimo. «Beh, il più grande avvenimento è la sagra della castagna, a fine ottobre», risponde il sindaco. «Chestnut festival!», traduciamo. «Ah, wonderful», e quanti turisti visitano Mezzojuso ogni anno, chiede sempre Gebbia. «Manco uno!», risponde un signore nel gruppetto che intanto si è formato, tra dignitari Airbnb, un carabiniere, passanti incuriositi. «Ma che dici! Anche quindicimila!». «Poi abbiamo la riserva naturale di Rocca Busambra, con le sue celebri orchidee!», dice sempre il sindaco snocciolando tutte le celebrità nate qui: Mike Bongiorno, e poi «the father of Italian psychoanalysis, Gabriele Buccola» (mah). E poi Enrico Cuccia, «big italian banker» (mah).
Gebbia non ascolta, è entusiasta mentre cominciano ad arrivare possibili parenti. «Serve un Gebbia? Eccomi», dice Vittoriano Gebbia, distinto signore, insegnante di musica alle medie del paese di Bolognetta, qui vicino. «Anch’io sono un Gebbia», dice un altro che si accosta, e cominciano a saltare fuori tutte delle questioni genealogiche. «Mia nonna è Gebbia», dice questo nuovo consanguineo. «Ma pure mia nonna si chiama Gebbia, Santina Gebbia». «Ho appena verificato», dice un altro che è corso qui, «che la signora Caterina Lo Monte, che lui indica nel certificato, è morta non nel 1853 ma bensì nel 1852!». Ma chi è questa Caterina Lo Monte? «Ma come: di Cristoforo Lo Monte e Dioguardi Anna, era la mamma naturalmente di Santo Gebbia. Ci sono tutti i documenti».
Il casato è antico, è chiaro. O lo diventerà presto. «Ma come l’hai trovato questo documento?», chiede il Gebbia siliconvallico sconvolto. «Beh, basta andare al comune». «Ah, ma è amazing, pazzesco!». «Qui mica serve l’intelligenza artificiale», dice l’altro Gebbia siculo. Sorgono confusioni («ma mio nonno Giovanni Gebbia che è nato nel 1901 però era di Ficuzze, non Mezzojuso». «Ma non era cugino?»). Mentre stabiliamo le cuginanze passano dei trattori. Ci lasciamo alle spalle il bel duometto di Mezzojuso e scendiamo per il corso Umberto; «Che problema c’è? Tutto l’albero genealogico gli facciamo» (con delle a molto aperte), un altro Gebbia. «Bisogna aprire gli archivi parrocchiali, andiamo subito dal parroco». Tutti sono contenti, non c’è malizia nei loro occhi: è da tanto che non succedeva qualcosa a Mezzojuso (esclusa la sagra della castagna). Ci sono le consuete signore dalle finestre e dietro le finestre, passiamo davanti all’edicola con La Sicilia e Il Giornale di Sicilia, c’è la Panda bianca della Municipale. Intanto passiamo da una scuola di restauro e nelle mani del Gebbia americano viene deposta un’icona sacra, e lui gira con questa icona sacra in mano giù per il corso verso un piccolo party nella pasticceria Gesualda. Lì l’icona viene sostituita da un cannolo. Ma il sindaco qui ha in serbo una sorpresa. Di fronte alla pasticceria, su una palazzina cadente, tutta storta, con un balcone tutto sventrato, c’è una lapide: piazzetta Andrea Gebbia. Il Gebbia americano non crede ai suoi occhi: oh my god, ma non è possibile, vuole sapere tutto, ma è bellissima, chi era codesto Gebbia, a chi appartiene lo stabile. Il pasticcere dice: è mia (noi ci si preoccupa un po’ per il povero siliconvallico, gli venderanno la Fontana di Trevi? Però sembrano tutti sinceri). Ci raccontano la storia di questo Gebbia comandante nella Seconda Guerra mondiale, e sotto la targa due signori con coppola un po’ Franco e Ciccio, uno muto e basso e l’altro alto che chiede: «Cu ‘iè stu americanu», mentre Gebbia l’americano di San Francisco rimira la palazzina tutta storta.
A un certo punto il basso improvvisamente parla. «’U camion passò», dice solo. Come, ’u camion passò? «Trent’anni fa fu, u’ camion passò, non vide il balcone». Insomma nella stretta via u’ camion passò e si portò via mezza palazzina che adesso è tutta storta tipo torre di Pisa, ma col balcone, e non è mai stata riparata.
Gebbia si offre subito di ristrutturarla a sue spese mentre mangiamo questi cannoli della pasticceria Gesualda. Saluti. Tutti sono d’accordo per la carrambata l’anno prossimo. «La prossima volta a casa del sindaco deve venire». «E pure la cittadinanza onoraria vi diamo».
Mentre scendiamo verso Palermo, sul pullmino Gebbia in quel clima maliconico da fine di gita scolastica racconta che in famiglia hanno sempre avuto una specie di mania per le cacce al tesoro e le sorprese, fin da quando era piccolo. «A Natale nei pacchi non c’erano dei regali ma degli indizi, e mio padre ci faceva stare in piedi tutta la notte a seguire le tracce, una volta svegliammo anche i vicini perché uno degli indizi era nella loro cassetta della posta». Quindi questa è la sua vittoria finale, lui che adesso è uno degli uomini più ricchi del mondo. «Sì, questa è la mia vittoria», dice, ridendo, e poi ci separiamo a Punta Raisi, lui verso il suo Alitalia e io verso il mio Ryanair. Niente aereo privato. Forse noi non gli siamo piaciuti, ma Mezzojuso tantissimo.